Conversazione con Michel Butor e Henri Pousseur


Conversazione registrata in occasione dell’incontro tenuto a Palazzo Bomben, Fondazione Benetton, Treviso, sabato 7 ottobre 2006.
Pubblicata ora in Il Manifesto, 21 Dicembre 2006.


Legati da un rapporto di complicità professionale che data ormai da oltre quarant’anni e che nel 1996 ha assunto la denominazione – al tempo stesso impegnativa e scherzosa – di “cordata”, lo scrittore francese Michel Butor e il compositore belga Henri Pousseur sono esponenti di quella generazione insieme multiforme e compatta di artisti che a partire dagli anni Cinquanta, e in tutta l’Europa, hanno individuato in una sperimentazione costante delle forme lo strumento più efficace per calarsi nella dimensione della contemporaneità. E se il nome di Butor è ancor oggi legato soprattutto a un’opera, La modificazione (pubblicata nel 1957 e ora da poco riproposta in italiano per Fandango), che ha rappresentato uno dei testi fondanti del Nouveau Roman, Henri Pousseur è stato insieme a Karlheinz Stockhausen uno dei padri fondatori della musica elettronica. E proprio in occasione della quinta biennale sul restauro audio della musica contemporanea che si è tenuta in ottobre fra Gorizia e Treviso su iniziativa del Dams di Udine e della fondazione Benetton, i due “soci di cordata” si sono incontrati in una sorta di pubblica conversazione coordinata dal semiologo Paolo Fabbri: una scelta tutt’altro che casuale, visto che Fabbri è stato a sua volta un giovanissimo “compagno di strada” del Gruppo 63, espressione italiana di quell’ondata di fermenti i cui effetti sono ancora assai vivi oggi.
Di quella conversazione, che si è tenuta a Palazzo Bomben, nella sede della Fondazione Benetton, presentiamo qui ampi stralci.

Paolo Fabbri: Partendo da un tema che accomuna i miei interlocutori, l’ibridazione, vorrei prendere avvio per questa nostra conversazione da un’intervista di qualche tempo fa in cui Michel Butor, parlando del tema del labirinto, dichiarava di identificarsi con il Minotauro. Ora, un labirinto, almeno all’apparenza, sembra essere fatto perché lo si esplori e poi se ne esca. Come è possibile individuare nel Minotauro questa figura «ottimista», capace di trova una via di uscita?

Michel Butor: Tutti i miei libri sono in certo senso labirinti – labirinti dove ci si perde e ci si ritrova, ma soprattutto dove si smarriscono i cattivi. Quando Montaigne scrisse i suoi Saggi, li costruì intorno a una sorta di vuoto perché all’origine voleva mettere al loro centro un altro libro, Le traité de la servitude volontaire del suo amico Étienne De La Boétie, pubblicato qualche anno prima. Dunque Montaigne, come lui stesso spiegò, aveva seguito il modello di una pittura manierista: aveva preso un quadro, lo aveva appeso su una parete e ci aveva disegnato intorno innumerevoli arabeschi di figure chimeriche. Aveva lasciato ai trentanove sonetti di De La Boétie lo spazio centrale, e all’esterno aveva realizzato una corona, che a mano a mano diventò un labirinto nel quale i nemici si sarebbero persi e gli amici avrebbero potuto ritrovarsi. Ebbene, anche nella mia opera si ritrova questo elemento. Ho scritto libri perché gli amici si ritrovino, e i nemici si perdano. Se poi, perdendosi, i nemici trovano qualcosa per cui si trasformano in amici, tanto meglio. Inteso in questa maniera, il labirinto possiede un che di ambiguo, che consente di riappropriarsi anche del tema del Minotauro. Il Minotauro è un mostro, insieme uomo e toro, pronto a divorare i giovani che gli vengono portati ogni anno dalla Grecia. Ma il mito si potrebbe interpretare anche così: la bestia elimina tutti i giovani che non sono abbastanza interessanti e sarà eliminato da colui che gli sta alla pari, Teseo. Naturalmente io faccio tutto il possibile per essere Teseo, ma mi sembra utile lasciare una opportunità anche al Minotauro.

Paolo Fabbri: Questa del labirinto mi sembra la metafora perfetta per esprimere la difficoltà di lettura dei libri di Butor. Beninteso, quando parlo di difficoltà, non la intendo in senso negativo, o passivo. Anzi, sono convinto che la difficoltà sia un avvenimento felice, che possa avere effetti deprimenti solo su chi è già depresso. Ma a proposito del labirinto, Butor ha detto una volta di avere scritto per un periodo con un protagonista – o se preferiamo con un attore riconoscibile – che conduceva il lettore nel labirinto. Un giorno però ha deciso di sopprimere questa guida troppo esplicita lasciando che il lettore stesso diventasse il protagonista. In questo modo, non ha avuto la sensazione di abbandonare per strada molti lettori?

Michel Butor: Certo, è probabile che molti lettori si siano allontanati, ma progressivamente ne ho trovati altri, forse più interessanti. Ammetto che la lettura dei miei libri presenta una certa difficoltà – come si usa dire «bisogna tenere duro» – ma non si tratta di una difficoltà esterna: quello che intendo, è che non sono io a essere difficile, è quello che mi circonda. Siamo sempre inclini a semplificare vergognosamente la realtà in cui ci troviamo, e questo ci porta a decisioni catastrofiche. Prendiamo il caso della politica: la visione dei politici è quasi sempre semplicistica, e si traduce in risposte semplicistiche a problemi di enorme complessità, con risultati inevitabilmente disastrosi. Il labirinto in cui viviamo è colmo di antipatici Minotauri, divoratori di bambini come il Moloch dei Fenici di Salammbô di Flaubert, e quindi è necessario imparare ad affrontare le difficoltà, secondo una pedagogia che ci viene indicata, per esempio, dallo sport. Se lo sport, inteso non come pratica dell’esercizio del proprio corpo, ma come spettacolo, è tanto amato, è perché ci mostra la difficoltà in un mondo nel quale sembriamo cercare solo la semplicità. Forse le cose facili ci permettono di continuare a vivere pigramente ma solo quelle difficili, quelle che richiedono una partecipazione attiva, suscitano il nostro interesse. Ora, i miei libri richiedono una partecipazione attiva del lettore.
Quanto al personaggio guida, siamo di nuovo all’interno del tema del labirinto. Così come Arianna guida indirettamente Teseo dandogli il filo grazie al quale lui potrà uscire, all’interno dei romanzi troviamo sempre un personaggio che conduce per mano il lettore, un po’ come Virgilio per Dante. In certi casi, per esempio nei romanzi epistolari del diciottesimo secolo, come La Nouvelle Héloïse di Jean Jacques Rousseau, questo ruolo viene svolto da più personaggi, per cui si passa da un punto di vista a un altro, con risultati efficacissimi. Ma ci sono casi in cui è necessario che sia il lettore a diventare la guida di se stesso, il proprio personaggio. Così, in alcuni dei miei libri ho abbandonato questa figura, in particolare in un libro sugli Stati Uniti che ha suscitato reazioni molto vivaci alla sua uscita, Mobile. Prima della seconda guerra mondiale, gli Usa (nonostante già avessero avuto artisti e scrittori di grande valore) possedevano ancora una mentalità coloniale, consideravano cioè che la lezioni arrivasse sempre dal Vecchio Continente. Il viaggio culturale fondamentale per un giovane americano era in Europa, era qui che bisognava fare il grand tour, come si diceva un tempo. Negli anni Cinquanta, la prospettiva si è rovesciata, e l’attrattiva culturale degli Stati Uniti è aumentata al punto che per un giovane intellettuale europeo è diventato quasi obbligatorio fare il suo grand tour negli Usa. E al ritorno la gente chiedeva: «E allora, come sono gli Stati Uniti? Sono davvero così belli?» e domande del genere. È nato così tutto un filone di libri sul tema: «il mio viaggio in America». Ne ho letto alcuni, ma quando è stato il mio turno di andare negli Usa, mi sono accorto che erano falsi – falsi non nei dettagli ma nell’interpretazione. Quanto gli scrittori raccontavano era effettivamente accaduto ma lo spazio americano, il palcoscenico di questi avvenimenti era diverso. Ho quindi provato a scrivere un libro nel quale questo spazio si presentasse da solo. Ma per riuscirci, era importante che mi mettessi tra parentesi, che la folla americana si mostrasse da sola. Così è nato questo libro, in cui il lettore deve muoversi e trovare il proprio percorso da sé. Il risultato è davvero un labirinto, con al centro il Minotauro della Casa Bianca e tutte le seduzioni, i prestigi ma anche le trappole degli Stati Uniti d’America.

Paolo Fabbri: Vorrei che fosse ora Henri Pousseur a sviluppare il concetto di difficoltà. Spesso le sue opere sono state etichettate come difficili, eppure mi sembra di capire che per Pousseur sia sempre stato essenziale il ruolo del pubblico, la sua capacità di entrare nell’opera per riarticolarla: un elemento che richiama l’Opera aperta di Umberto Eco, pubblicata fra l’altro proprio nello stesso 1962 in cui uscì Mobile. Mi piacerebbe quindi concentrare l’attenzione su questo pubblico, che credevamo respinto dalle avanguardie e che invece proprio dalle avanguardie è stato posto al centro dell’opera, anche come suo costruttore.

Henri Pousseur: Nel 1960 ero al termine di un prima fase di composizione che era stata, soprattutto all’inizio, molto seria e rigorosa, e cercavo di liberarmi sempre di più da alcuni divieti. Fra i mezzi adottati, non solo da me ma anche dai miei compagni per riuscire a far suonare le forme musicali, c’era appunto quello di immaginare delle «opere aperte». Alla fine degli anni Cinquanta io stesso avevo scritto un Mobile pour deux pianos che suonammo al «Domaine musical». Fra l’altro, quando incontrai Butor nel 1960 mi disse che lo conosceva. In quello stesso periodo Boulez scriveva la sua prima sonata e Michel era andato a trovarlo per vedere lo spartito. La scelta di comporre Mobile pour deux pianos, la mia prima «opera aperta», derivava dal desiderio di mettere a disposizione di due musicisti una reale possibilità di iniziativa per contribuire alla creazione dell’atto musicale: per questo, la struttura dell’opera doveva essere determinata e allo stesso tempo indeterminata. In seguito, scrissi Répons per sette musicisti. Bisognava allargare i confini, e per una serie di motivi mi fu proposto di scrivere un’opera per il teatro, di teatro musicale per la precisione: pensai che era l’occasione giusta per mettere insieme diversi musicisti e per attenuare – o addirittura distruggere – la separazione tra l’interprete e il compositore. Ma colsi anche l’opportunità di aggiungere un terzo personaggio: il pubblico. L’opera che avevo in mente non era proprio un’opera lirica, ma una forma di opera musicale aperta, nella quale il pubblico sarebbe intervenuto per decidere: una sorta di gioco tra platea e palcoscenico. Per realizzarla, però, mi serviva un collaboratore, un amico che lavorasse con me dall’inizio, che fosse specialista della parola, della scrittura letteraria perché io non mi sentivo in grado di produrre tutti gli elementi. Gli autori francesi che all’inizio mi vennero in mente, per quanto li ammirassi, non mi sembravano adatti. Fortunatamente in quel periodo scoprii i testi di Michel Butor, in particolare un lungo articolo da lui scritto nel 1959, intitolato La musique art réaliste, un testo fondamentale che si trova nel Deuxième volume de répertoire.

Michel Butor: Sì, e adesso è stato pubblicato anche nel volume Les oeuvres complètes.

Paolo Fabbri: A proposito delle Oeuvres complètes, mi sembra che smentisca l’immagine consolidata di Butor come romanziere saggista. Per quanto mi riguarda, io lo considero soprattutto un poeta, e credo che nel suo gusto per l’algebra e per la combinazione si introduca un’istanza che si era persa: la prosodia.

Michel Butor: In effetti, sono molto fiero quando si parla di me come di un poeta. Da piccolo sognavo di essere un poeta e ci sto ancora provando. Quando ero al liceo e poi all’università ho scritto molte poesie, ma a un certo punto ho iniziato a scrivere romanzi, forse perché immaginavo che con i romanzi avrei potuto affrontare tutte insieme le mie difficoltà. Del resto, nei miei romanzi, che sono come lunghe poesie in prosa, ci sono strutture molto rigide che vengono sfruttate per avere tutti i vantaggi della prosodia. In seguito la mia situazione è cambiata ancora: dal momento che mi venivano poste molte domande sui miei romanzi, ho deciso di scrivere dei saggi, e dalle domande che mi venivano rivolte a proposito dei saggi, nascevano altri saggi, e così via. Siccome ero professore (prima di filosofia, poi di letteratura francese), le due attività – la scrittura saggistica e l’insegnamento – si conciliavano bene. Successivamente amici pittori mi hanno chiesto di fare dei libri con loro: così, per questi testi, che dovevano accompagnare le loro opere, ho cominciato a scrivere poesie in prosa. A mano a mano che altri pittori mi domandavano di scrivere testi per loro, anche al di fuori della critica d’arte, ma piuttosto per quelli che oggi vengono chiamati “libri d’artista”, questo genere di testo ha assunto un’importanza sempre maggiore fino a invadere la mia vita. È un genere a cui mi sono dedicato con grande piacere, tanto che ora posso dire di fare quasi solo questo: libri con artisti o musicisti.

Henri Pousseur: Siamo artisti anche noi…

Michel Butor: Certo! Comunque, nelle mie Oeuvres Complètes che sono in corso di pubblicazione ci sono circa mille pagine di poesie, per cui ha perfettamente ragione per quanto riguarda Michel Butor poeta…

Paolo Fabbri: Ma tornando alla prosodia, non pensa che rappresenti l’incontro tra musica e letteratura?

Michel Butor: Sì, certo…

Henri Pousseur: È una delle cose di cui abbiamo discusso maggiormente quando lavoravamo assieme a Parigi e poi anche in Belgio. Parlavamo della prosodia nelle opere di Bach e di Webern. Era il periodo in cui Michel stava scrivendo Mobile e aveva con sé un primo manoscritto. Così discutevamo della disposizione tipografica come di una prosodia e degli spartiti…

Michel Butor: Ma tutto questo è successo contemporaneamente. Il mio primo soggiorno negli Stati Uniti è stato nel 1960, e noi ci siamo incontrati alla fine di quell’anno, mentre stavo scrivendo Mobile, che è stato pubblicato nel 1962, quando avevamo cominciato a lavorare insieme per Votre Faust. E poi abbiamo continuato a lavorare insieme.

Henri Pousseur: Sì, e non ci siamo più fermati.

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