Intervista con Gianfranco Marrone, Tuttolibri de La Stampa, Sabato 30 Maggio 2009.
Paolo Fabbri, studioso di semiotica, linguistica e filosofia del linguaggio noto per la sua straordinaria cultura e intelligenza, la sua smania di far interagire mondi e problemi a prima vista diversi, per la sua capacità di rigirare le questioni teoriche per vedere le cose da un altro punto di vista, inusuale e produttivo. Fabbri, che ha compiuto 70 anni a metà aprile, e ha deciso di rinunciare agli ultimi due anni di docenza universitaria. In Italia ha insegnato soprattutto a Bologna – Comunicazioni di massa al DAMS che ha fondato con Umberto Eco, tra il 1977 e il 1983, presidente del corso di laurea dal 1998 al 2001 – poi a Palermo e Venezia; all’estero in una ventina di atenei di grande prestigio. È famoso anche per un’altra cosa: perché, almeno nella prima parte della sua carriera, non amava scrivere. Preferiva il dialogo e l’insegnamento orale. Dunque leggeva, e legge ancora, moltissimo. Il tempo che i suoi colleghi impiegavano a scrivere un libro, lui lo usava per leggerne tanti altri. Poi ha pubblicato cose importanti (La svolta semiotica, Elogio di Babele, Segni del tempo, oltre a numerosissimi scritti ora raccolti nel suo sito web personale), ma non ha mai smesso di leggere voracemente, con una curiosità e un’accortezza a dir poco invidiabili. Capacità che utilizza anche e soprattutto nella sua pratica di docente e direttore di ricerca.
«Il vero maestro – ricorda – è quello che indica i libri da non leggere: non dà le dritte giuste sulle cose da consultare ma sul tempo da non buttar via leggendo cose inutili. Per me Greimas aveva soprattutto questo ruolo. Io ogni tanto mi perdevo in testi di filosofia, di psicanalisi, di sociologia, e lui mi ripeteva sempre: “a che ci servono queste cose?” Era un maestro rigorosissimo, e lo rimpiango tanto anche per questo».
Qual è il suo rapporto coi libri, il suo modo di conservarli.
«Le biblioteche private sono luoghi strani, sistemi di classificazione che creano gerarchie implicite fra i libri. Non tutti i volumi hanno lo stesso valore, e gli scaffali servono a questo, a dare giudizi. Per esempio, io sono un semiologo e per destino ho libri “semiofori”: quelli che devo leggere per ragioni di lavoro ma lo non faccio mai. Si impongono sullo scaffale, costituiscono un muto rimprovero, ma riesco a farmi passare il senso di colpa. Sono i tesori nella cattedrale, libri che stanno lì, non li usi, ma sono un esempio di valore. Per me uno di questi è il Tractatus di Wittgenstein: non riesco ad appassionarmene. Un’altra categoria interessante è quella delle “placche intercontinentali”, gruppi di libri che si spostano lentamente dall’alto verso il basso, o verso gli stanzini bui, a causa di progressivi cambiamenti epistemologici. Per esempio per me i libri di storia, di politica, di dialettica a poco a poco cambiano di posto perché perdono interesse…».
Come è composta la sua biblioteca?
«Ho una biblioteca vasta. Ma leggere è leggerezza; così piuttosto che vantarmi della quantità di libri che possiedo mi interessa di più capire come si fa a fare un uso leggero di una biblioteca ampia. Mi sembra interessante non tanto come uso i libri ma semmai come li mando via, oppure da dove arrivano. A me pare che i libri escano dagli scaffali come le parole dai dizionari: quando non si usano più. Ma non basta: occorre seguire strategie, canali, selezioni. Quando voglio disfarmi di un libro, uso tre canali a seconda dei generi: la biblioteca della mia città, Rimini (dove mando più che altro saggi); l’università della terza età (dove faccio arrivare raccolte di poesia), il carcere (dove recapito romanzi). Non
getto mai, per una sorta di feticismo, i libri di semiotica, anche i più inutili e sinceramente brutti, anche quelli che mi arrivano in più lingue».
E con quali criteri entrano, invece?
«A parte le valanghe di volumi che mi arrivano dai premi letterari di cui sono in giuria, dato che sono un semiologo, e dunque mi occupo di problemi di metodologia, compro molti libri di qualsiasi campo o disciplina. A lungo ho comprato manuali, libri di prima informazione e di diffusione scientifica: collezionavo enciclopedie. Adesso con Internet e Wikipedia non ne ho più bisogno. Così come ho smesso gli abbonamenti alle riviste, tutte in rete».
E cosa legge regolarmente?
«Leggo sempre più poesia e meno romanzi. Non necessariamente gli ultimi poeti. Recentemente la raccolta completa di Pagliarani, soprattutto gli epigrammi, che mi piacciono molto. Ho riletto le poesie di Primo Levi. Rileggo Zanzotto, Balestrini, le avanguardie, meno Sanguineti. Fra i romanzi, dopo aver letto tutto Pinchon, mi sono tuffato su Richard Powers. Ai polizieschi cerebrali preferisco la narrativa di spionaggio. Mi piace molto Le Carré, Perfect spy per me è un capolavoro, un giorno o l’altro riconosceranno che è una specie di Dostoevskij. Fra i francesi leggo i classici, ma anche moltissimo gli oulipisti, Queneau (la Piccola cosmogonia portatile!) e fra i recenti Jacques Roubaud. Mi piacciono le graphic novel. Vorrei dire poi che nella mia biblioteca non ci sono solo libri ma moltissimi film, i Dvd si confondono regolarmente con i volumi».
Quali film soprattutto?
«I classici, i western, e sono un amante del musical, con qualsiasi tipo di musica, dai balletti di Fred Astaire ai Doors».
Tra gli autori di letteratura che l’hanno folgorato?
«Nabokov, ma soprattutto Gadda, nella giovinezza Conrad, e Calvino. Calvino ci ha insegnato anche un modo di rileggere la tradizione letteraria italiana, che non è solo quella dei Dante, Petrarca e Boccaccio, ma quella dei due filoni scientifico (Galileo) e avventuroso (Ariosto), nei quali esistono in Italia le cose migliori, e misconosciute».
E nel suo campo di studi?
«Credo che i libri che si amano di più siano quelli che hai tradotto (e dunque per me Greimas, Barthes, Dumézil) o che hai curato (Thom, Benveniste, ancora Greimas). In generale, non ho mai amato autori come Marx, Darwin, Freud, Adorno e simili. Per me è stato invece decisivo il primo strutturalismo, da Saussure in poi, con tutta la linguistica non chomskiana e l’antropologia non cognitiva».
Un parere sul cognitivismo imperante?
«Parla delle radici naturali della semantica, senza saperla; vorrebbe naturalizzare il significato ignorandolo. A me pare che bisognerebbe fare l’opposto: semantizzare quello che di solito sta nella dimensione naturale, come la retorica degli insetti».