Artificare il tatuaggio: un dermatoscopio semiotico

All’interno del seminario internazionale di studi
Iconologie del tatuaggio. Scritture del corpo e oscillazioni identitarie

Museo internazionale delle marionette “Antonio Pasqualino”
Palermo

1 – 2 dicembre 2017

1 DICEMBRE
Paolo Fabbri
Artificare il tatuaggio: un dermatoscopio semiotico

La pratica contemporanea del tatuaggio conosce una diffusione planetaria. Con un meccanismo caratteristico della semiosfera, la scrittura sul corpo da anti-linguaggio marginale è diventata moda globalizzata. Se sino a pochi decenni fa il tatuaggio era fenomeno di nicchia, e rivendicava in vario modo l’essere minoranza, oggi si contano numeri tali da normalizzarlo, se non banalizzarlo: nel 2015, circa il 30 % delle persone ne fanno uso negli Stati Uniti, il 13 % in Italia: che significa, da noi, più di sette milioni. Come per tutte le mode di massa, inizia a far tendenza il fatto di non esibirne, e se ne facilita così l’oggettivazione.
Diverse scienze umane si sono occupate del fenomeno, in particolare l’antropologia criminale a quella culturale, nei loro intrecci costitutivi con la sociologia, il folklore, la teoria delle immagini, la storia letteraria e gli studi culturali e, not least, la semiotica, teoria del segno e del senso. La questione dell’identità individuale e collettiva dunque dei processi di costruzione, trasformazione e denegazione del segno che dal somatico tracima nel sociale (e viceversa), peraltro, coincide solo parzialmente con quella relativa alla scrittura del corpo. La pratica del tatuaggio produce tradizioni – anche inventate – e traduzioni anche al di là dell’ambito strettamente etnico, andando a coinvolgere, oggi più che mai, la dimensione estetica: e cioè sensoriale e somatica, ma anche visiva, vestimentaria, ultravestimentaria e artistica.
Lo sguardo semiotico, raddoppiando i piani del problema (espressione/contenuto), permette non solo di interpretarne i molteplici percorsi antropologici ma anche i luoghi in cui, bloccandosi, tendono a istituzionalizzarsi oppure, al contrario, sciogliendosi, propongono soluzioni originali e ‘creative’. Da una parte, il corpo, slittando fra dolori subiti e sofferenze volute, tende a diventare altro da sé, a metaforizzarsi (quali analogie, poniamo, fra tatuaggio e street art, fra tatuaggio e marchiatura, fra tatuaggio e brand o antibrand?). Dall’altro la società, cosiddetta liquida si adopera per costruire significati che, giocando con il destino dell’indelebile, non fanno che moltiplicarsi cancellandosi a vicenda (l’io e il sé, il gruppo e l’alterità, il riconoscimento e il disconoscimento.). Sul piano dei valori, se il marchio, storicamente, è apposizione d’infamia, il tatuaggio è la sua rivalorizzazione positiva. E se la marchiatura è, in altri contesti, una delle funzioni narrative delle fiabe di magia, che sanziona e segnala l’essere eroe del soggetto, il tatuaggio inverte ancora una volta il gioco, e caratterizza trasgressivamente gli antieroi, i maledetti, i diversi, gli emarginati – pronti oggi, però, a farsi legione.

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