Complesso di Santa Cristina,
Aula Magna
Piazzetta Morandi, 2
Bologna
20 Marzo 2019, ore: 17:00
Incontro con Giacomo Marramao, Università di Roma Tre e Paolo Fabbri, Università IUAV di Venezia.
Coordina Lucia Corrain.
L’evento fa parte della rassegna
I Mercoledì di Santa Cristina 2019
dal 30 Gennaio al 17 Aprile 2019
Ingresso libero
Ciclo di conferenze e di presentazioni di libri su temi della storia dell’arte nelle sue più diverse manifestazioni e metodologie
Sintesi, a cura di Mirco Vannoni, dell’intervento di Paolo Fabbri all’incontro Fabio Mauri e l’esperimento del mondo tenutosi il 20 marzo 2019 presso l’Aula Magna del Complesso di Santa Cristina a Bologna.
Il 20 marzo, per “I Mercoledì di Santa Cristina”, si è tenuta la conferenza coordinata da Lucia Corrain dal titolo Fabio Mauri e l’esperimento del mondo, che ha permesso di riflettere sull’efficacia della disciplina semiotica nel dialogo tra la filosofia e la teoria delle arti. Oggetto dell’incontro il libro L’esperimento del mondo. Mistica e filosofia nell’arte di Fabio Mauri (Bollati Boringhieri 2018) di Giacomo Marramao, professore emerito dell’Università Roma Tre. Dopo un’introduzione sul lavoro artistico di Fabio Mauri, Lucia Corrain ha lasciato la parola a Paolo Fabbri, professore alla LUISS di Roma, una delle voci più autorevoli della semiotica contemporanea.
Fabio Mauri è uno degli esponenti dell’avanguardia italiana del secondo Dopoguerra. Fino al 1957 è vissuto tra Bologna e Milano, poi si è trasferito a Roma. Risale agli anni del periodo bolognese la sua amicizia con Pier Paolo Pasolini, allora tra i giovani intellettuali che orbitavano intorno al liceo Galvani. Proprio la relazione creativa con quest’ultimo ha dato vita nel 1942 alla rivista letteraria «Il setaccio» e, più avanti, alla performance del 1975 Intellettuale. Il Vangelo secondo Matteo di/su Pier Paolo Pasolini in occasione dell’inaugurazione della nuova Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna. Mauri ha assunto il cinema come campo di relazione con l’arte ponendo l’attenzione dell’osservatore, come Lucia Corrain ha messo in luce, sul fatto che la ‘pelle’ del regista diventi il luogo di proiezione della sua opera che così agisce come uno schermo di rappresentazione del proprio film. A questo si è collegato Paolo Fabbri evidenziando come il rapporto tra l’autore, il proprio lavoro e la riproduzione sul suo corpo dello stesso sia il prototipo di un’operazione che oggi definiremmo concettuale.
Paolo Fabbri ha aperto l’incontro partendo dalla retrospettiva Arte per Legittima Difesa di Fabio Mauri, ospitata alla Galleria D’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo (2017), spiegando che il linguaggio, per Mauri, è guerra. Questa singolarità – afferma Fabbri – è riconoscibile anche nei suoi scritti in cui emerge un conflitto, di tipo argomentativo, tra una sintassi e una struttura grammaticale proprie dell’italiano e la serie delle frasi nella loro totalità. Quella di Mauri risulta essere quindi una scrittura d’artista in cui si susseguono testo e immagini che lasciano l’impressione di aver inteso i singoli enunciati ma, al contempo, gettano un’ombra di incomprensione sul portato di senso generale del periodo.
Nei lavori di Mauri, autodefinitosi sperimentatore di atti linguistici espressi con tecniche diverse, emerge chiaramente il problema di una memoria legata alla storia europea del XX secolo. Fabbri ha portato ad esempio il ruolo ricoperto dalla visita di Hitler in Italia e la potenza dell’estetica del nazionalsocialismo che, raffrontate con la speculare dimensione dell’orrore dei campi di concentramento, hanno condotto alla realizzazione di performance come Che cos’è il fascismo (1971) e Ebrea (1971). A questo proposito si è messo in evidenza come sia proprio l’idea del corpo completamente marcato dalla guerra a essere uno dei temi fondamentali dell’esperienza artistica di Mauri.
In relazione a queste tematiche, l’attraversamento di una fase di intenso misticismo ha spinto Mauri a riconoscere nell’arte un linguaggio che potesse dare una disposizione – Paolo Fabbri qui fa riferimento al concetto di dispositio retorica – al disordine causato dalla guerra. L’arte, in stretto rapporto con la memoria, diventa così l’unico modo per mettere ordine alle figure mostruose scaturite dall’incontro dell’artista con la follia del conflitto. Fabbri in merito a questo pone l’accento su una diversa possibilità di guardare all’opera di Mauri e alla peculiarità del suo linguaggio artistico; in riferimento alla collezione di fotografie di guerra da lui accumulate, afferma:
Mentre Mauri organizzava il suo proprio dispositivo, io cercavo di capire in che misura lui aveva intuito che c’è, nel linguaggio, non solo una dimensione dichiarativa (“ecco il mondo come è”), non solo una versione banalmente referenziale: il linguaggio dice delle cose, parla delle persone, mette in comunicazione. Il linguaggio può essere un luogo non solo di affermazione: esclamativa, iperbolica, violenta, aggressiva; ma altresì un luogo dove la gente combatte. Il linguaggio è anche un luogo non solo di contratto comunicativo e di conflitto, come ci racconta la nostra società – orientata verso la pubblicità –, ma anche un modo fondamentale in cui viene organizzata la propaganda. In questo caso era Goebbels a cui Mauri pensava: la propaganda fascista fu grande perché si è inventata tutta una serie di strategie che sono ancora oggi attive.
Questa era la mia idea: che Mauri, tutto sommato, mostrava come nella guerra ci fosse una serie di regole di reciprocità per cui persino i nemici finiscono per somigliarsi […]. Cosa succede durante il conflitto? Nell’obbligo inesorabile di dire: “ma l’altro adesso cosa vuol fare?”, “lui cosa pensa che io voglia fare?” e “lui cosa pensa che io pensi che lui pensi?”, emerge l’idea di un delirio di pensiero distruttivo che tanto aveva affascinato Mauri, da farlo diventare matto.
Parallelamente Mauri riflette sull’ambiguità della Germania nazista in relazione con il più ampio contesto europeo. Espressione di questo interesse, ricorda Fabbri, è la performance Che cosa è la filosofia. Heidegger e la questione tedesca. Concerto da tavolo a cui Giacomo Marramao ha preso parte, per quattro volte, interpretando il ruolo del filosofo Heidegger. Mauri, in questa performance – servendosi della figura di Heidegger – mette in luce come la Germania degli anni ’30 e ’40 possa essere riconoscibile sia come espressione delle più alte tradizioni filosofiche che come macchina autarchica basata su forme di potere e controllo, proprie del nazismo.
Fabbri a questo punto sposta l’attenzione sul lavoro che Marramao, da filosofo, ha svolto nel suo libro oggetto dell’incontro. In particolar modo si concentra sulla messa in relazione delle tematiche affrontate da Mauri – la guerra, la Shoah, l’ebraismo – con l’opera di Anselm Kiefer, come ad esempio Eisen-Steig del 1986. L’accostamento tra due stili così diversi è il risultato di un lavoro proprio della filosofia dell’arte.
Per meglio comprendere il lavoro di Marramao Fabbri ha fatto ricorso a un paragone: “come per il caso del vero artista, anche per la filosofia, oggetto di studio sono i concetti”. Lavoro del filosofo è quello di indagare la dimensione implicita dell’arte così da poterla ripensare. Su queste premesse la semiotica, con il suo contributo, permette di far chiarezza nel dialogo tra la filosofia dell’arte e l’attività propria della storia e della teoria delle arti.
Con rigore, Fabbri ricorda come dalla fine dell’800 si è avuta una differenziazione tra concetti e segni. La semiotica, nel suo esercizio, si pone in totale opposizione a questa idea. L’esistenza dei concetti, come contenuto strutturato, necessita della presenza di una forma che li esprima e Fabbri sostiene che nel caso di Marramao questa sia il saggio.
Nel suo libro L’esperimento del mondo. Mistica e filosofia nell’arte di Fabio Mauri, infatti, l’autore mette a sistema la capacità di “scavare le radici dell’identità tedesca” di Kiefer e l’analogo “scavo operato da Fabio Mauri sulla tragedia della cultura situata al centro del Novecento”. A partire da queste considerazioni, Fabbri invita a prestare attenzione alla condizione, necessariamente strutturale, per cui la potenza del messaggio dell’opera d’arte trova il suo fondamento non tanto nella forza espressiva dell’opera in sé quanto nel rapporto che questa intesse con le altre opere d’arte. Ecco che viene così esplicitato il meccanismo che ha portato al confronto fra questi due artisti, legati tra loro da una tematica filosofica di base: è possibile l’arte dopo Auschwitz?
Fabbri ha continuato la propria riflessione portando l’attenzione su un’altra opera di Mauri, Muro d’Europa (1979), in cui è possibile rintracciare linee di continuità con il pensiero del semiotico estone Yurij M. Lotman. Così come nella scrittura tutto conta, compresa la punteggiatura, lo stesso procedimento vale anche per l’arte. L’opera, in cui sono presenti un muro e una barca, è proiettabile nell’oggi e trova i suoi agganci in tutta una serie di problematiche culturali contemporanee che certo Mauri non avrebbe potuto immaginare al momento della realizzazione. Fabbri, facendo riferimento a Lotman, evidenzia come questo sia “la dimostrazione che l’arte contiene abbastanza complessità da avere una memoria futura”. La memoria di un testo poetico è una memoria a venire. “Spesso interessati a comprendere da dove l’arte provenga non ci soffermiamo a prendere in analisi dove l’arte sia diretta”. Tali visioni non sono incompatibili, anzi: Muro d’Europa è la prova del continuo scambio tra una ricostruzione filologica e la specificità della disciplina semiotica.
In ultima istanza Fabbri si è interrogato sulla convinzione di Mauri per cui l’arte debba andare al di là dei suoi stessi limiti e, utilizzando la distinzione stato/processo cara al linguaggio semiotico, ha messo in luce come vi sia una sottile differenza nel considerare l’arte in rapporto ai limiti oppure alle convenzioni. I primi, visti come stati, risulterebbero violabili; le seconde, come processi, sarebbero modificabili dalle azioni, in modo da potersi adattare alle occorrenze. Si chiede quindi: “l’arte trasgredisce i limiti o sposta le convenzioni?”
Lucia Corrain ha ripreso la parola evidenziando un aspetto interessante analizzato da Fabbri: l’idea della memoria futura dell’arte. A questo proposito è intervenuto Francesco Marsciani: “Una struttura come l’arte non è necessariamente argomentativa. Per questo può contenere temporalità diverse e il passato si può riverberare sul futuro e viceversa. L’arte non segue una modalità della conseguenza tipica del ragionamento predicativo”. Per concludere, Paolo Fabbri ha aggiunto che “L’arte si riferisce ad altra arte ma non argomenta. Se alla base della razionalità classica risiede il sapere legato alla conoscenza delle cause – scire est per causas scire – noi diciamo piuttosto: sapere è sapere secondo il senso”.
Molto tempo ancora sarebbe stato necessario per sviluppare in modo pieno il dibattito stimolato dai tanti interrogativi sorti durante quest’incontro che ha permesso di riflettere sull’importanza del dialogo tra filosofia, semiotica e teoria dell’arte. Per questo non possiamo che auspicare nuove occasioni di confronto su questi temi.