Dove ha sbagliato Sciascia


Da: L’Europeo, n. 42, 20 ottobre 1978.


Lo scrittore siciliano ha preteso di decifrare le lettere di Moro con il dizionario e il suo fiuto. Ma ha dimenticato il contesto in cui sono state scritte: una terribile prigionia

Ecco le critiche e le osservazioni del semiologo Paolo Fabbri, docente alla facoltà di lettere e filosofia dell’università di Urbino, al metodo seguito da Leonardo Sciascia nell’analisi delle lettere di Aldo Moro.

PARE che Sciascia abbia ritrovato La lettera rubata. Come E. A. Poe, il romanziere detective ha decifrato il senso nascosto delle lettere di Moro, le ha sottratte alle letture deformanti della falsificazione politica. Ha riconosciuto il «vero» Moro e il suo testo autentico. Contro il disconoscimento dei cattolici, Sciascia fa atto di riconoscimento (e di riconoscenza) ad un uomo senza paura, magari non un grande statista, ma certo in linea con la condizione culturale e la psicologia individuale del cattolico meridionale, del democristiano che è sempre stato. Nel nome di Bernanos, Sciascia sfida la fiducia dei lettori: «Cristianamente ho scoperto l’uomo Moro» quello «vero»; agli amici che lo rinnegano, persino ai cardinali, Sciascia replica: «Ho capito che ero più cristiano del cardinale perché dovevo scrivere un libro cristiano».
Ma come ristabilire la «lezione» delle lettere? Con l’«immedesimazione»: identificandosi al prigioniero (fino a riprodurne, dicono, ossessivamente le condizioni di isolamento); con la filologia testuale, rivalutando in pieno tutte le parole di Moro. A partire dalla fedeltà al testo, dice Sciascia, posso mettermi al posto di Moro e ragionare come lui. Non ascolto analitico quindi, ma calcolo tattico razionale fondato sulla immedesimazione ai protagonisti del dramma: «Precetto assolutamente valido anche fuori di quel genere letterario denominato poliziesco, nella pratica». Illuminista nel metodo, cristiano nella passione (le possibilità dell’arte combinatoria non sono infinite, ma non di rado spaventose): ecco i termini dell’operazione Sciascia sull’«affaire» Moro. Operazione che «fa senso» per molti e a molti e merita di essere letta a sua volta.
Prima di tutto nel suo doppio fondo linguistico: discorso di finzione e di pedagogia, lo scritto di Sciascia si lascia così scomporre. C’è un’operazione di filologia al servizio di un testo narrativo: col dizionario del Tommaseo e un innegabile fiuto lessicale si ricostruisce una «filosofia della composizione» delle lettere di Moro, per generare un testo che ne colmi le omissioni e i segreti, ne traduca in avvertimenti le suppliche, gli accenni in rivelazioni. Poi c’è un altro livello (proliferante di modalità apodittiche: «è vero è certo»; di filologismi dimostrativi: «si può dunque dedurre», eccetera), destinato a comunicare e a persuadere della verità del testo di finzione. Discorso pedagogico quest’ultimo che si vuole critico e politico. Le due operazioni si sostengono l’un l’altra e qui sta la loro efficacia. Almeno secondo Sciascia. Proviamo a dubitarne: ma il dubbio non è più preliminare, cartesiano; dovrà venire alla fine della riflessione e non all’inizio. Accettiamo quindi il presupposto dell’analisi: l’«affaire» Moro è davvero già scritto (compiuta opera letteraria): la realtà fa rientrare come un’allucinazione quanto era stato riflettuto nell’immaginario della scrittura. E letterario è stato il conflitto d’interpretazione che si è acceso sulle lettere, delirio esegetico di attribuzione e di misconoscimento in bilico sui vocaboli e sugli enunciati, sui presupposti e sui modi, sugli aspetti e sui tempi. La morte è la soluzione pratica dell’interpretazione di un testo, delle lettere vive di Moro, della lettera morta della legge.
Allora precisiamo: l’impressione dell’affare Moro di una «consequenzialità immaginativa e fantastica indefettibile e da cui ridonda una costante tenace ambiguità» non è proprietà di tutta la letteratura, né della sola letteratura. È il criterio essenziale del «testo di guera», dell’uso dell’informazione in periodo di guerra clandestina condotta con i mezzi della falsificazione e del segreto. Questo conflitto, produttore di ambiguità, ha investito da capo a fondo la nostra vita (pubblica e privata) trasformando l’immagine che ci eravamo fatti dell’uso del linguaggio e dei segni. E costringendo a un nuovo modo di leggere che non è detto sia quello di Sciascia.
Vediamo perché. Una premessa: è più che probabile che la nostra società si sia rappresentata con una immagine idillica dell’informazione. Scambi di messaggi tendenzialmente veri, cioè esatti e pregnanti (quanto all’oggetto), onesti e sinceri (quanto al soggetto); emittenti e riceventi tendenzialmente eguagliabili nella capacità e volontà di comunicare; l’osservatore e il controllore imparziali e benevoli. Il più è del Maligno: distorsioni ideologiche confessabili, cattiva volontà, ignoranza, errori di fatto e di calcolo. Una linguistica costruita sul modello della teoria dell’informazione rafforzava l’ipotesi e la giustificava. Sotto lo sguardo di quanti sognavano di lavorare «in vista» della verità, negli ultimi tempi il quadro è drasticamente cambiato.
La lotta clandestina (dei clandestini e contro) sull’informazione non è più gioco di riserbo e di finte, ma guerra di alibi e di perquisizioni, di agenti doppi e di scambi coatti. Brigate e mafia «politici» e «comuni», gruppi di estrema destra e sinistra si scambiano i modi (o si accusano di scambiarli) in un enorme viticolo di reciproca dissimulazione. La semantica dei messaggi non tiene conto delle firme e le fughe riuscite (vedi la Mantovani) sono spesso l’inizio di un pedinamento di successo. Le notizie sono trappole e imboscate, le infiltrazioni e la fuga di notizie provocano eccessi di circospezione: sospettiamo di essere sospettati e così via.

Codici e finzioni

La riapparizione della società segreta ha alterato il regime comunicativo della nostra società civile, mentre la tecnologia capitalista avanzata (fotocopie, Xerox, eccetera) irride i segni di sicurezza e di verità (passaporti, titoli, monete). Le copie rendono gli originali appena verosimili. Diventa possibile contraffare le indicazioni (importanti e intime) e le loro connessioni; la guerra delle valutazioni che ne risulta rende indecifrabili gli indici che sembrano più cruciali, dato che sono proprio quelli che si ha più interesse a falsificare.
Le lettere di Moro sono da leggere in questo contesto: come testi da decifrare in un orizzonte di falsificazioni e di segreto. E lo sono, anche se fossero state scritte nel più assoluto candore, per una proprietà fondamentale del gioco strategico: chi parla o scrive prende sempre il posto dell’altro, comunicare è sempre rispondere, anticipando la risposta supposta dell’altro. Né Moro, né le Br, né i partiti credevano gli uni agli altri. Come avrebbero potuto? Anche la sincerità è una mossa tattica: la rivelazione ostentata sta per una dissimulazione e un offuscamento. Una volta squalificata la comunicazione, il controllo si sposta sul modo con cui viene porta; il testo d’informazione comincia a trasudare espressioni: toni, minuzie e sfumature. Ogni dettaglio può diventare significativo e chi legge lo sa, così come chi scrive sa che probabilmente l’altro sa che lui lo sa. E così via, nel delirio dell’interpretazione: sulle lettere di Moro si sono fatti persino anagrammi. Chi studia i segni sa quanto il loro significato sia legato all’altezza della posta in gioco: quando si tratta di vita o di libertà il senso non è «pacifico». In tempi di pace il valido e il falso stanno a rispettosa distanza, anche se un «continuo», ma quando è in gioco la morte di un uomo o il collasso di un regime le due estremità si congiungono. Le parole, già arbitrarie rispetto alle cose, diventano nodi scorsoi. I discorsi più chiari sono quelli più probabilmente falsificati e le falsificazioni evidenti danno a pensare che non si sia falsificato niente.
In questo processo irreversibile e cumulativo si squalifica l’innocenza e l’esattezza dell’informazione, come sa bene chi lavora nei «media». Questa è la forma del nodo a cui sono appese le lettere di Moro e con esse molte azioni politiche già compiute e altre a venire. L’«escalation» strategica produce una crescente impossibilità di decidere; in questa situazione la verità è solo un colpo ben aggiustato. Queste cose non sfuggono alle domande di Sciascia (e di Poe), sfuggono alla sua risposta. E c’è una ragione: la scelta del modello di immedesimazione. Non ci interessa qui perché Sciascia voglia prendere il posto di Moro, ma il fatto che per farlo finisce per ricostruirne la strategia sopra un postulato di verità psicologica. Ci vuole un Moro limitato ma vero, coerente, capace di «seminare il dubbio nei giovani brigatisti in buona fede» da opporre a un Moro «spurio», falso documentario della Democrazia cristiana. La filologia ha scopi civili: serve a Sciascia per revocare in dubbio la nuova «Donazione di Costantino», il mandato che i cattolici chiedono allo Stato attraverso la dichiarazione di lealtà che garantisce loro il disconoscimento di Moro.
Ma per questo Sciascia ha bisogno di un personaggio pieno di dignità, coraggio e coerente a una fisionomia di cattolico meridionale. Col risultato, indesiderato spero, di giustificare la Democrazia cristiana di Moro contro quella attuale; e soprattutto di falsificare le lettere a forza di autenticare lo scrivente. Chiunque abbia scorso quegli scritti ha in mente quante volte Moro è costretto, secondo gli interlocutori e i momenti, a scegliere tra le parti (la famiglia, il partito), ad associarsi alle richieste delle Br mentre tenta di dare rivelazioni, a minacciare che potrebbe rivelare segreti e così via. Ritrovare all’ostaggio una identità psicologica e di ruolo al di là della strategia che gli è stata in larga parte imposta; rivendicare una comprensione più cristiana dei cristiani significa praticare l’esatto inverso del gesto di misconoscimento, restare nella stessa logica. Sotto le parole c’è un personaggio da ricomporre, da sottrarre all’adulterazione. In piena crisi della verità, Sciascia non interviene per aggravarla (ci sono altre soluzioni?) ma per praticare il gioco «rétro» della rifondazione della verità personale. Anche le Brigate rosse sono distinte in militanti in buona fede e in capi in malafede.

Un messaggio non è solo parole

Di queste scelte è complice il metodo. Fondata sulla ricostruzione del senso proprio (pieno e primo) della parola, la filologia ha sempre pensato la interpolazione e la falsificazione come esteriori alla lingua e da risolvere in via ortografica. Perché continua a immaginarsi il linguaggio come una sommatoria di parole che designano il mondo e non come una struttura di atti (ordinati in tattiche e strategia) per modificare gli interlocutori. La linguistica moderna si pensa invece sempre più come una scienza degli enunciati e del loro potere, non come un catalogo di forme. Il vocabolario del Tommaseo non le basta per comprendere le minacce e le promesse, le provocazioni e le seduzioni contenute nelle lettere di Moro. Per comprendere bisognerà saperne di più su cosa Moro ha detto negli «interrogatori»; quali vocabolari orali o tacite intese lo legavano ai destinatari (una parola non rinvia solo al suo senso ma ricorda le sue precedenti circostanze d’emissione: chi e a chi, come e quando è stata detta). Troppe informazioni mancano e su queste si dovrà fare luce, senza troppe illusioni.
Intanto attenzione a che «il pieno rispetto delle parole di Moro non faccia un effetto boomerang». Prendiamo un esempio: l’analisi della prima lettera, quella a Cossiga. Per Sciascia, Moro intendeva dare indicazioni sul luogo della sua prigionia. Per questo scrive al ministro degli Interni. Servendosi «del solo e banalissimo codice dell’insensatezza e del non senso» lascia trapelare che pensa di trovarsi a Roma o nella città del Vaticano o in qualche ambasciata. Gli indizi si riducono a «due disperati punti interrogativi» che seguono la menzione della Santa Sede: «O anche di altri? Chi?» e di un aggettivo fuori posto. Così Moro risponderebbe alla tattica delle Br, costruita sulla «invisibilità dell’evidenza», con la stessa strategia; lasciando trasparire, nella redazione di un testo assai calmo, la emozione dell’interrogativa.

Chi è il vero «manipolatore»

Fa piacere che i personaggi della finzione di Sciascia ragionino con la stessa finezza dei racconti di Poe; è però lecito dubitare dell’analisi linguistica. Gli interrogativi starebbero a significare una «ansiosa ricerca di mediazione» ma esprimerebbero una indicazione di luogo; rinvierebbero, direbbe un linguista, «anaforicamente», per ripetizioni iniziali, alla Santa Sede. Ma sappiamo ormai che come un imperativo può essere un atto di suggerimento o di minaccia o di promessa condizionata (e, perché no?, un ordine), un interrogativo può funzionare come una richiesta o una intimazione o un invito a trarre un’ovvia conclusione (e, perché no? un’indicazione). Una forma interrogativa è una richiesta e per di più emozionale solo per una filologia ottocentesca. Dipenderà dal tono che ci metterà il lettore, tono che dipende da un sapere condiviso, cioè da quello che il ricevente sa di quello che l’emittente sa che lui sa.
Quell’interrogativo potrebbe essere una mossa di strategia, infatti autorizza anche l’interpretazione di Sciascia: ma non l’approva. Sciascia può sostenerla col potere che gli dà il punto di vista del narratore onnisciente: per Moro «la certezza (di trovarsi ancora a Roma) è confortata da qualche segno acustico che i carcerieri non riescono a impedirgli di cogliere: il rumore del traffico, un suono di campane, un pulviscolo di voci…». L’enunciazione letteraria ha prodotto il suo modesto ma ripetuto miracolo. Ma è un colpo di forza linguistico che ci conferma: nello scambio strategico (scambio di colpi e non di parole) siamo tutti nella condizione del volo cieco o come si dice strumentale. Dipende dallo strumento: bisognerà quindi alzare il tiro linguistico oltre la filologia. Ma già la filologia ha fatto buona guerra: ha indicato quanto il «melodramma d’amore per lo Stato» inscenato da cattolici e comunisti sia una operazione di opportunismo politico ottenuto con un colpo sui testi di Moro. Solo che spera poi di fondare la propria analisi in verità. Per questo nello scritto di Sciascia il testo di immaginazione e di invenzione (la storia ricostruita di Moro prigioniero) non si limita a produrre il proprio singolare rispetto di verità, ma viene raddoppiato da un discorso didascalico e moralizzante che zavorra il primo di esattezza e di sincerità.
Si rifletta a un ultimo punto. Le lettere di Moro sono state pensate nella strategia della loro produzione e circolazione (ora e allora) come un evento-messaggio. Un evento destinato ai media di massa, pensato e svolto per un «apparato di simulazione» dove l’informazione cambia ancora una volta natura. Fatti e ragioni si trasformano in spettacolo: le modalizzazioni di viltà e sincerità contano solo come marchi di genere. I segni dei media sono sempre più simulacri di secondo ordine: finzioni di finzioni strategiche che finiscono per programmare gli eventi tragici. Ma certo, nella vertigine doppia delle strategie e dei media, riesce difficile accettare il tentativo di Sciascia di ristabilire una prospettiva, un privilegio del politico fondato sulla coerenza morale di un uomo. Con tutta la possibile simpatia, cosa pensare del tentativo di reiniettare realtà e verità in questo simulacro? Dissimulare l’arresto di questa causalità fluttuante e reversibile per ritrovare un punto fermo in una politica scardinata dalla simulazione e dalla guerra segreta? Sappiamo che questa indistinzione «chi è il manipolato? Chi il manipolatore?» è la peggiore di tutte le sovversioni e che l’informazione finisce per essere il miglior mezzo di dissuasione politica.

Print Friendly, PDF & Email

Lascia un commento