Anno Accademico 2004-2005 – Pittura e letteratura nell’opera di Giorgio De Chirico

Corso di Letteratura artistica
Facoltà di Design e Arti, Corso di Laurea in Arti Visive e dello Spettacolo, IUAV

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Pittura e letteratura nell’opera di Giorgio De Chirico

Il corso di Letteratura artistica dell’anno accademico 2004-2005 ha dato la possibilità di studiare con metodo i rapporti tra pittura e letteratura nell’opera di Giorgio De Chirico. Finalizzato all’estensione e all’approfondimento dei modi di traduzione semiotica tra sistemi di diversa sostanza espressiva – linguistica e visiva – il ciclo di lezioni ha fornito le basi per l’avvio alla competenza costruttiva di testi multilinguistici e plurisegnici. In questa prospettiva il corpus di analisi ha compreso, da un lato, alcuni saggi teorici, dall’altro oggetti empirici, immagini e scritti letterari, con particolare attenzione al caso di Ebdòmero. Il lavoro che segue è una documentazione accurata del tema del corso, completa di collegamenti ipertestuali alle migliori tesine di approfondimento svolte dagli studenti.
Innanzitutto, per offrire una visione chiara dei presupposti del proprio insegnamento, Fabbri valorizza il concetto di formazione distinguendolo da quello di informazione: per il primo si richiede il minimo di spazio e il massimo di tempo; il secondo, viceversa, vuole apparati maestosi nei quali è sufficiente impiegare una minima quantità di tempo. Prefiggendosi l’obiettivo di formare e non di informare, il professore precisa che si avvarrà di una lettura lenta e che l’indagine di Ebdòmero seguirà le procedure adatte all’osservazione di un quadro. Anticipa che si tratta di un’opera “eccedente in spiegazioni”, a conferma che ogni testo risulta sempre più complicato del metodo. Il terreno accidentato della pratica testuale, specie se l’oggetto scelto è recalcitrante, permette di “scervellarsi”. Pone cioè nelle condizioni di fare teoria.
Le prime lezioni sono dedicate ad un inquadramento storico e biografico della personalità di Giorgio De Chirico (1888-1978). Se ne sottolineano la nascita in Grecia (Volos, Tessaglia), da genitori italiani, e i rapporti di complementarietà con il fratello Andrea, musicista ma anche pittore, il quale più tardi assumerà lo pseudonimo di Alberto Savinio1. Degli anni di Monaco e di Parigi vengono soprattutto ricordati la frequentazione delle opere di Arnold Bocklin e di Max Klinger e l’approccio con il pensiero di Friedrich Nietzsche e di Arthur Schopenhauer, nonché la prima esposizione al Salon d’Automne (1912). Si fa quindi riferimento al 1916, data in cui i due fratelli, destinati dalle autorità militari all’ospedale di Ferrara, conoscono Carlo Carrà e Filippo De Pisis e in gruppo danno vita alla Pittura metafisica. Come si evince dalle Memorie della mia vita (1962), testo-base per la conoscenza delle vicende biografiche dell’autore, a partire da quel momento si instaura un rapporto ambiguo con i Surrealisti, da un lato di interesse, dall’altro di polemica per la noncuranza della tecnica che De Chirico riscontra nella maggior parte della pittura moderna. Nel 1919 la sua prima personale a Roma è stroncata da Roberto Longhi, che diventa il principale denigratore dell’artista. Nel 1929 si situa la pubblicazione, a Parigi, per la casa editrice Pierre Lévy, di Hebdomeros, le peintre et le génie chez l’écrivain, testo autobiografico considerato il capolavoro di De Chirico e la sua più importante opera letteraria. Al tempo fu salutato come il “capolavoro della letteratura surrealista”, non si sa quanto consenziente l’autore. Altro evento fondamentale per le indagini del corso è la mostra del 1946 a Parigi, quando De Chirico dichiara che tutte le opere del periodo 1910-1920 lì esposte sono false. Iniziano le note polemiche sull’autenticità delle sue tele, destinate ad aggravarsi tanto da sfociare in vicende giudiziarie e in sequestri. A dimostrazione del fatto che nonostante le valutazioni negative della critica, gli atti di accusa non si fermano, nel 1950 l’artista organizza una Antibiennale nella sede della Società Canottieri Buccintoro di Venezia. Gli obiettivi dell’esposizione sono presentati da De Chirico nella prefazione al catalogo della mostra, che reca il titolo “Museo degli Orrori. Dichiarazione Biennale a fuoco”. La seconda edizione italiana di Ebdòmero, dopo la prima del 1942 (Milano, Bompiani), esce con una serie di illustrazioni realizzate dallo stesso autore (Roma, Bestetti, 1972).
Fabbri definisce il romanzo in esame un racconto teorico e figurativo che nasce dall’ambizione di De Chirico ad essere filosofo. Il titolo riprende il nome del protagonista, con cui l’autore si identifica, e per deriva dalla traduzione letterale “sette giorni” può significare Settimino, ossia nato prima, che previene i tempi, e dunque vaticinatore. La decifrazione di Ebdòmero è una vera e propria impresa. Non solo nessuno l’ha mai realizzata, ma teorici e critici hanno rinunciato a cimentarvisi per le difficoltà che l’opera presenta. La narrazione non si attiene alla logica del post hoc, ergo propter hoc. Non c’è un inizio e non c’è una conclusione, cioè non viene raccontata una storia in sé compiuta, con un’evoluzione chiara e diretta ad uno scopo. Se si valuta l’aspetto grafico dei puntini di sospensione, Ebdòmero non inizia, continua, è già in fase di processo, e in fase di processo si conclude. Considerando invece la forma verbale, il racconto esordisce con un “E allora incominciò” e ci lascia con un “fine”. Numerose sono le marche di tempo e di spazio e frequente è l’uso di tratti classici del romanzo. Ma, contraddizioni a parte, l’atto della segmentazione, imprescindibile per scomporre l’opera e riconoscere le diverse fasi, diventa arduo perché ogni avvenimento costituisce un quadro autonomo e raramente si trovano anelli di congiunzione tra una scena e l’altra. Come insegna Ermes, il dio della comunicazione e l’esperto, per eccellenza, dei nodi e degli intrecci, il ragionamento non sempre segue vie lineari, può anche assumere l’aspetto dell’enigma. Non è un caso se la figura più sveglia tra le divinità dell’Olimpo, allo stesso tempo “oniropompo”, ricorra tanto di frequente nei quadri e negli scritti dell’autore.
Già la prima pagina dà al lettore, con modi di istruzione metatestuale, un segnale dell’atteggiamento adeguato alla ricerca:

«È strano,» – ripeteva Ebdòmero a se stesso «a me, il pensiero che qualcosa sia sfuggito alla mia comprensione, impedirebbe di dormire, mentre la gente in genere può vedere, udire o leggere cose per essa completamente oscure senza turbarsi».

In linea con l’impostazione del romanzo, che non possiede una coesione ma procede con salti di coerenza, per implicazioni internamente regolate, Fabbri invita gli studenti a cogliere innanzitutto i leit-motiv e a suddividerli secondo tipologie. Ne elenca alcuni, che approfondirà in itinere: la finestra; le apparizioni, i sogni e i ricordi; la rielaborazione della mitologia greca; la statua; l’ombra; il sistema dei punti cardinali associato alle ore del giorno e alle stagioni; le partenze e i ritorni; le passioni; la sensorialità e gli stati somatici; la ridondanza ritmica accelerazione/rallentamento; il distacco fisico e psicologico rispetto ai compagni; la meditazione. La classificazione diventa allora la prima e fondamentale operazione metodologica. Il semiologo sottolinea che nella storia della letteratura canonica De Chirico non compare, forse per la polivalenza di sostanze espressive che i suoi libri contengono. Agli occhi della critica rimane un pittore, e si tratta di vedere allora come scrive uno da pittore. Risaltano soprattutto due aspetti: il primo è la teoria della prospettiva adattata alla narrativa, il secondo riguarda invece la fatica che si incontra nel memorizzare il testo, quasi fossero state ingegnate delle strategie, o impiegati degli operatori di oblio, per impedire di ricordare. A tal fine coopera anche una delle tecniche di produzione più diffuse nell’intero romanzo, basata sull’invenzione di quadri e di autori e in parallelo sulla descrizione di artefatti già esistenti. L’obiettivo dell’autore sembra essere quello di rispecificare i meccanismi di significato interni ad ogni opera, di studiare il loro modo di pensare mentre rappresentano. In tutti i casi, mancando i nessi tra le numerose sequenze di descrizione, l’opera necessita di riletture sistematiche, mirate alla ricostruzione del suo lessico.
Quanto alle declinazioni della prospettiva, sia nel linguaggio pittorico sia nel linguaggio verbale l’autore mostra di prediligere le piazze, le sagome dei templi, lo spazio dello studio dalle cui finestre l’occhio guarda fuori. Da qui si originano spettacoli, visioni, sogni e ricordi. Ebdòmero è infatti un testo fondato sull’idea che l’impressione suscitata da un corpo non presupponga di necessità la presenza di un corpo. L’immaginazione, rendendo attuale ciò che non lo è, interrompe le attività e il corso “normale” della nostra vita e ci porta a vedere diversamente i rapporti tra noi e gli altri, tra noi e le cose. All’immaginazione si aggiunge la forma del sogno, “una realtà completa”, dice Arthur Schopenhauer (1851, ed. 1981), in cui gli oggetti descritti appaiono determinati e chiari, realizzati con precisione, sia nei dettagli più piccoli e casuali, e persino nelle circostanze accessorie, che spesso ci ostacolano. Ogni corpo ha la sua ombra e cade precisamente secondo la gravità e il suo peso specifico. Si confrontino le scene del romanzo riportate a pagina 12, 30 e 85. In particolare, nello studio sull’attività artistica di Achille Funi, De Chirico (1920, ed. 1985, pp. 370-371), riferendo della predisposizione del pittore ferrarese a palesare strane e profonde visioni, rende noto il sogno in cui la sorella, forse per i poteri di una statua che comincia a muoversi un po’ e ad avanzare verso di lui, cresce progressivamente di proporzioni. La scena gli fa venire in mente Leopardi:

Ogniqualvolta riesce a socchiudere l’uscio vede sua sorella che è diventata più grande; dopo la settima volta non sente più resistenza sulla porta e sua sorella è talmente cresciuta da toccare con la sommità del capo il soffitto della stanza, come quel gallo fantastico nello Zibaldone di Leopardi, che con la cresta toccava il Cielo e con le zampe la Terra2.

Ora, si dà il caso che una delle più belle visioni avute da Ebdòmero nel sonno tragga proprio origine, come Fabbri intuisce dal verso “Scio detarnagol bara letztafra” fedelmente ricopiato, da una fantasmagoria del Cantico del gallo silvestre (1824):

Fin lì tutto andava bene; ma ecco, il gallo, o, piuttosto, quella sagoma, quell’ombra portata di gallo divenire a poco a poco ossessionante e cominciare a pigliar nel paesaggio un posto preponderante e avere una parte importante nella vita di quel cantuccio modesto e tranquillo; era un posto e una parte che non si sarebbero mai sospettati prima; ecco ora essa scendeva; nel tempo stesso saliva; agendo come un corrosivo mangiava il campanile da un lato mentre dall’altro intaccava il cielo ritagliandovisi e sviluppandovisi con una lenta ed inspiegabile regolarità; ora i piedi del gallo toccavano il suolo e la sua cresta il cielo; lettere bianche, lettere solenni come un’iscrizione lapidaria, s’avanzarono un po’ da ogni lato, esitarono, abbozzarono nell’aria una specie di quadrilatero fuori moda e finalmente si decisero a raggrupparsi secondo il desiderio d’una forza misteriosa; a poca altezza dal suolo formarono questa strana iscrizione: Scio detarnagol bara letztafra.(Ebdòmero, pp. 42-43)

Giorgio De Chirico, 'Gallo' (da 'Ebdòmeros', Roma: Bestetti, 1972)
Della versione di De Chirico colpisce soprattutto l’animazione attoriale concernente le lettere.
La chiaroveggenza – continua Schopenhauer – è soltanto un potenziamento del sogno, cioè un costante sogno vero, che però, in questo caso, è indirizzato all’esterno, verso avvenimenti futuri, e può essere rivolto dove si vuole. Ebdòmero ne offre esempi stimolanti (p. 74; p. 100; p. 117). Nella sua più importante raccolta di scritti teorici e lirici, Il meccanismo del pensiero (1985), De Chirico menziona spesso il filosofo. Giudicando la pazzia un fenomeno riguardante ogni profonda manifestazione dell’arte3, evoca, in special modo, la sua definizione di “pazzo” come colui che ha perduto la memoria. Il filo della collana che tiene legati i ricordi e che rende possibile spiegare la logica del vissuto di ogni giorno si è spezzato. Tale perdita diventa per gli artisti una risorsa: significa potere vedere le cose sotto un’altra angolazione. Anche la forma del ricordo assume perciò una luce nuova (Ebdòmero, pp. 39-40; p. 53; p. 92).
Poiché molte visioni si generano dall’attività di focalizzazione su singole porzioni di spazio (Ibidem, p. 17; p. 39; p. 40), Fabbri si cura di precisare la differenza tra particolare e dettaglio, richiamandosi alla trattazione dell’argomento in Daniel Arasse (1992). Il particolare è semplicemente la descrizione di un elemento, della componente di un oggetto, che non acquista rilevanza se non per il fatto di arricchire e completare la descrizione stessa. Il dettaglio possiede invece il valore di un vero e proprio segno, si fa in sé espressione che apre a un contenuto appartenente ad una dimensione e ad un livello diversi da quello della descrizione. È, per l’appunto, come una finestra affacciata su altri panorami.
Con questa strategia l’autore prepara l’atmosfera adatta alla resa del momento metafisico. Richiamandosi al saggio “Noi metafisici” (1919)4, Fabbri discute con gli studenti dell’accezione di tale concetto nell’universo dell’autore. Metafisico non è “ciò che sta dopo le cose fisiche, come in una sorta di vuoto nirvanico”. Non è il mondo delle idee di Platone. Il metafisico, che l’autore definisce inizialmente come “l’inspiegabile stato X”, si trova anzitutto nell’oggetto stesso. È la storia dell’oggetto scaturita da miti originari, storia che può essere colta solo da uno spirito chiaroveggente. L’arte metafisica esprime allora la relazione fortissima tra gli oggetti e il pensiero; dalle immagini degli oggetti il pensiero viene condotto a recuperare le percezioni, le visioni, gli scenari che fanno parte della nostra esperienza, del nostro bagaglio, dell’immaginario collettivo. Nel 2 marzo del 1976 l’artista rilascia una dichiarazione di poetica in terza persona che costituisce la sintesi più esplicita e vera della filosofia della METAFISICA5.
'Metafisica', 2 marzo 1976
È il punto di partenza delle nostre peregrinazioni.
Applicarsi alla lettura del romanzo e delle immagini chiarisce che regola fondamentale per rendere “metafisico” il naturale è ricondurre la mitologia al quotidiano. Tre le tattiche adottate: creare soffitti bassi, togliere il piedistallo alle statue, lasciare al di sopra delle teste meno aria possibile. In generale occorre solidificare l’ignoto. A detta di De Chirico, proviene da Arthur Schopenhauer il suggerimento di non porre le statue degli uomini illustri sopra colonne e piedistalli troppo alti, ma di posarle invece su zoccoli bassi, “come si usa in Italia, ove alcuni uomini di marmo sembrano trovarsi al livello dei passanti e camminare con essi”6. Nell’articolo su “Raffaello Sanzio” (op. cit., ed. 1985, p. 164) ecco poi come l’autore discute della Santa Cecilia (1514-1516):

… le figure sono all’aperto, ma il cielo dà l’impressione di essere un soffitto basso e gli angioli cantanti, seduti sullo squarcio delle nubi, pare che possano essere toccati con mano dai personaggi sottostanti.
Questo elemento del cielo basso e del soffitto è un elemento oltremodo metafisico.

Se le scienze occulte praticano la polverizzazione della solidità, per De Chirico la metafisica, come scienza, inquadra l’universo. Secondo lo stesso ordine di idee, la statua, in risposta all’Impressionismo pittorico7, corrente dello spiritismo, delle sensazioni, porta all’estremo il processo di solidificazione. È uno degli argomenti più interessanti trattati durante il corso. Mostrando agli studenti l’utilità del quadrato semiotico – strumento che rende conto delle posizioni e delle trasformazioni di valore all’interno di un universo semantico – Fabbri ritiene che in Ebdòmero la struttura di significazione dell’esistenza sia fortemente informata dai subcontrari “non morte” e “non vita”. Spesso, nei quadri e nei romanzi dell’autore, i vivi si statuificano (Vita -> non morte: “Quell’uomo singolare anziché un aspetto scultorio aveva piuttosto l’aspetto pietrificato; per ciò ricordava un po’ i cadaveri scoperti a Pompei. A forza di stare coricato sulla piattaforma finiva col fare tutt’uno con essa; si piattaformizzava; diventava come un grosso pezzo di legno non squadrato, inchiodato in fretta per sostenere le tavole della piattaforma in previsione d’un urto che non veniva mai”, Ebdòmero, p. 24; Vita -> non vita: Manichini, 1927;
Giorgio De Chirico, 'Manichini' (1927)
“Questi vecchi vivevano, sì, vivevano ma pochissimo; vi era un pochino di vita nella testa e nella parte superiore del corpo; a volte gli occhi si muovevano ma la testa restava immobile”, Ebdòmero, p. 73) e i morti si animano (Morte -> non vita: “Vicino alle spiagge, sotto, appena un metro d’acqua, i cadaveri dei pirati si muovevano un po’, come si muovono le alghe anche quando il mare è calmo”, Ebdòmero, p. 29; Morte -> non morte: Nudo di donna, 1927;
Giorgio De Chirico, 'Nudo di donna' (1927)
Combattimento di gladiatori, 1933-1934;
Giorgio De Chirico, 'Combattimento di gladiatori' (1933-1934)
Frutta con sfondo di paese, 1955-1956;
Giorgio De Chirico, 'Frutta con sfondo di paese' (1955-1956)
“Assistette solo all’ultima parte dello spettacolo, ai quadri viventi, e capì tutto. L’enigma di quell’ineffabile gruppo di guerrieri, di pugili, difficili a definirsi e che formavano in un angolo della scena un blocco policromo e immobile nei loro gesti di attacco e di difesa, non fu in fondo capito che da lui solo“, Ebdòmero, p. 96).
Giorgio De Chirico, 'Gladiatori nella stanza' (da 'Ebdòmeros', Roma: Bestetti, 1972)
A questo riguardo vale la pena di citare il passo che in chiusa a Il signor Dudron (1940, ed. 1998, pp. 106-107), il secondo importante romanzo autobiografico di De Chirico, formalizza e specifica la concezione di un genere fortemente amato dall’autore:

La natura morta ha, in Inglese ed in Tedesco, un altro nome, molto più bello e molto più giusto; questo nome è Still-life e Stilleben: vita silenziosa. Si tratta infatti di una pittura che rappresenta la vita silenziosa degli oggetti, una vita calma, senza rumore e senza movimento, un’esistenza che si esprime con il volume, la forma e la plasticità. Nella realtà gli oggetti, i frutti, le foglie ecc. sono immobili ma potrebbero essere mossi dalla mano dell’uomo o dal vento. Le nature morte rappresentano cose che non sono vive, dal punto di vista del rumore e del movimento, ma che sono legate alla vita degli uomini, degli animali e delle piante. Questi oggetti sono posati sulla terra, su questa terra che respira intensamente la vita piena di rumore e di movimento.

Alcuni Autoritratti (1920; 1923)

affrontano invece il problema del passaggio dalla vita alla non morte, verso la condizione dell’immortalità. Proponendosi marmorizzati, esprimono il contatto con l’antichità come profonda esperienza estetica. Anche il maestro Dudron, alter ego di De Chirico, in abito di tela bianca, si finge statua. Ispirandosi al gesto di un signore che, talmente innamorato delle sculture antiche dell’Acropoli, volle integrarsi con esse, “pensò agli animali in grado di mimetizzarsi e decise di provare a farlo egli stesso: una sera, dopo che tutti i visitatori se ne furono andati, si vestì di bianco e si truccò il viso con il gesso, insomma si “travestì da statua”. Nel momento in cui anche il custode dei musei lo scambiò per una statua vera, avvenne la metamorfosi: apparvero le “maschere degli dei”, il “cielo era così basso che avrebbe potuto toccarlo salendo su una colonna”. Un saggio de Il meccanismo del pensiero è consacrato al tema8. Qui De Chirico sostiene che se collocata in uno spazio pubblico, su un tempio o in un giardino, la statua possiede un aspetto omerico, una gioia severa e lontana commista di melanconia, esposta in un museo rivela un’apparenza più solitaria, sembra piuttosto uno spettro. L’autore si interroga sull’impressione prodotta dall’immagine di una statua seduta su una vera poltrona o affacciata ad una vera finestra, percezioni metafisiche che più tardi si manifesteranno nei dispositivi interni ai quadri Combattimento di Amazzoni (1927) e Il figliol prodigo (1937).

Dal saggio si evince che la statua equivale ad una sete di morire che non si soddisfa mai.

Vedi Laura Bordin, La statua nell’opera di De Chirico

A più riprese Fabbri si sofferma sulle maniere con cui l’artista fa giocare insiemi simbolici e associazioni personali. Questioni di fonia conducono alla rottura e generano connotazioni retoriche.

In seguito alla legge Merlin, ora, tutte quelle case chiuse sono state chiuse sul serio, ma il fatto della loro chiusura e le sue conseguenze hanno divulgato sulla stampa tante belle parole come: meretricio, lussuria, lenocinio, carnale, lascivia ecc. È strano come a me, tutte queste parole, lì per lì, quando le leggo o le sento dire, suscitano immagini che non hanno proprio nulla a che vedere con il significato vero e proprio di dette parole […]. La parola: lenocinio, mi suscita l’immagine di un piccolo leone dalle zampe enormi e dal muso oltremodo simpatico, nato in un giardino zoologico ed allattato col biberon da una giovane donna bionda, bella e vestita con una specie di uniforme che sta tra quella dell’hostess e quella dell’infermiera […]. In quanto poi alla parola: lascivia, mi fa pensare ad alcune robuste lavandaie che con le braccia affondate nell’acqua di una grande vasca rettangolare stanno lavando e sciacquando della biancheria9.

Il ragionamento per figure funziona bene nel quadro Il sogno di Tobia (1917),
Giorgio De Chirico, 'Il sogno di Tobia' (1917)
grazie al riuscito accostamento analogico tra il passo della Bibbia, in cui è presente l’angelo,

e la mitologia, dove αγγελος per eccellenza è Mercurio. Dalle avventure della nostra ricerca, che, in virtù dello scenario suggerito dal titolo, inizia dalla perquisizione dell’angelo, emerge subito la sua assenza in panni antropomorfi. Finché rimaneva Angelo ebreo (1916),
Giorgio De Chirico, 'L'angelo ebreo' (1916)
l’aspetto risultava vagamente somatico. Ma è ora la scoperta del tipo di sostituzione adottata a sorprenderci. Con un’ironia filosofica alla Voltaire De Chirico ne rimpiazza infatti le sembianze umane con l’omonimo elemento chimico che misura la temperatura dell’ambiente. Mercurio si riconosce per essere qualcuno/qualcosa che sale e che scende,

angelo inspiegabile e geometrico […] che Ebdòmero vide un giorno precipitare, attraverso i numerosi piani di una grande casa, per stramazzare in una camera […]. Ricevuta l’anima del defunto, l’angiolo riprese il suo andare di molla ad angolo acuto lanciata nel vuoto e con l’anima del defunto risalì in cielo.(Ebdòmero, p. 36)

Giorgio De Chirico, 'Angelo' (da 'Ebdòmeros', Roma: Bestetti, 1972)
Sullo sfondo del dipinto, come invariante del personaggio, si intravede il caduceo abbinato al vincastro. L’accoppiamento è giustificato. Sappiamo, del resto, che professando il culto dei sogni, Ebdòmero “aveva fatto scolpire sopra ogni piede del suo letto un’immagine di Mercurio oniropompo”, poiché al dio spettava anche di condurre i sogni nel sonno dei viventi addormentati” (Ibidem, p. 77).
Giorgio De Chirico, 'Mercurio' (da 'Ebdòmeros', Roma: Bestetti, 1972)
E attaccato alla parete del suo letto stava il quadro dell’amico nuotatore10 che “rappresentava Mercurio sotto le spoglie d’un pastore, con in mano un vincastro al posto del caduceo; brandendo il vincastro spingeva davanti a sé, verso la notte del sonno, il gregge dei sogni” (Ibidem). Dopo qualche applicazione comprendiamo anche che la sigla Aidel visibile in verticale sul termometro non va riferita ad Adele, la sorella di De Chirico, come pensava Maurizio Fagiolo dell’Arco (1984), e men che mai deriva dalla radice greca ιδ del verbo οραω11. È invece una marca di auto-valorizzazione, accessibile a chi, accettando il contratto proposto dall’artista, decide di “immaginare” secondo le stesse regole. Aidel è un vocabolo che in lingua ebraica, quindi nel contesto in cui nasce la storia, significa “colto, preciso, raffinato”. Non a caso, la firma campeggia proprio nell’oggetto che contemporaneamente rappresenta e fa da testimone all’accostamento ingegnoso operato a livello enunciazionale. Ci accorgiamo inoltre che la visibilità della figura delle ali, ottenuta dal formato dei due telai che fiancheggiano il termometro, è sfruttata per riprodurre, a livello metatestuale, i generi pittorici tipici di De Chirico: l’interno, “usato” qui per contenere il pesce dell’episodio di Tobia, e la piazza, in scorcio e parzialmente occupata da un portico.

Citando cotesti, l’opera diventa così la prima occasione di contesto: enuncia il valore della fonte a partire dai suoi dispositivi. Carlo Carrà fu il primo a rimanere profondamente impressionato dal quadro. Lo dimostrano non solo dipinti quali La madre (1917), Composizione TA (1916-1918) e L’ovale delle apparizioni (1918)12,

in cui l’analogia va dalla ripresa del termometro a quella del pesce sul cavalletto, ma anche l’esistenza di un testo, “Il ritorno di Tobia”, datato 1918 e pubblicato nel primo numero de La raccolta, in cui Carrà sembra descrivere il quadro e immaginare situazioni di vita del personaggio biblico nella contemporaneità.

Tobia ritornava da suo padre con nell’anima gli odori dei laboratori d’America, e andava ripetendosi che presto laggiù si sarebbe conquistato chimicamente la forza dei santi antichi, ed escogitato un castigo per tutti i peccati.
(Carrà 1918, p. 39)

Carlo Carrà, 'Il ritorno di Tobia' (La raccolta, 1918)
Vedi Giuditta Ambrosini e Annalisa Mazzoli, Mercurio nelle opere di Giorgio De Chirico

L’attività di recupero della memoria, le reminiscenze di ordine mitologico e religioso, vengono rielaborate da De Chirico per organizzare la percezione in forma di enigma e condividere esperienze conoscitive secondo il modo della rivelazione. A questo allude forse il narratore quando afferma che «di quelle storie perfettamente logiche in apparenza e altamente metafisiche in fondo, Ebdòmero aveva il segreto e il monopolio» (Ebdòmero, p. 105). Il segreto consiste, molto probabilmente, nel credere in un pensiero per immagini, strettamente legato alla corporeità, sensi e gesti. Nel fondamentale “Discorso sul meccanismo del pensiero” (1985, pp. 164-165)13 l’autore spiega:

Le impressioni, che hanno una grandissima importanza per noi, quando, per il prolungamento della loro durata, si trasformano in sentimenti (sentimenti dal punto di vista sensitivo naturalmente), sono delle vere e proprie immagini, dei veri e propri sentimenti sentiti dal nostro corpo […]. I momenti in cui noi sentiamo o pensiamo per mezzo del nostro corpo sono probabilmente i soli momenti in cui il nostro cervello non pensa, poiché esso è completamente occupato ad ascoltare i pensieri del nostro corpo.

Così, ci sarebbe da riflettere a lungo sulla Stimmung, valore che nel romanzo si configura come un insieme di piccole percezioni spazio-temporali, segno premonitore del verificarsi di uno “spettacolo”. La Stimmung in Ebdòmero è innanzitutto un cambiamento di atmosfera, creato dalla venuta del crepuscolo14. Annuncia il momento del raccoglimento intorno ad “enigmi insoluti che si librano sulla vita degli uomini” (Ebdòmero, p. 90); qualche volta si attende (Ibidem, p. 100), altre volte si rompe (Ibidem, p. 32; p. 43; p. 90). È dunque una fase di sospensione, solitamente contraddistinta dal rallentamento dei ritmi e dall’approssimarsi di passioni “lente” – la calma, la tranquillità -, che costringono a meditare. Nasce comunque dalle esperienze di vita quotidiana. In più circostanze si manifesta come uno scenario che appare dietro un sipario che si alza (Ibidem, p. 43; p. 57) e molto spesso è inquadrata da una finestra (Ibidem, p. 18; p. 54; p. 68; p. 80). È anticipata da odori suggestivi (Ibidem, p. 81; p. 11). Ma forse il dato più interessante è capire che il suo avvento non appiana mai del tutto le tensioni. La Stimmung è uno spettacolo dolcissimo ma transeunte, di fronte a cui Ebdòmero resta in guardia. “Quegli aspetti della natura che sembrano creati nella gioia da un dio incantevole e ben intenzionato, gli avevano sempre ispirato una fiducia molto relativa” (Ibidem, p. 100). Fabbri conclude affermando che esiste una città del pensiero e che coincide con la città di De Chirico descritta da Italo Calvino (“Viaggio nelle città di De Chirico”, 1982).
Italo Calvino, 'Viaggio nelle città di De Chirico' (1982)
Dall’esame del romanzo e di molti quadri ricaviamo il ruolo dell’ombra come attante informatore. Ci si chiede fino a che punto questa figura si estenda e si registrano i momenti privilegiati per la sua apparizione: fine pomeriggio, mattina presto, mezzogiorno. La classe avvia quindi l’esplorazione delle tipologie relative alla componente in causa. Si notano silhouettes separate che gettano un’unica ombra (L’enigma di un pomeriggio di autunno, 1910; Piazza d’Italia, 1912),

si osservano le ombre delle statue (Melanconia, 1912; La stanchezza dell’infinito, 1912),

si individuano ombre sprovviste di referente (La nostalgia dell’infinito, 1911; Mistero e melanconia di una strada, 1914),

si differenziano i casi in cui l’ombra dell’autore entra nel quadro (Il vaticinatore, 1915; Autoritratto con busto di Euripide, 1923).

Nel noto Autoritratto con la propria ombra del 1920
 [ <a title="Giorgio De Chirico, 'Autoritratto con la propria ombra' (1920)">Vedi Figura</a> ]
l’ombra diventa autonoma e svolge un ruolo attanziale altrettanto importante di quello rivestito dal soggetto: se infatti l’enunciatore punta il dito verso un libro e si rivolge con lo sguardo all’enunciatario, la sua ombra, voltata lateralmente, si affaccia alla finestra. Figurativizzando le operazioni di informazione e di osservazione, le posture valorizzano la doppia professione di De Chirico, quella di letterato e quella di artista.

Vedi Claudia López e Marta Pacchione, L’Ombra. De Chirico e Warhol

Da qui l’attenzione si sposta sulla forte corrispondenza tra tempi e spazi, attualizzata attraverso interazioni tra ore e stagioni, da una parte, e luce, ombra e crepuscolo dall’altra, quasi che l’artista avesse un modello mentale da descrivere. Leggiamo in Ebdòmero:

I fantasmi immortali del Grande Caldo, fratelli dei fantasmi polari del Grande Freddo, erravano da ogni parte […].(p. 105)
Il mese di settembre è quello che si trova tra due stagioni: l’estate e l’autunno […]. L’estate è la malattia, è la febbre, il delirio, i dolori estenuanti, le spossatezze senza fine. L’autunno è la convalescenza prima che cominci la vita (l’inverno).(p. 111)

E ancora:

Se i rubinetti della vostra casa vi danno un’acqua calda e dubbia, se le mosche si accaniscono sopra le vostre vivande, e se le salse e i latticini si guastano nei vostri armadi […], pensate alle cacce nelle regioni polari […], all’ora in cui il sole sparisce lentamente, dietro le cime rocciose, nell’aria chiarificata e, col suo tramonto, apre le porte ai venti freschi che fanno rivivere le piante e i fiori e fanno uscire gli animali dalle tane e dai rifugi ove li aveva cacciati il calore di mezzogiorno.(Ibidem, p. 75)

De Chirico costruisce sistemi di contenuto non rifacendosi al mito originario, ma recuperando del mito le varianti per lui significative. Stabilisce, dunque, una mitologia immanente ed orientata, ricca di istruzioni. È un sistema di luoghi stabili, in cui il nord e il passaggio da est ad ovest sono connotati positivamente, ma sempre da una prospettiva di frontiera, e non come luogo sedentario e di conquista definitiva.

Ebdòmero e i suoi compagni guardarono verso il Sud; essi sapevano che là donde soffiava la tempesta […], era l’Africa; sì, le città calcinate al sole implacabile, la sete e la dissenteria […]. «Questo però non vuol dire, amici miei, che non dovrete mai andare verso il Sud o l’Oriente; verrà un giorno in cui non soltanto ci si andrà ma ci si resterà; però è girando dall’alto che bisogna andarci; sono fortezze che bisogna pigliare con l’astuzia»(Ibidem, p. 74)

In termini temporali l’isotopia del senso della ricerca è raggiunta abbinando l’aspetto terminativo all’inizio di una durata, come in genere accade nei meccanismi di suspence:

Istintivamente gli amici di Ebdòmero tirarono fuori i loro orologi credendo che fosse mezzogiorno, ma Ebdòmero li fermò con un gesto: «No, amici miei,» disse egli «noi non siamo ancora giunti al punto di mezzo della nostra giornata; questo colpo di cannone che avete udito ora non significa che il sole nello spazio, che le lancette sugli orologi e le ombre sopra i quadranti, abbiano raggiunto quel segno fatale che, secondo alcuni, indica l’ora di fantasmi assai più interessanti e complicati di quelli che di solito ci appaiono, al suono di mezzanotte, nei cimiteri abbandonati»(Ibidem, p. 79)

Vedi Valentina Maggio, Il mare e la metafisica in Giorgio De Chirico

In relazione al sistema dell’autore, Fabbri riprende il concetto di cronotopo in Michail Bachtin (1979), nato dall’ipotesi del corpo grottesco15 e da intendere, letteralmente, come interconnessione dei rapporti temporali e spaziali dei quali la letteratura si impadronisce artisticamente, costruendo paradigmi a sé stanti. Del modello di De Chirico fanno parte, inoltre, l’eternità e l’immortalità, che insieme al sublime si collocano fuori dal tempo e dallo spazio (“lo scioglimento completo del nodo stava secondo lui nell’eternità che trovasi al di fuori della vita e della morte”, Ebdòmero, p. 47),
Giorgio De Chirico, 'L'immortalità' (da 'Ebdòmeros', Roma: Bestetti, 1972)
fatta eccezione per l’immagine della pioggia, sulla base dell’idea che bisogna sempre pensare al rovescio della medaglia: “Allora la pioggia in lunghi cordoni fitti, in fasci perfettamente perpendicolari, cadeva e cadeva senza fine sulla superficie del lago che cominciava a bollire) (Ibidem, p. 61);
Giorgio De Chirico, 'Pioggia nel deserto' (da 'Ebdòmeros', Roma: Bestetti, 1972)
“E poi la pioggia; la pioggia oggi come ieri e come domani; la pioggia non molto forte, ma regolare, la pioggia senza fine; tutti gli alberi pigliavano la forma di salici piangenti” (Ibidem, p. 32). Contro l’eterno presente tradizionalmente concepito come ciò che non finisce mai di durare – interviene cioè dall’interno della storia – l’autore elabora un pensiero dell’intemporale che ha senso nella sua dislocazione. E che si differenzia dai rumori del quotidiano per una forma di supremo mutismo. Nell’ultima scena del romanzo l’incontro tra l’eroe e la Dea fa nascere, per il tramite di un discorso diretto, questioni relative alla vita e alla morte dell’Immortalità. Il passo verrà messo a fuoco al momento di affrontare il tema della meditazione in Ebdòmero.

Vedi Cristina Spizzamiglio, Lo spazio e il movimento del personaggio Ebdòmero. Dimora e cavalcata

Molti spunti stimolanti nascono dalla scoperta della strumentalizzazione della tecnica del collage nella produzione dell’autore. In pittura De Chirico combina tra loro generi diversi, lega interno ed esterno, panorama e casa e realizza “mobili nella valle” (Mobili nella valle, 1926; Mobili nella valle, 1927; Mobili nella valle, 1930)

e “paesaggi nella stanza” (La maison aux volets verts, 1924; Mobili nella stanza, 1927; Colonne nella stanza, 1928).

I mobili, rovine della casa, vengono esibiti all’esterno, mentre le rovine antiche sono piazzate all’interno. Il loro aspetto prossemico, ovvero le disposizioni e le inclinazioni, assume carattere narrativo: se i pezzi che avanzano si fanno promessa di una casa futura, quelli “in ritirata” esprimono nostalgia per la casa perduta. La creatività di De Chirico è strutturata, procede secondo regole.

Vedi Rebecca Gander e Paola Montini, I mobili nell’opera pittorica e negli scritti di De Chirico

Nel romanzo, invece – afferma Fabbri -, l’autore “incolla” pezzi eterogenei che estrae da menu di ristoranti (Ebdòmero, p. 76), dalla reclame (Ibidem, p. 69) o da articoli di giornale e da manifesti elettorali (Ibidem, p. 103-104). Li trasforma in avvenimenti da far vivere a Ebdòmero, il quale su di essi formula poi riflessioni personali. La decisione di porre il discours trouvé sotto un punto di vista interno, coincidente con l’atto di assunzione di Ebdòmero, differenzia probabilmente De Chirico dall’approccio ai papiers-collès (1924) di Georges Braque e di Pablo Picasso. L’autore sfrutta tre generi, la ricetta, il discorso politico e il discorso pubblicitario, per mostrare, da una parte, l’inquietante stranezza del linguaggio quotidiano, dall’altra, in parallelo, quanto il caso possa essere pieno di significato. L’arte dell’invenzione, applicata alle vicende dei due candidati Sublato e Chiabani, serve ad accentuare, isolandola ma attraverso una collezione promiscua, l’enfasi retorica che è già propria del comizio politico. Qui il corsivo ha la funzione di indicare il prelievo e l’innesto di un linguaggio estraneo all’universo di Ebdòmero. L’effetto di senso è ironico. Fabbri menziona le procedure alla base delle parolibere futuriste e il Manifesto del Surrealismo, in cui si trovano esposte tipografie diverse montate insieme16. La propaganda di un dentifricio viene invece piegata ad evocare un mondo mitologico, pur dichiarando esplicitamente la fonte del nome usato:

Una parola magica brillava nello spazio come la croce di Costantino e si ripeteva fino in fondo all’orizzonte simile alla réclame di un dentifricio: Delphoï! Delphoï! Un brusio dolce, come di lauri curvati dai venti dell’autunno, passò nell’aere tepido e, sull’altro lato della riva, proprio in quel luogo sacro ove le colonne d’oro del tempio dell’Immortalità brillavano ai raggi d’un sole inchiodato in mezzo al frontone perché non potesse tramontare, apparvero attaccati alle pareti i quadri tristissimi delle epoche passate.(Ibidem, p. 69)

Rispetto alla presentazione del menu, la paradigmatica lista di pietanze è un enunciato obiettivo, “precotto”, da contrapporre alla ricetta sintagmatica che coimplica il soggetto: “Sempre per via dei sogni Ebdòmero si asteneva dal mangiare fave al pasto della sera; egli s’accordava in ciò con Pitagora che soleva dire le fave mettano nei sogni torbidezza e confusione” (Ibidem, p. 77). Sono i due poli di un meccanismo di chiasmo che interroga il rapporto tra finzione e realtà. Le altre due posizioni vanno individuate, nelle stesse pagine, in un procedimento analogo messo in atto dall’autore relativamente al tema di un lago tenebroso. Ecco in breve l’articolazione del passo: si inizia dalla descrizione, in una cornice di sogno, delle peculiarità del lago, dove nessuno osa avventurarsi. Segue il menu del ristorante. Si passa poi alla cronaca dell’artista nuotatore morto proprio mentre tentava di attraversare un fiume in piena: “Fu trascinato dalla corrente e, malgrado i suoi sforzi e gli sforzi di quelli che cercavano di soccorrerlo, sparì nei gorghi” (Ibidem). Giunge quindi l’istruzione sulla dieta alimentare consigliata da Pitagora. Il brano si chiude con la menzione di una fotografia che ritrae il giovane pittore con la barba, poco prima della disgrazia. È un pretesto usato da De Chirico per ricordare che gli attori cinematografici si lasciano crescere la barba per essere più veri nelle parti in cui la virilità risulta indispensabile, ma che “una falsa barba è, sullo schermo, più vera di una barba naturale, proprio come uno scenario di legno e di cartone è sempre più vero che un pezzo di natura” (Ibidem, p. 78). In sintesi, la finzione supera spesso, in termini di verosimiglianza, il reale.
Ci si occupa, quindi, di dare risalto, da un lato, alle sequenze in cui De Chirico inventa nomi di artisti per i quali costruisce storie, dall’altro ai casi in cui descrive opere realmente esistenti. Sotto questa seconda tipologia qualche volta ne cambia il titolo e l’autore, più spesso non ammette che si tratta di quadri e li fa essere sogni, visioni e apparizioni del paesaggio fenomenologico che l’eroe esplora nelle avventure che compie. Al secondo gruppo si ascrive la veduta de Il santuario di Ercole (1884)
Arnold Bocklin, 'Il santuario di Ercole' (1884)
di Arnold Bocklin, tradotta con una certa fedeltà –

si scorgeva in lontananza una parte di quella lunga montagna di cui l’altra parte scendeva verso il golfo, e più vicino, apparivano alcuni alberi, specialmente pini […]. Nella chiarezza di quella bella giornata d’autunno, i disgraziati pini sembravano condannati al purgatorio d’un eterna tempesta […]. Ebdòmero pensò allora a Basilea, ai ponti sul Reno […]. Davanti ai santuari, ove sotto le pietre intangibili, finivano di marcire e di arrugginirsi le sacre armi d’Eracle, vegliavano guerrieri barbuti dal profilo purissimo e pieno di bellezza virile. Lungo i muri di mattoni, dal lato ove mai giungevano i raggi del sole, s’arrampicava l’edera e verdeggiava il muschio.(Ebdòmero, pp. 18-19)

– e osservata “dall’unica apertura esposta al nord, ciò che conferiva all’ambiente una luce da studio di pittore” (Ibidem, p. 18). In un articolo successivamente riportato ne Il meccanismo del pensiero17 (pp. 169-171) De Chirico elogia l’artista tedesco per le capacità di “sfruttare tutti gli insegnamenti dei maestri antichi” e di “creare tutto un mondo suo di sorprendenti lirismi combinando le apparizioni del paesaggio italiano con elementi architettonici”. Appartiene invece al primo insieme André Brouillé, autore di un “famoso quadro: Renan davanti al Partenone” (Ebdòmero, p. 26), il pittore-nuotatore (Ibidem, pp. 77-78), Casca, il pittore meridionale (Ibidem, pp. 93-94), Frank Sbysko (Ibidem, p. 110) e un non ben specificato “pittore negro”, che ottiene menzioni con due opere prodotte a distanza di un anno l’una dall’altra: Caucaso e Golgota e In flagranti (Ibidem, pp. 26-27). Il riferimento al Caucaso ci fa venire in mente Prometeo, protagonista di una tela dipinta da Bocklin nel 1883 e di cui De Chirico presenta una sua versione nel 1909.

Fatto assai curioso è però che nel 1894 Max Klinger aveva eseguito un Trasporto di Prometeo
Max Klinger, 'Trasporto di Prometeo' (1894)
e che sono elementi di questo quadro, “le pappagorge compresse dalla gorgiera calata”, a rientrare nella descrizione letteraria, completate dalla ripresa di un’altra opera di Klinger, la Crocifissione (1890),
Max Klinger, 'La crocifissione' (1890)
evidentemente allusiva al Golgota. Si legge infatti:

rappresentava una via larga e polverosa, costeggiata da una roccia assai bassa che la picozza e la mina avevano scavata e coperta di rughe in molte parti, come fa Cronos sulla faccia dei vegliardi; su questa roccia si rizzavano tre croci intorno alle quali si affaccendavano alcuni legionari romani dal profilo imperioso.(Ebdòmero, p. 26)

Fabbri sottolinea l’insistenza di De Chirico sulla scelta della roccia bassa18. Tornando nuovamente al tema della mitologia riportata sul piano della quotidianità, mostra agli studenti l’esemplare più significativo della specie, Il centauro dal maniscalco (1888) di Bocklin.
Arnold Bocklin, 'Il centauro dal maniscalco' (1888)
E a proposito di centauri, oltre ad essere un tema costante della prima fase artistica di De Chirico (Lotta di centauri, 1909; Centauro morente, 1910),

ritornano così spesso nel romanzo da trasformare un’attenzione condivisa in una scena che è per intero la commistione di opere dell’artista greco, di Klinger (Il centauro e le lavandaie, 1881; Il centauro fugato, 1881)
Max Klinger, 'Il centauro fugato' (1881)
e di Bocklin (Centauro e ninfa, 1885):
Arnold Bocklin, 'Centauro e ninfa' (1885)

All’approssimarsi dell’uomo-cavallo le più giovani si turbavano. Ebdòmero che più d’una volta aveva assistito a questa scena, era sempre intrigato dall’inquietudine delle giovani lavandaie […]. «Sono di certo reminiscenze di ordine mitologico che le turbano» si disse egli, e continuò a pensare: «ossessionata da tali reminiscenze, la loro immaginazione femminile, sempre pronta a figurarsi il dramma, già vede il ratto; il centauro che traversa il fiume tra i gorghi e trascina con sé la donna urlante e scapigliata come una baccante ebbra; Ercole sulla sponda, che scocca con sforzo e ansimando le sue frecce avvelenate»(Ebdòmero, p. 53)

Quanto a In flagranti, di cui De Chirico dice: “Invece dei soliti drammi dell’adulterio, l’artista aveva raffigurato un piccolo cane grifone mentre sorprende due passeri che stanno beccando le ciliegie della colazione preparata per il suo padrone, sopra un tavolo del giardino” (Ibidem, p. 26), scopriamo che il titolo riprende proprio un dramma dell’adulterio raffigurato da Klinger nel 1883
Max Klinger, 'In flagranti' (1883)
e metaforicamente trasposto dall’autore greco. Sono tutte informazioni che De Chirico diffonde senza misteri. Il trucco consiste nel sapere incrociare il romanzo con le opere pittoriche e con i saggi critici. Lo studio su Klinger è in questo senso una fonte inesauribile, dal momento che qui l’autore seleziona i lavori migliori del tedesco, almeno a suo giudizio, li commenta dettagliatamente, li rielabora alla luce della sua esperienza e nel farlo li prepara già ad una possibile trasformazione per il corpo del romanzo. Quasi tutti gli esemplari descritti si ritrovano nel testo letterario. Oltre ai casi già citati, vale la pena di ricordare l’acquaforte dal titolo Accordo (1894)
Max Klinger, 'Accordo' (1894)
della serie Brahmsphantasie, rivisitata da De Chirico nello “spettacolo” del viaggio sottomarino in cui Ebdòmero incontra il pianista che suona senza far rumore (Ebdòmero, pp.13-14) e il quadro “La passeggiata”, l’ekfrasis del quale –

davanti a un muro basso e lungo fatto di mattonelle, si vedono alcuni uomini che passeggiano al sole e le loro ombre si profilano sulla terra e salgono sul muro. L’orizzonte è vuoto. Quel muro sembra segni i limiti del mondo; sembra come se dietro a esso debba esserci il nulla. Il senso di noia e d’infinito sgomento, quel che d’interrogativo che nasce dalla linea dell’orizzonte, s’infonde in tutto il quadro: nelle figure, nella terra, nelle ombre e nella luce.(De Chirico 1920, ed. 1985, p. 189)

– determina la visione dell’allungamento a dismisura delle ombre dei pastori (Ebdòmero, p. 48).
In ambito pittorico De Chirico si confronta e gioca per diversi anni con i due artisti nordici. La sagoma scura del quadro L’enigma dell’oracolo (1910) è pressoché copiata dall’eroe di Itaca dell’Ulisse e Calipso (1883) di Bocklin,

mentre ipotizziamo che Canto d’amore (1914)
Giorgio De Chirico, 'Canto d'amore' (1914)
riproponga in chiave metafisica la celebre History of a Glove (1881) di Klinger, anch’essa parafrasata con cura da De Chirico nell’articolo del 1920. Del guanto cambiano il tessuto, ora in plastica, e il colore, arancione nella versione dechirichiana. Ma il modo in cui l’accessorio è appeso riprende alla lettera la funzione di sipario svolta dal guanto nell’VIII scena (Repose)
Max Klinger, 'Repose', A History of a Glove (1881)
della storia di Klinger. “Dietro il tavolo una fila di rigidi e giganteschi guanti appesi a una sbarra forma una specie di barriera e di guardia d’onore” (De Chirico, 1920, ed. 1985, p. 187). La palla sul piano inclinato potrebbe essere un’interpretazione personale del pattinaggio su rotelle (Action),
Max Klinger, 'Action', A History of a Glove (1881)
mentre il piccolo chiodo potrebbe alludere al “ronciglio con cui il sognante”, come scrive De Chirico (Ibidem, p. 187), “cerca ansiosamente di riafferrare il guanto che galleggia sull’acqua schiumosa” (Rescue).
Max Klinger, 'Rescue', A History of a Glove (1881)
Canto d’amore sarebbe la rivisitazione di un sogno, se ci atteniamo all’esegesi del ciclo di Klinger offerta dall’autore: “Nell’ultima acquaforte si vede l’epilogo della favola. Il sognante s’è svegliato: il guanto è sempre posato sul tavolino, presso il letto, e il fanciullo amore s’approssima sorridendo, come per dire che tutto non è stato altro che un brutto sogno” (Ibidem, p. 188, Cupid).
Max Klinger, 'Cupid', A History of a Glove (1881)
Nel romanzo troviamo, in ordine sparso, anche accenni alla propria produzione, trattati in qualità di elementi del paesaggio, come nel caso già citato dei centauri (Ebdòmero, pp. 52-53), o quando si legge che “In alto, al nord, si scorge il mare con il porto e quell’agglomerazione di officine e di fabbriche, sempre attive, che con la loro operosità hanno reso famosa la nostra regione” (Ibidem, p. 33) e ci tornano in mente Interno metafisico (con grande officina) (1917) e Interno metafisico con nudo anatomico (1968).

La nota che attesta che a Ebdòmero “piaceva, nei momenti liberi, dipingere nature morte di selvaggina” (Ibidem, p. 65) rafforza l’importanza dell’autoreferenzialità dello scritto (Il bicchiere di vino, 1923).
Giorgio De Chirico, 'Il bicchiere di vino' (1923)
Recuperiamo anche un riferimento diretto a “«la costruzione dei trofei […], impalcature curiose, severe e divertenti nel tempo stesso […] che pigliavano la forma di montagne poiché come le montagne erano nate sotto l’azione d’un fuoco interno»” (Ibidem, p. 45), genere a lungo praticato da De Chirico (Trofei con la testa di Giove, 1930).

In forma di indovinello reversibile, e con strategie di enunciazione enunciata, viene introdotto l’omaggio a Giovanni Segantini: “Ebdòmero lo vide e si vide lui stesso, nudo e inginocchiato, come Isacco che si offre al sacrificio: Dolci pecorelle, sorelle d’Isacco, / Non dir quattro se non l’hai nel sacco” (Ibidem, p. 39). Alcune opere del maestro trentino entrano nello scritto letterario a guisa di esperienze vissute da Ebdòmero. Il riferimento è esplicito, e anche piuttosto dettagliato, nell’apparizione della scena della stalla dove una vacca allatta il suo vitello e a fianco una contadina tiene in braccio un bambino. “Ebdòmero osservando i due gruppi della vacca e della contadina, pensò che se un pittore li avesse raffigurati in un quadro avrebbe intitolata la sua opera: le due madri” (Ibidem). Ma, scoperta la fonte (Segantini, Le due madri, 1889),
Giovanni Segantini, 'Le due madri' (1889)
diventa facile riconoscere anche l’origine pittorica del brano precedente, in cui di Ebdòmero si dice che “Curvi su di lui, uomini taciturni e severi, con le maniche rimboccate sulle braccia erculee, lo tosavano accuratamente; si vedevano nella semioscurità della stalla i bagliori delle tosatrici d’acciaio” (Ibidem). L’influenza di Segantini non può che riguardare in questo caso un’opera dipinta nel 1883, Il reddito del pastore.
Giovanni Segantini, 'Il reddito del pastore' (1883)
In generale, tuttavia, al di là del sapere individuare il sistema di citazioni dell’autore, riteniamo cruciale capirne le logiche di funzionamento. Perché mai, tra tutti i quadri di Segantini, sarebbero stati scelti proprio questi? La risposta, fondata come sempre sulla teoria del ragionamento per figure, sta nella corrispondenza tra Isacco e suo padre, la pecora e il pastore, la vacca e il vitellino, il bambino e la madre. L’intero passo, grazie anche alle tecniche del discorso, con il passaggio dalla transitività alla riflessività sottolineata dall’uso del corsivo (“lo vide e si vide lui stesso“), restituisce un autoritratto di De Chirico da un lato come pecora tosata, nel rapporto col padre, dall’altro come vitellino accovacciato, nel rapporto con la madre. Secondo lo stesso principio, ossia in virtù di analogie figurative, il quadro Le due madri richiama alla memoria del pittore la morte del duca di Enghien. Sulle ragioni di questa associazione interviene il narratore: “Erano le ombre proiettate sul muro dalla lanterna posata per terra che naturalmente evocavano questi ricordi in un uomo dall’immaginazione potente e dalla testa farcita di letture” (Ibidem, pp. 39-40). La scena si presenta nel romanzo in qualità di ricordo, di immagine mentale di Ebdòmero. Spetta a noi lettori, compreso il meccanismo, andare alla ricerca di un’eventuale rappresentazione del duca di Enghien correlabile al quadro di Segantini per la presenza di una lanterna. Il gioco vale la candela. Scopriamo che nel 1873 Jean-Paul Laurens ha onorato il personaggio storico dipingendo due versioni della sua fucilazione.

In entrambe, una lanterna proietta l’ombra del duca su un muro.
Il leit-motiv delle partenze e dei ritorni, spesso introdotto dalla comparsa della linea dell’orizzonte e dal passaggio di mezzi di trasporto (navi e treni), trova la sua migliore forma di narrativizzazione nella versione dechirichiana della parabola del figliol prodigo. Si intende per questa versione l’insieme della storia raccontata in Hebdomeros e delle soluzioni pittoriche escogitate negli anni per esprimerla. Qui abbiamo a che fare non con una citazione circoscritta, ma con una vera e propria descrizione trasformativa, maturata progressivamente. Il motivo di origine biblica rafforza una volta di più l’ipotesi che sia difficile comprendere il sistema concettuale dell’autore senza tener conto dell’interrelazione tra letteratura e arti visive. Il romanzo, dal canto suo, traspone in forma verbale l’evento del ritorno del personaggio, qui rinominato Tommaso Locorto e che “lasciò la casa paterna per viaggiare lontano e vivere la sua vita; tutto il paese ormai lo chiama il figliuol prodigo” (Ebdòmero, pp. 79-84). Come nella tradizione biblica, il padre prepara un ricevimento, ma in più fa allestire, nel salotto della villa, un palcoscenico per la rappresentazione di brevi commedie con attori dilettanti. In classe commentiamo il reperimento dell’ennesima situazione di mise en abîme: De Chirico gioca ad incassare scene di finzione che valorizzino il senso di un testo interamente votato alla prestazione immaginativa. Il corpus di opere pittoriche ispirate all’episodio evangelico è ricchissimo. Se l’esemplare più attinente alla fase illustrata nel romanzo è del 1919 (Il ritorno del figliol prodigo),
Giorgio De Chirico, 'Il ritorno del figliol prodigo' (1919)
già la prima versione, datata 1917 (Il figliol prodigo),
'Il figliol prodigo' (1917)
esibisce la componente isotopica più forte della serie: l’accoppiamento di tradizione e modernità che si realizza nell’abbraccio tra un padre “ingessato” nella sua redingote e un figlio manichino cubo-futurista. Lo ritroviamo nelle soluzioni del 1920 e del 1924.

Fabbri ci fa notare che la figura in finanziera è la stessa inserita come statua in altre tele di De Chirico, quali, ad esempio, L’enigma di una giornata (1914) e Il doppio sogno di primavera (1915)19.

Il personaggio, in questa veste, connoterebbe il passato (o il presente che nell’attendere, diventa già passato), tanto quanto il manichino variopinto sarebbe espressione di futuro (di un presente rivolto al futuro), perché ricorrente in quadri come Il vaticinatore (1915) o Il trovatore (1922).

L’artista non dimentica di riservare un posto al Figlio consolatore (1926),
Giorgio De Chirico, 'Il figlio consolatore' (1926)
il quale resta al fianco del padre nel mondo della tradizione. Dalla medesima porta, contrassegnata a lato dalla firma del pittore, entrerà più tardi la seconda e ultima versione del ritornante, che nel 1937 (Il figliol prodigo),
'Il figliol prodigo' (1937)
definitivamente persuaso, acquisterà una postura e fattezze classiche rispetto a un padre sempre più immobilizzato.
Lo studio della parabola consente di ragionare a fondo sul tema dei sentimenti e dei presentimenti nell’opera di De Chirico. Dell’episodio biblico, infatti, viene soprattutto focalizzata la fase dell’attesa, sfruttata però dall’autore come tempo di premonizione, di presagio, di anticipazione sensibile. Dai balconi e dalle finestre si aspettano immagini e suoni che segnalino l’arrivo di un piroscafo. E a dire il vero, negli spazi letterari e pittorici dell’artista capita non di rado di incontrare “rumori di un treno che s’allontanava da qualche parte, nel buio, verso settentrione” (Ebdòmero, p. 82; La stanchezza dell’infinito, 1912; L’incertezza del poeta, 1913),

“un galoppo di cavalli, i passi pesanti e cadenzati d’una coorte che s’allontana dalla porta settentrionale” (Ibidem, p. 43), “vele di pirati che appaiono lontano sul mare” (Ibidem, p. 51; L’enigma di un pomeriggio d’autunno, 1910).
'L'enigma di un pomeriggio di autunno' (1910)
L’attesa diventa allora l’enigma di una giornata, e può tradursi in “volontà di statua” – attesa ferma, tranquilla, ma che tiene in memoria la battaglia combattuta20 – o mostrarsi turbata in vista del manifestarsi del mistero. In questo secondo caso aspettare provoca sommovimenti a livello somatico, come accade al padre nella formula dechirichiana della parabola. L’attesa turbata (dal latino “turba” = folla, affollamento) è un’impazienza che mostra la difficoltà della passione con la mente e con il corpo:

subì un’operazione al fegato […], sorride sempre con tristezza […]; spesso guarda nel vuoto davanti a sé […]; i suoi tratti si contraggono; le sue dita stringono, rattrappite, i braccioli della poltrona e allora con voce strozzata , ove la collera e l’odio si uniscono al dolore, scandisce queste tre parole: “Ah, lo scellerato!” […]. Per riguardo ai dolori morali del padrone di casa, dolori che il recente ritorno del figlio aveva di certo leniti ma non soppressi, gl’invitati si astennero dal ballare.(Ebdòmero, pp. 79-82)

Vedi Valentina Lucio, Il mare all’orizzonte

Lo si riconosce ancora meglio nell’ansia che precede l’incontro dell’eroe con la dea Immortalità:

Ebdòmero spalancò la finestra sullo spettacolo della vita, sulla scena del mondo. Con le braccia al sen conserte, con la testa alta, come un navigatore ritto sulla prora di una nave davanti all’apparire di una terra sconosciuta, egli attese. Ma doveva attendere poiché non era ancora che il sogno, e anzi il sogno nel sogno […]. Si rivoltò sopra il suo giaciglio… «Che ore sono?…», e continuò a parlare a se stesso ad alta voce. «Quanto tempo ancora?… […]; le pulci mi divorano e l’enterite mi torce le budella. Ho bevuto le mie ultime gocce di laudano e di giusquiamo! Che cosa bisogna sperare! A che cosa bisogna credere?»(Ibidem, p. 116)

Il presentimento è comunque uno stato dell’ordine dell’incertezza, tale per cui è meglio non fidarsi troppo delle apparenze, dei fantasmi, almeno se non sorgono con precisione dalla propria memoria (Ibidem, p. 57; p. 69). Ma quando memoria e presentimento si trovano combinati, l’effetto è allora quello di una grande soddisfazione: “E questi rovesciamenti, queste gioie nuove, queste stabilità che danno già sulla terra e vivente l’uomo la pregustazione delle gioie celesti, Ebdòmero le aveva presentite, come aveva presentito la guerra e poi la pace e altri dolori e gioie della pazza e inquieta umanità” (Ibidem, p. 98). Qualche volta è difficile coglierlo: “Soffi freschi provenienti dal mare passarono nell’aria come un appello muto” (Ibidem, p. 85).
Si avverte, andando avanti in questa direzione, che se il romanzo non rispetta un ordinamento lineare nella logica degli eventi, il sistema che presiede allo sviluppo delle passioni mostra, però, più assi di coerenza. Ad esempio, ansia, speranza e curiosità precedono gli eventi, mentre soddisfazione, vergogna o rincrescimento lo seguono. “«Ma, mio buon signore, e i vostri beni immobiliari?… Sì, dove sono i vostri beni immobiliari? E le vostre azioni? E le vostre obbligazioni?…» […]. Una vergogna immensa salì in lui come un brivido e gli imporporò la faccia” (Ibidem, p. 38). Spesso l’eroe è preso da una melanconia mista a vergogna, perché percepisce in sé una mancanza di purezza:

Questo canto veniva da un collegio di orfanelle, e ogni volta lo immergeva in una nera melanconia mista a un senso di vergogna; allora si ricordava che nella sua infanzia risentiva la stessa tristezza e la stessa vergogna quando udiva il cinguettio dei passeri che si radunavano dopo il tramonto sopra un grande albero del giardino per passarvi la notte.(Ibidem, p. 28)

Fabbri si sofferma sulla ridondanza discorsiva della componente timica, soprattutto manifestata, nello scritto, dall’ossessione del puro rispetto all’impuro, del pulito rispetto allo sporco, del gusto di fronte al disgusto. Ma il perseguimento del puro e del gusto vengono quasi sempre svolti a partire dalla costruzione dell’impuro e del disgusto. Per esprimere il positivo, cioè, l’autore ricorre all’affermazione del negativo:

Egli divideva le vivande in morali e immorali. Lo spettacolo di certi ristoranti ove fini buongustai vanno a soddisfare le concupiscenze oscene del loro apparato gastrico, lo rivoltava fino al disgusto e fomentava nella sua anima una giusta e santa ira […]. Lo turbava vedere, al principio dei pasti, gli amatori di ostriche inghiottire quel mollusco disgustoso con una messa in scena di panini neri imburrati con cura […]; tutto ciò accompagnato da teorie immonde e spiegazioni indecenti sopra l’effetto esercitato dal sugo di limone sul mollusco […]. Il chiaro d’uovo battuto e la panna montata erano anche per lui materie deleterie e impure […]. Considerava la fragola e il fico come i più immorali tra i frutti.(Ibidem, pp. 65-66)

La stessa tecnica viene adoperata per tributare merito al Canaletto, considerato antitetico a William Turner, e per la valorizzazione della propria produzione, all’estremo opposto della quale l’autore colloca gli Impressionisti e “un romanticismo di cattiva lega” (Ibidem, p. 91). La vergogna, sentimento di repulsione verso se stesso o verso gli altri, contrasta con la costruzione del piacere, della grande gioia, che subentrano solitamente al manifestarsi del modo dell’ispirazione:

Ebdòmero doveva fuggire. Fece in barca il giro della sua camera, respinto sempre agli angoli dalla risacca, e, finalmente, sfruttando tutta la sua energia e la sua destrezza di vecchio ginnasta, aiutandosi con le cornici, abbandonò il suo fragile schifo e si issò fino alla finestra che era posta molto in alto, come la finestra di una prigione. Il suo cuore batté allora dalla gioia, e quale gioia! Di là abbracciava con un colpo d’occhio tutto il vasto e riconfortante panorama di quelle palestre intarsiate da rettangoli, quadrati e trapezi bianchi, ove alcuni giovani atleti lanciavano il disco con movimenti classici.(Ibidem, pp. 44-45)21

Giorgio De Chirico, 'Il ritorno di Ulisse' (da 'Ebdòmeros', Roma: Bestetti, 1972)
Il momento estesico più significativo è rappresentato dal raggiungimento della serenità, epilogo della ricerca metafisica:

«Non bisogna troppo galoppare sulla groppa della fantasia,» diceva egli «ciò che ci vuole è scoprire, poiché scoprendo si rende la vita possibile in questo senso: la si riconcilia con sua madre l’Eternità: scoprendo si paga il proprio tributo a quel Minotauro che gli uomini chiamano il Tempo e che rappresentano sotto l’aspetto di un gran vegliardo disseccato, seduto con aria pensosa tra una falce e una clessidra»(Ibidem, p. 114)

Giorgio De Chirico, 'Il tempo e l'eternità' (da 'Ebdòmeros', Roma: Bestetti, 1972)
A conferma del fatto che la definizione delle passioni risponde, in Ebdòmero, ai criteri di una semiotica differenziale, la serenità si distingue dalla quiete perché è comunque abitata da tensioni e si contrappone alla felicità, che è intensa al massimo grado tanto, a volte, da nuocere (Ibidem, p. 22; p. 69)22. Né la serenità né la felicità equivalgono in ogni caso ad un porto tranquillo in cui una volta per tutte mollare gli ormeggi. Tratto costante del romanzo – spiega Fabbri – è infatti il continuo cambiamento di scenario, come in più punti viene esplicitamente dichiarato dall’autore (Ibidem, p. 43; p. 76; p. 117). A monte di tutto ciò sta probabilmente la natura singolare di Ebdòmero, “sempre pronto ad emozionarsi in modo più violento degli altri e sempre pronto ad entusiasmarsi perdendo ogni controllo su se stesso” (Ibidem, p. 84) e insieme l’azione efficace del “famoso demone tentatore di noialtri, uomini di cuore e di spirito” (Ibidem, pp. 70-71), che non lo lascia in pace. Si passa da azioni in lento movimento all’accelerazione alla frenesia e da qui al rallentamento fino all’immobilità e al silenzio, i quali nuovamente alimentano il ciclo. Il professore parla, a questo proposito, di un susseguirsi di fasi apollinee e dionisiache, che sembrano non volersi arrestare neanche nell’ultima inquadratura, dove l’eroe si trova finalmente in compagnia dell’Immortalità. La frase finale del romanzo –

Intanto, tra il cielo e la vasta distesa dei mari, isole verdi, isole meravigliose passavano lentamente, come passano le unità di una squadra davanti alla nave ammiraglia mentre, su in alto, lunghe teorie di uccelli sublimi, d’un candore immacolato volavano cantando…(Ibidem, p. 119)

– lascia presagire un nuovo aumento di ritmo. Lo suggeriscono i movimenti ancora in corso a livello enunciativo e la sostituzione enunciazionale del punto fermo con i puntini di sospensione. In queste pagine dello scritto si condensa, inoltre, quello che possiamo considerare il modulo di trasformazione aspettuale delle passioni in Ebdòmero, parallelo all’avatar tensivo. In sintesi, al rallentamento corrispondono gli stati patemici incoativi della fiducia e della paura; all’accelerazione si riconducono le passioni durative dell’angoscia, del dubbio, della nostalgia, della scontentezza, della disperazione, della stanchezza, dell’incertezza, della vigliaccheria, della debolezza, del disgusto, della diffidenza, dell’odio, della collera; alla successiva diminuzione delle tensioni fanno eco le passioni “terminative” della dolcezza e dell’abbandono. Ebdòmero sembra tradurre nel linguaggio verbale quanto De Chirico attribuiva al potere della danza:

Il giorno in cui il primo uomo danzò fu il giorno della prima rivolta; della rivolta dell’umanità contro il suo destino di essere mortale […]. Così l’uomo danzò, prima lentamente, poi sempre più presto, per poi rallentare il movimento e di nuovo danzare molto lentamente, anche fermarsi alle volte per parecchi istanti e così comandare il ritmo al tempo23.

Vedi Giovanna Zen, Ebdòmero. Percorsi passionali
Vedi Beatrice Anelli, I fili di Arianna nelle opere di De Chirico

Un gruppo di studenti mostra grande interesse per la dimensione sensoriale sviluppata nel testo letterario. In effetti, coerentemente all’ipotesi che noi vediamo i pensieri con il nostro corpo, il capolavoro di De Chirico intreccia i livelli cognitivo e passionale con una profusione, sempre appropriata, di odori, di suoni, di colori, di sapori, di possibilità tattili. I valori del cromatismo sono emersi al tempo della trattazione del sistema spazio-temporale elaborato nel romanzo: in particolare – lo precisiamo ora – i toni chiari, tendenti al bianco, sono euforici, essendo associati al nord, mentre i loro opposti scuri, prossimi al nero, hanno carattere disforico, perché rientrano nell’area semantica del sud (Ebdòmero, p. 26; p. 75). Risalta la positività delle tinte azzurre, paragonate al cielo (Ibidem, p. 88; p. 115), e verdi (p. 21; p. 108). Un grande fascino acquistano le tonalità prodotte sia dalle luci del sole o della luna nelle diverse ore del giorno – rosa (p. 31; p. 82), oro (p. 31; p. 69), policromo (p. 70), grigio-violetto (p. 30), sia dall’accendersi di emozioni umane improvvise – ancora rosa (p. 73), porpora (p. 38) e rosso (p. 89).

Vedi Alice Rainis, I colori nell’Ebdòmero di Giorgio De Chirico

Più spesso associato a sensazioni tattili (“mano rossa e unta”, p. 55; “facce rosse e sudanti”, p. 93), il rosso ci consente di valutare il rilievo di altre espressioni sensoriali. Ebbene, sudore e sudiciume sono presenti in abbondanza nella storia, per figurativizzare negativamente lo sporco contro il pulito (p. 49; p. 57; p. 64). In accordo con la polarizzazione delle stagioni, la frescura (p. 81; p. 105; p. 108) viene preferita al calore, che spesso sprigiona aria malsana (p. 70; p. 85; p. 116). Nell’ardore del meriggio, allora, l’eroe insegue e si ripara nella penombra rinfrescante assicurata dagli alberi o dalle imposte chiuse delle finestre (p. 50; p. 85). Non dimentichiamoci che soffre di enterite ed accusa forti coliche, insomma la sua carne risente di processi infiammatori localizzati. Rispetto al senso dell’olfatto, se è altrettanto chiamato in causa per tematizzare l’impuro (p. 19; p. 42; p. 55), tuttavia, come dicevamo più sopra, proprio su di esso l’autore investe per preannunciare il cambiamento di scenario. La suggestione (p. 1; p. 78; pp. 95-96) è data dal fatto di avvertire odori indefinibili, ovvero, al pari di ciò che precede l’enigma, lontani dalla posizione del soggetto del discorso, non in praesentia. Una funzione simile24 ricoprono, a livello uditivo, cannoni, tuoni e rulli di tamburo, spesso associati agli odori (p. 68; p. 78; p. 81). Realizzando lo schema di base rallentamento/accelerazione, tempi ritmici contraddistinti da acuti improvvisi si alternano a pause di distensione e di silenzio (p. 14; p. 16; p. 117). La sensorialità gioca inoltre in Ebdòmero una parte non indifferente nel registro stilistico. Ci accorgiamo, esercitandoci nella lettura, che l’insieme delle percezioni estesiche dona al romanzo grande vivacità, non solo nella maniera di rendere l’aspettualizzazione temporale dei processi, ma nella stessa scelta dei timbri, sempre altamente “pittorici”. Il testo è ricco di suoni, di canti, di grida, di rumori (p. 23; p. 27; p. 57; p. 70)25. Alle qualità luminose e cromatiche già menzionate si mescolano fumi, vapori e fiamme di pipe, di sigari, di officine e di vulcani (p. 36; p. 56; p. 76). Le sensazioni del palato, poi, coinvolte nella messa in scena di tavole imbandite con le bevande e i cibi più vari (p. 41; pp. 56-57; p. 76), sono all’origine delle più riuscite ipotiposi (pp. 65-66). Il gusto è l’organo votato ad esprimere con la massima evidenza il sistema di valori morali dell’eroe: cosa è /buono/ (p. 40; p. 81), cosa è cattivo o immondo (p. 66), cosa è /non buono/ (l’indigesto: p. 55; p. 77), cosa è /non cattivo/, perché comunque modesto (p. 64; p. 116).

Vedi Laura Carpanese, Ebdòmero e l’odore: la metamorfosi

Nelle ultime lezioni del corso Fabbri ritorna sul concetto di genere, per dimostrare, attraverso Ebdòmero, che l’eterogeneità è parte fondamentale della sua definizione. Il romanzo, come abbiamo visto, nasce infatti dal montaggio di configurazioni riconducibili a cornici di significazione di vario tipo, dalla politica alla pubblicità, dallo still life al paesaggio al viaggio immaginario (Jules Verne è di frequente citato nelle Memorie della mia vita). Resta da interrogarsi sui due generi che fanno di Ebdòmero un filosofo: la parabola e gli esercizi spirituali. Fabbri introduce l’argomento con una panoramica sullo statuto della meditazione nella cultura filosofica. Ricorda che la meditazione non è solo uno dei modi con cui lavora la filosofia, ma la radice stessa della speculazione filosofica. Meditare, che oltrepassa il pensare, implica l’esercizio, come norma imprescindibile per l’ascesi. Si deve essere disposti alla ripetizione, atto che rafforza la memoria. I proverbi – continua il semiologo – sono forme di meditazione collettiva. Sviluppano la comunicazione orale a carattere formulatorio, con aspetti autoriflessivi. Nei secoli il cristianesimo ha assunto e monopolizzato l’uso delle meditazioni, fino a rigettarlo, per timore degli effetti di una pratica immanente. Ma da Friedrich Nietzsche in poi la filosofia è tornata ad avere a che fare con la vita, con l’esperienza. È quello che accade in Ebdòmero. Da un lato, l’eroe trascorre in disparte intere giornate, immerso in enigmi indecifrati che fa a meno di esternare, ritenendo gli altri non all’altezza. Intraprende ascensioni notturne (p. 48) e “si isola completamente, mettendosi al di là del bene e del male, ma specialmente del bene” (p. 113). Prova per l’umanità pietà (p. 60) e rassegnazione (p. 87). Chiude il suo ciclo metafisico alle cinque di un pomeriggio (p. 109). Da questo punto di vista il modello è lo Zarathustra (1885) di Nietzsche. Come Socrate, però, Ebdòmero ha i suoi discepoli, nei confronti dei quali applica il metodo della maieutica: “voi tutti siete allenati da lungo tempo al giuoco difficile del rovesciamento del tempo ed a girare l’angolo del vostro sguardo” (p. 50). Giudicandoli non sempre degli spiriti eletti, formula rimproveri e dà consigli (p. 98). Predica contro la monumentalità (p. 101) e contro la vanità e l’incapacità di vedere il rovescio della medaglia (p. 102). Il maestro agisce in gruppo, con alcuni amici, e issato sopra barche, o dalla sommità di montagne, tiene discorsi, perfino a “duemilaseicentosettantacinque facce di uomini venuti ad ascoltarlo” (p. 62). Da alcuni frammenti (“sopra a quei campi il cui vasto bacino è fecondato da più d’una semenza che il coltivatore previdente vi getta al momento opportuno”, p. 60; “e tutto ciò in regioni desertiche ove ogni grano seminato marcisce e muore senza fruttificare”, p. 94) deduciamo la convocazione, ironica perché operata in mezzo a vetture delle Ferrovie dello Stato e ad asceti del muscolo, della parabola del Buon seminatore. Su questa linea, nel complesso, la matrice non può che essere il Vangelo. Al pari di quello di Cristo, il far sapere di Ebdòmero si traduce in un far vedere.

Vedi Valentina Zanatta, La meditazione e il pensiero filosofico in De Chirico

Qual è l’impianto della filosofia di De Chirico che possiamo ricostruire dall’analisi del romanzo? Ammettiamo, innanzitutto, che non si tratta di un sistema. Non troviamo a monte, né scaturisce come effetto dell’indagine, un’intelaiatura definita, suddivisa per dimensioni e per gerarchie di parti. Inoltre, come si evince dal testo, viene ricusato lo scetticismo, satiricamente a difesa dei centauri, dei fauni, delle sirene e dei tritoni (p. 52) e si smascherano le canzonature dei logici, “che credono di possedere la chiave delle cause e degli effetti e la tavola dei valori per ogni cosa quaggiù” (p. 111). Per la tensione alla vita e verso il mondo e, parallelamente, per il trattamento delle passioni e per la loro regolamentazione, l’orientamento sarebbe piuttosto stoico. Del resto, Ebdòmero pone al di sopra delle emozioni quotidiane l’ideale dell’atarassia, della serenità dell’animo, l’otium dei latini, o come lo definisce egli stesso “l’inutilità necessaria” (p. 111); afferma il primato del problema morale sui problemi teoretici, sviluppa una teoria dei segni, esalta la figura del sapiente e il suo isolamento dagli altri. La saggezza dell’eroe si sviluppa traendo, dal meditare intorno alle esperienze della vita umana, riflessioni di ordine metodologico ed epistemologico. Tra le prime vale la pena di citare il passo più pregnante del romanzo sul modus della metafisica:

Non sprecate le vostre forze; quando avete trovato un segno, voltatelo e rivoltatelo da tutti i lati; guardatelo di faccia e di profilo, di tre quarti e di scorcio; fatelo sparire ed osservate quale forma piglia al suo posto il ricordo del suo aspetto; guardate da qual lato esso assomiglia al cavallo e da qual altro alla cornice del vostro soffitto; quando esso evoca l’aspetto della scala o quello dell’elmo impennacchiato; in quale posizione assomiglia all’Africa la quale essa stessa assomiglia a un grande cuore(Ebdòmero, pp. 49-50)

A livello epistemologico, invece, suscita grande interesse la teoria del nodo, che riportiamo qui di seguito:

In tutti questi individui […] Ebdòmero sentiva qualcosa di legato, sentiva che un nodo impediva loro di muovere liberamente le braccia e le gambe, di correre, di arrampicarsi, di saltare, di nuotare e di tuffarsi, di raccontare qualcosa con spirito, di scrivere e di dipingere, per dirla in poche parole di capire e di creare. E spesso in molte persone, anche in quelle che godevano tra la folla dei loro simili una reputazione d’intelligenza, egli vedeva il nodo e l’impossibilità di comprendere […]. Egli vedeva del resto la vita come un enorme nodo che la morte scioglie; però considerava pure la morte come un nodo rifatto che la nascita scioglieva a sua volta, il sonno era per lui il doppio nodo, lo scioglimento completo del nodo stava secondo lui nell’eternità che trovasi al di fuori della vita e della morte(Ibidem, pp. 46-47)

L’ultima proposizione filosofica, prima di smetterla con il pensiero per concedersi interamente alla vita, porta sulla possibilità mentale di radicare la natura divina nella condizione umana, interrogandosi però sull’occupazione dei termini estremi di questa condizione:

«O Ebdòmero,» disse «io sono l’Immortalità. I sostantivi hanno il loro genere o, meglio, il loro sesso, come tu dicesti una volta con molta finezza e i verbi, ahimé, hanno i loro tempi. Hai tu mai pensato alla mia morte? Hai tu mai pensato alla morte della mia morte? Hai tu mai pensato alla mia vita? Un giorno, o fratello…»(Ibidem, pp. 118-119)

Giorgio De Chirico, 'La consolatrice' (da 'Ebdòmeros', Roma: Bestetti, 1972)
Che caratteristiche hanno i tempi dell’Immortalità? Ecco, nel dettaglio, in che modo procede il ragionamento di Ebdòmero, svolto per bocca della stessa divinità: l’Immortalità è una figura astratta, quindi in grammatica è di genere femminile. Oltre al sesso dei sostantivi, e questo fortunatamente è femminile, esistono però, purtroppo, anche i tempi dei verbi. Anche il sostantivo dell’Immortalità, specie in un testo letterario, sarà dunque soggetto a coniugazione: del futuro – com’è la morte dell’Immortalità? -, del futuro anteriore – com’è la morte della morte dell’Immortalità, quando cioè sarà tornata in vita? – del presente – com’è la vita dell’Immortalità? L’argomentazione attecchisce, ancora una volta, sul terreno della traduzione tra pittura e scrittura.
Formarsi attraverso il romanzo di De Chirico ha voluto dire, davvero nel massimo di tempo e nel minimo di spazio, adoperarsi per individuare gli isomorfismi di contenuto stabiliti, sforzarsi di interpretare le ragioni di equi-valenza con gli interlocutori convocati, umani e tecnici, dedurre, dalle avventure della rilettura, che la ricerca è un piacere senza fine…

A cura di Tiziana Migliore


Note

  1. Sull’esperienza artistica di Alberto Savinio verterà il Corso di Letteratura artistica dell’A.A. 2006. torna al rimando a questa nota
  2. Vedi anche il testo su “Raffaello Sanzio”, Il Convegno, Milano-Roma, n. 3, aprile 1920, pp. 53-63. Poi in De Chirico (1985, pp. 159-165). Qui l’autore scrive: “Quest’elemento del cielo basso e del soffitto è un elemento oltremodo metafisico. Se ne trovano tracce in Leopardi, specie nel Cantico del Gallo Silvestro, ove il gallo con le zampe sulla terra tocca con la testa il cielo”. torna al rimando a questa nota
  3. Cfr. De Chirico, “Sull’arte metafisica”, Valori Plastici, n. 4-5, aprile-maggio 1919, pp. 15-18. Poi in De Chirico (1985, pp. 83-88). Per uno studio sull’influenza di Schopenhauer nell’opera di De Chirico vedi anche Christin (1995). torna al rimando a questa nota
  4. Cfr. De Chirico, “Noi metafisici”, Cronache d’attualità, Roma, 15 febbraio 1919. Poi in De Chirico (1985, pp. 66-71). torna al rimando a questa nota
  5. Si trova in De Chirico 1962 (ed. 2002). torna al rimando a questa nota
  6. Cfr. De Chirico, “Sull’arte metafisica”, op. cit. Poi in De Chirico (1985, p. 87). torna al rimando a questa nota
  7. Che De Chirico non avesse una buona opinione di questa tendenza artistica lo deduciamo dalle osservazioni contenute in un articolo apparso nel numero di giugno-ottobre del 1919 di Valori Plastici. “L’impressionismo francese è un fenomeno di stanchezza mascherata, pertanto manca di profondità […]; privo esso è d’ogni fatalità, così come d’ogni senso di eternità nella materia, e d’ogni senso di bellezza […]. La mania di “far presto” porta alla trascuranza dei mezzi: uso di cattivi colori, di cattive tele; cialtronerie tirate giù con pennelli non lavati, sopra tele già incrostate da altro colore; tinte impasticciate su tavolozze mai raschiate; ignoranza e negligenza completa nell’uso delle vernici”. Cfr. De Chirico (1985, pp. 89-92). torna al rimando a questa nota
  8. Cfr. De Chirico, “Statues, Meubles et Généraux” (Parigi, 1924-1934). In De Chirico (1985, 277-280). torna al rimando a questa nota
  9. Cfr. De Chirico 1962, ed. 2002, pp. 199-200. torna al rimando a questa nota
  10. È impossibile dimenticare, a questo proposito, che già prima della serie dei Bagni misteriosi (1934), De Chirico concepisce molti quadri di interni con piscine o con lacerti di mare. Nella maggior parte dei casi lo spazio allestito è quello della sua stanza da letto. Ad esempio, La camera dell’artista sul Mediterraneo (1928).
    Giorgio De Chirico, 'La camera dell'artista sul Mediterraneo' (1928)
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  11. “La parola greca «AIDEL», che significa più o meno ‘non vedere’, è anche associata alla sede dei morti (Ade), traccia per un’altra chiave interpretativa attraverso l’assonanza con il nome della sorella morta bambina, Adele. La ‘tragedia dell’infanzia’, trattata anche da Savinio in letteratura e in pittura, ritorna ancora una volta come punto fermo per ogni ricerca metafisica”. Cfr. Fagiolo (1984, p. 100). torna al rimando a questa nota
  12. Cfr. anche Fagiolo (1980-1981). Il critico ricorda l’estesa ed esplicita citazione del quadro nel primo numero de La Révolution Surréaliste (1 novembre 1924). Nella foto centrale, delle tre che compongono la copertina, l’opera è alle spalle di André Breton. torna al rimando a questa nota
  13. Articolo apparso in Documento, Roma, maggio, 1943. Ora in De Chirico (1985, pp. 408-412). torna al rimando a questa nota
  14. Stimmung […] si potrebbe in italiano tradurre con la parola: atmosfera nel senso morale […], nel pomeriggio d’autunno, quando il cielo è chiaro e le ombre sono più lunghe che d’estate, poiché il sole comincia ad essere più basso. Questa sensazione straordinaria […] si può provare nelle città italiane ed in qualche città mediterranea, come Genova o Nizza; ma la città italiana per eccellenza ove appare questo straordinario fenomeno è Torino”. Cfr. De Chirico (1962, ed. 2002, pp. 73-74). torna al rimando a questa nota
  15. Per Bachtin il Gargantua e Pantagruel (1534) di François Rabelais deve alla pratica dell'”allegro inganno” la sua radicalità e la sua carica sovversiva, che consiste nello “spezzare tutti i falsi legami gerarchici tra le cose e le idee, distruggere tutti gli strati ideali divisori tra di loro. È necessario liberare tutte le cose, permettere loro di entrare in libere unioni, proprie della loro natura, per quanto bizzarre queste unioni sembrino dal punto di vista dei legami tradizionali consueti. È necessario dare alle cose la possibilità di stare in contatto nella loro viva corporeità e nella loro varietà qualitativa. È necessario creare tra le cose e le idee nuovi vicinati che rispondano alla loro effettiva natura, porre accanto e unire ciò che è stato artificialmente diviso e allontanato e disgiungere ciò che è stato artificialmente avvicinato”. Cfr. Bachtin (1979, ed. 1997, pp. 231-405). torna al rimando a questa nota
  16. “Il est même permis d’intituler POÈME ce q’on obtient par l’assemblage aussi gratuit que possible (observons, si vous voulez, la syntaxe) de titres et de fragments de titres découpés dans les journaux”. Cfr. Manifeste du Surréalisme, 1924, p. 56.
    Estratto dal 'Manifesto del Surrealismo' (1924)
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  17. Cfr. De Chirico, “Arnold Bocklin” (Il Convegno, Milano-Roma, 1920. Poi in De Chirico (1985, pp. 166-171). torna al rimando a questa nota
  18. Lo stesso De Chirico affronta teoricamente il problema nel saggio dedicato a “Max Klinger” (Il Convegno, Milano-Roma, n. 10, novembre 1920, pp. 32-34. Ora in De Chirico 1985, pp. 182-191). Descrive con cura La crocifissione e rispetto al Trasporto di Prometeo dichiara: “Klinger, per rendere la scena ancora più reale, mette il gruppo volante al livello dello spettatore, sicché, chi guarda, partecipa dell’emozione di quello strano volo”. Cfr. De Chirico (1985, p. 184). torna al rimando a questa nota
  19. Il semiologo parla, a questo riguardo, di solitudine abitata. L’immobilità sur place diventa il luogo di uno sforzo estremo. torna al rimando a questa nota
  20. Cfr. De Chirico, “La volonté de la statue” (Méditations d’un peintre, 1911-1915), in De Chirico (1985, p. 36). torna al rimando a questa nota
  21. Ritorna nel romanzo, questa volta attribuito all’eroe protagonista, il ruolo attoriale del pittore nuotatore, che ha il mare dentro la sua stanza. Alla stessa logica risponde il ciclo de I bagni misteriosi, dieci litografie originali eseguite per il testo Mythologie (1934) dell’amico e poeta Jean Cocteau. “L’idea mi era venuta una volta che mi trovavo in casa e che il pavimento era molto lucidato con la cera. Guardai un signore davanti a me e le cui gambe si riflettevano sul pavimento. Ebbi l’impressione che egli vi potesse affondare, come in una piscina, che vi potesse muoversi ed anche nuotare. Così immaginai delle strane piscine con uomini immersi in quella specie di acqua-parquet, che stavano fermi o si muovevano ed a volte si fermavano per conversare con altri uomini che stavano fuori dalla piscina-pavimento”. Cfr. De Chirico (1962, ed. 2002). torna al rimando a questa nota
  22. “I sentimenti della tristezza o della felicità sono i sentimenti più forti che noi proviamo e che ci procurano le visioni più impressionanti”. Cfr. De Chirico, “Discorso sul meccanismo del pensiero” (op. cit., ed. 1985, p. 410). torna al rimando a questa nota
  23. Cfr. “Metafisica della danza”, in De Chirico (1945, ed. 2002, p. 232). torna al rimando a questa nota
  24. Jacques Fontanille (1999) parlerebbe di “attanti di controllo”, ovvero di funzioni incaricate di gestire le relazioni tra la fonte della percezione (source) e il suo bersaglio (cible). torna al rimando a questa nota
  25. Per una prospettiva peculiare sulla dinamica dei suoni consigliamo ancora la consultazione dell’articolo “Metafisica della danza”, op. cit., ed. 2002, pp. 234-235. torna al rimando a questa nota

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De Chirico, Giorgio e Far, Isabella
1945
Commedia dell’arte moderna, Roma: Traguardi, Nuove Edizioni Italiane (ed. Milano: Abscondita, 2002).

 

Fagiolo dell’Arco, Maurizio
1980-1981
Studi. 1. “Le Rêve de Tobie”. Un interno ferrarese e le origini del Surrealismo, Roma: De Luca.
1984
L’opera completa di De Chirico 1908-1924, Collana Classici dell’Arte, Milano: Rizzoli.

 

Fontanille, Jacques
1999
Sémiotique du discours, Limoges: PULIM.

 

Schopenhauer, Arthur
1851
Versuch über das Geistersehn und was damit zusammenhängt, in Parerga e paralipomena: kleine philosophische Schriften, vol. I (tr. it. Saggio sulla visione degli spiriti, in Parerga e paralipomena, vol. I, Milano: Adelphi, 1981, pp. 311-420).
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