Conversazione con Paolo da Rimini


A cura di Roberta Sapio, Geronimo Magazine, Rimini, n. 12, luglio 2019.


La Speroni Chair, le bretelle di Eco, una intervista a Roland Barthes che non ricordava di aver fatto

Paolo Fabbri è un riminese venuto da molto lontano. È uno dei semiologi più conosciuti al mondo e nel mondo letteralmente adorato.
Tiene corsi, master, lectures, conferenze ai quattro angoli del pianeta. Poi torna a Covignano, nella casa costruita dalla Tina (la MAMMA) e abitata prima di lui da Gianni che preferiva Marina Centro, tra gli alberi, i libri e la collezione di quadri lasciata in eredità dal Conte Piero Ginanni Fantuzzi. L’ottimo Carlo Somigli, giovane ricercatore del libro, sta riordinando il suo archivio e ogni volta è una specie di pesca miracolosa da cui fuoriescono vere e proprie perle, come ad esempio una intervista a Roland Barthes che il Professor Fabbri fece in francese e poi tradusse in italiano, correva l’anno 1965, finora dimenticata e ora in fase di ambita pubblicazione con un bottone rosso in copertina. Commenta ironico e sornione Paolo Fabbri: “Questo bottone rosso attaccato su, io spero sia il logo della collana. In questo caso, va bene sennò… io non voglio attaccare bottoni a nessuno!”
Sempre Carlo se ne viene fuori con un “Cosa faceva professore nel 1981 alla Vanderbilt University?”
Il professore dapprima nega “Mai stato alla Vanderbilt!”, poi ricorda! L’Università di Nashville, aveva rimosso i corsi ma ricordava Nashville e soprattutto la Grand Ole Opry e il museo dei Fiddles, violini della country music.
Il parallelismo magari non è fluido come acqua che scorre ma mi serve ad agganciare il tema della prima domanda che vorrei porre a Paolo Fabbri e cioè la sua attiva partecipazione alle celebrazioni del quattrocentesimo anniversario della Biblioteca Gambalunga.
“Mi è piaciuta questa circostanza perché la Gambalunga è la prima Biblioteca laica e pubblica in Italia. Per me sono due termini importanti. Mi sembrava, come riminese, che fosse un privilegio averla avuta in sorte nella nostra città. Inoltre non mi pareva il caso di aspettare il cinquecentesimo anniversario e così ho deciso di cogliere l’occasione”. Che colpo di fortuna! Viene fuori da sé il tema della “riminesità”!
“Poi devi considerare che io sono riminese, ma ho vissuto gran parte della mia vita fuori da Rimini e quindi sentivo, per così dire, una sorta di debito nei confronti di questa città. A differenza di mio fratello Gianni che si considerava riminese doc, io non ho mai considerato molto questa caratteristica, fin quando sono tornato da Parigi, in fine 1996, per sistemarmi qui con mia moglie Simonetta, che pure essendo romana è molto più inserita nella città di quanto sia io e con la quale ho una profonda intesa intellettuale e personale.
Però, poi, mi sono reso conto di questa sorta di debito che si sente dentro nei confronti della città dove si è nati, dove c’è la tomba di famiglia e poi c’erano questi bellissimi libri che erano del secondo marito della mia mamma, il Conte Pietro Ginanni Fantuzzi, con cui lei ha cominciato a convivere subito dopo la guerra. Così ho deciso di donarli alla biblioteca cittadina”.
Ci sono a volte interviste fortunate nelle quali non occorre porre le domande perché le risposte arrivano naturalmente. Di solito questa dinamica fortunella è determinata dal genio degli intervistati. Siamo in presenza di questo caso perché il Prof. Fabbri passa a trattare l’argomento che sarebbe stato per me ideale come seconda domanda e cioè la sua biografia.
“Mio padre era ufficiale dell’aviazione ed era morto durante la guerra. A noi figli l’ONFA (Opera Nazionale Figli Aviatori) ci aveva garantito la permanenza presso il collegio militare a Firenze. Dopo l’inizio della convivenza, mia mamma Tina e il Conte Fantuzzi, ci hanno tirato fuori dal collegio e siamo andati a vivere tutti insieme prima a Savignano, dove il Conte aveva una grande tenuta, e poi qui a Rimini, dove io ho frequentato il Liceo Classico. Poi alla fine del liceo, mi sono iscritto all’Università a Firenze.
Devi sapere che i Romagnoli una volta andavano a Firenze all’Università e non a Bologna com’è diventato comune in seguito. Quando ero assistente alla cattedra di Umberto Eco ho avuto molti illustri concittadini come studenti. Mi sono laureato a Firenze e poi ho vinto una borsa di studio, quindi mi sono trasferito a Parigi, dove sono entrato in contatto con gli ambienti più avanzati della ricerca strutturale in materia semiotica, linguistica e antropologica e diventai Elève titulaire dell’Ecole Pratique des Hautes Etudes. Quando Umberto Eco arrivò a Firenze e prese il posto di Gillo Dorfles all’insegnamento di decorazione, (non lo sa nessuno!) ero assistente di sociologia alla facoltà di Scienze Politiche C. Alfieri. Io mi sono laureato in Giurisprudenza e in Scienze Politiche: ero molto interessato alla sociologia, una nuova disciplina che veniva insegnata all’Alfieri, appunto.
Mentre ero a Firenze, a causa di Eco, che avevo incontrato all’EPHE, sono entrato in contatto con il Gruppo 63 tra cui Nanni Balestrini, un amico purtroppo recentemente scomparso”.
Una fase culturale feconda di cambiamenti che deflagreranno di lì a poco.
“Dopo, però, è arrivato il ’68 e c’è stato un casino considerevole. Io non stavo molto bene alla Facoltà di Scienze Politiche perché era molto tradizionale e gerarchica. Un esempio banale, io ero assistente volontario e riordinavo la biblioteca di Sociologia in facoltà.
A noi assistenti non era permesso di salire con l’ascensore perché lo usavano solo i professori. Ad un certo punto ho litigato con il prof. Maraini, il conosciuto teorico della partitocrazia, Preside di facoltà, che mi ha tirato le orecchie per indisciplina.
Ho deciso di scrivere a tutte le università italiane proponendomi come un genio (era una calunnia)! È stato così che Carlo Bo, il Rettore della Libera Università di Urbino, mi ha scritto proponendomi di insegnare Filosofia del Linguaggio, una materia che mi interessava molto insieme alla semiotica, lo strutturalismo e altre discipline che avevo studiato a Parigi.
Così ho accettato la proposta urbinate e alla fine degli anni ’60 mi sono trasferito ad Urbino dove con il prof. Pino Paioni e Carlo Bo abbiamo fondato il Centro Internazionale di Linguistica e di Semiotica. Mi sono servito per lo sviluppo del Centro di Semiotica dei miei molti contatti all’estero, oltreché dalla Francia, anche dalla Spagna, dal Belgio, Svizzera e così via, anche se devo dire, ad onor del vero, che è stato Paioni l’anima pulsante del CISL, portandolo avanti con tenacia e generosità.
Abbiamo svolto moltissima attività accademica di ricerca e editoriale di grande successo nel settore della semiotica. La mia esperienza ad Urbino è stata improntata alla idea che avevo di una università piccola, privata, capitanata da un signore che gestiva tutto, Carlo Bo, sia in Università che in città. Quindi ho sempre ritenuto che se si voleva fare una cosa nuova, bisognava farla lì. A Firenze era tutto predefinito e statico.
Anche Umberto Eco ad un certo punto è scappato! È tornato a Milano, è stato due anni al Politecnico e poi lo hanno chiamato a Bologna a fondare il DAMS di Bologna nel 1971. Alcuni anni più tardi sono arrivato al DAMS anche io, chiamato da Eco. Correva il 1977, era un anno molto particolare per l’Università. Ma sono ancora il direttore del Centro Internazionale di Scienze Semiotiche di Urbino.
Paolo da Rimini non se ne è mai veramente andato (da Rimini).
“Devo dire che io ad Urbino mi trovavo bene, per quanto il quotidiano fosse un po’ asfittico. Però ero vicino a Rimini, tornavo spesso a trovare la famiglia e, soprattutto, il 10 luglio, non potevo non essere presente al compleanno del mio amatissimo fratello Gianni.
Era un evento spettacolare e imperdibile. Io invitavo i molti amici del Centro Internazionale di Semiotica con il quale lavoravamo nei corsi estivi, i quali erano ignari del fatto che ci sarebbe stata la seduta straordinaria delle torte in faccia. Erano torte con molta panna che venivano tirate a tutti i presenti. Hanno partecipato Jean Baudrillard, Umberto Eco e molti altri intellettuali europei ed americani.
Poi Gianni aveva le sue relazioni politiche che io non avevo, era il periodo in cui i socialisti erano “bailantes bailantes” e Gianni De Michelis era di casa al Paradiso ma non era il nostro mondo. Di politica non mi sono mai troppo interessato. Ricordo che ad Eco hanno offerto di fare il ministro e lui ha risposto “No, grazie, perché mi vuol male!”. Credo che neanche Gianni avesse un interesse “partecipante” per la politica.
A proposito, il famoso Paradiso è stato fondato dalla Tina detta la Mirti: cioè mia mamma, la persona più attiva (e anche talora cattiva) che io abbia conosciuto”.
“Da Rimini io non me ne sono mai veramente andato. Quando stavo ad Urbino ero vicino, poi ovviamente c’era la mitica Tina, che viveva nella villa di Covignano dove risiedo attualmente e che è stata costruita alcuni anni dopo il Paradiso. La Tina aveva pensato al Paradiso come piccolo club d’elite, già nel 1956.
Ripeto: è lei che ha fondato il Paradiso. Infatti noi abitavamo proprio lì in quella casa che aveva un bellissimo giardino piantato da mio nonno Ersilio Fabbri, titolare del “Vivaio Fabbri”. Il secondo marito di mia madre era un uomo molto elegante, giocava benissimo a tennis e collezionava scudi papali: una descrizione sufficiente ad identificarlo. Era raffinato e freddo, per lui eravamo i figli del precedente matrimonio e non ci considerava più di tanto.
È lui che ha lasciato alla mamma alcuni quadri della sua bellissima collezione, ma anche molti libri della biblioteca di famiglia. Sono tutti libri di pregio, in realtà io non li ho mai sentiti come miei.
Sembrerà strano perché io ho una mia biblioteca con migliaia di libri, ma quelli non li sentivo del tutto miei. La mamma aveva due scelte: dare quei libri ad un professore (Paolo) o a un discotecaro (Gianni) e decise per me. Strano! Perché adorava Gianni. Bisogna anche dire che siccome lui stava a Rimini, lei ce lo aveva lì a portata di mano e poteva torchiarlo a suo piacimento”.
Paolo, invece, tende ad allontanarsi da Rimini spinto dalla sua innata curiosità e dall’amore per la ricerca.
Come detto in precedenza, correva dunque l’anno 1977 e Umberto Eco invita Paolo Fabbri a trasferirsi a Bologna per insegnare al DAMS. Nello stesso anno Algirdas Julien Greimas gli propone di diventare condirettore dell’insegnamento di Semantica all’Ecole des hautes etudes en sciences sociales (EHESS) che, dal momento che era un posto di ricerca, compatibile con il ruolo universitario italiano.
“Ho insegnato anche come Direttore di Programma al Collège international de Philosophie a Parigi.” Secondo voi può essere definita una “carriera normale”? Per lui sì.
“Da lì ho cominciato questa doppia carriera, ma una carriera universitaria “normale” – sono diventato professore di ruolo dopo un felice soggiorno di straordinariato all’Università di Palermo – con due momenti clou. Uno è stato quando il Ministero degli Affari Esteri ha avuto, nel 1991, l’idea di rinominare i Direttori degli Istituti culturali italiani all’estero che erano funzionari del Ministero della Pubblica Istruzione, spesso scelti politicamente.
Si decise di uscire da questa pratica – allora si diceva “democristiana” – e di selezionare personaggi detti di “chiara fama” direttamente scelti dai ministri in carica.
In quel momento io mi trovavo in Canada all’Università di Toronto e ricevetti una telefonata dal Ministero con la quale mi si chiedeva se volevo diventare Direttore dell’Istituto di cultura italiana a Parigi. Accettai con piacere a patto che non ci fosse incompatibilità con la carriera universitaria. Ero stipendiato dal MAE con una cifra “diplomatica” che rispetto a quella universitaria era davvero importante. Diventai Direttore del IIC a Parigi e addetto culturale dell’Ambasciata per un periodo di quattro anni.
Un’esperienza che mi ha lasciato tracce importanti. Non è male che un docente universitario scopra che esiste una amministrazione su cui devi imparare altri regolamenti, ecc. soprattutto nella dimensione gestionale.
Conoscevo benissimo il mondo culturale di Parigi e quindi ho avuto facilità nel dirigere dal 1992 al 1996 l’Istituto e credo e spero di aver fatto bene: il governo francese – non l’italiano per carità – mi ha dato una laurea honoris causa, un paio di decorazioni, Chevalier des Palmes Académiques e Officier des Arts et des Lettres.
Ho selezionato una squadra di persone in gamba e sono riuscito a fare un buon lavoro di coordinamento. Mi sono sorpreso delle mie capacità amministrative che non credevo di possedere, tantoché quando sono tornato, che sciagura!, mi hanno nominato Presidente del DAMS di Bologna, in virtù di queste presunte doti gestionali, ruolo che ho svolto per tre anni. Questa esperienza ha rappresentato per me una sorte di “macchia originale” perché il DAMS negli anni ’90 era molto discusso, c’erano i delitti del DAMS e aveva un’aurea poco positiva. In realtà, prima dell’avvento di Eco, alla Facoltà di Lettere e Filosofia era tutto molto statico, suddiviso per insegnamenti storici tematici. Invece con Umberto il DAMS ebbe un rinnovamento metodologico e concettuale che io ho avuto come riferimento, insieme alla ricerca che avevo svolto a Parigi.
Comunque i tre anni di presidenza del DAMS per me sono stati un incubo, c’erano 7500 studenti iscritti, oltre alle normali attività accademiche e di ricerca. Mi sono trasferito allo IUAV di Venezia, un’altra Facoltà di Arti ad Architettura, dopo Firenze, tra l’altro guarda caso, proprio il fratello del Ministro De Michelis.
Dunque mi sono spostato a Venezia devo dire per due ragioni. Una perché non volevo più fare l’amministratore del DAMS, l’altra perché non ce la facevo più con Eco (ahia!). Devo dire che Umberto Eco, non solo è stato un grande intellettuale, un grande scrittore e molto altro ancora, ma era il direttore della Casa Editrice Bompiani, il che significa che la maggior parte delle cose che si facevano in Università o venivano indirizzate alle linee editoriali della Bompiani oppure venivano scelte su criteri che di universitario avevano ben poco.
Sto esagerando ma nemmeno tanto e ad un certo punto abbiamo bisticciato. L’ho detto all’intervista che mi ha fatto recentemente il Corriere della Sera per l’ottantesimo compleanno – ho inventato l’aggettivo “invegliardito”!
Eco dava i posti con un criterio misto manageriale che non è un cattivo criterio in sé perché è necessario un collegamento tra Università e Impresa ma credo anche che bisogna essere attenti alle competenze delle persone che acquisisci. Ma Eco faceva tante cose! Scriveva buoni romanzi, bellissimi saggi, ogni settimana l’acuta rubrica dell’Espresso, pronunciava conferenze ben remunerate, rilasciava fiumi di vivacissime interviste, dirigeva corsi universitari, collezionava libri antichi e rari. Allora io ho cominciato ad essere critico. Ovviamente siamo rimasti amici, e lo siamo ancora, figurati che a Pasqua di quest’anno siamo andati a trovare la sua famiglia a Monte Cerignone e Renate, la moglie mi ha regalato le sue, di lui, bretelle rosse. Accettandole pensavo a chi fosse più intelligente, lui o l’altro mio grande amico, Italo Calvino – ho pubblicato da poco alcune delle lettere che mi scriveva.”
Termina il periodo bolognese e comincia una fase veneziana e da globe trotter nella quale cresce l’impegno, e di pari passo la fama internazionale, del Prof. Fabbri.
“Comunque me ne sono andato a Venezia e poi in questi anni ho molto girato per il mondo. Ho privilegiato le lingue latine – sono professore onorario all’Università di Lima, Perù e di Santiago in Cile – ma non solo. Ho insegnato all’Università di Toronto e grazie all’amico riminese della UCLA Ciavolella, che pubblicamente ringrazio, ho insegnato a Los Angeles. Mi diedero la “Speroni Chair”, una cattedra intitolata ad un ricchissimo signore italiano, ed anche a UCSD, San Diego e a UCB, Berkeley.
Ho insegnato anche se per periodi limitati, non ho mai voluto trasferirmi stabilmente e sempre Semiotica, la “solita roba”! Io sono del segno dell’“Ariete”, nel senso che se faccio una cosa, continuo a fare quella. La Semiotica, cioè lo studio dei segni e della significazione, è la mia vocazione permanente, il che non esclude l’apertura di spirito ma richiede costanza. Anche perché se hai un progetto e muori se c’è qualcuno che porta aventi il tuo progetto allora sei vivo. Invece se passi il tuo tempo all’autocelebrazione, la morte non ti trova vivo.
Allora io sono convinto che quando, come si dice in Romagna, andrò a mangiare i ravanelli da sotto, vorrei avere un progetto che qualcuno lo prosegua. Nel mio caso spero o mi illudo nella grande quantità di studenti che mi seguono, forse perché ho dedicato l’esistenza all’Università a cui abbiamo creduto in molti perché speravamo di cambiarla.
Oggi ci si crede molto meno perché ci si è resi conto che si può solo assistere al suo lento declino “a passo di gambero” come direbbe Eco. Sono palle, infatti, che sia stato il ’68 o il ‘77 a distruggere l’università. Abbiamo appena modificato il modello vecchio per cui non potevamo prendere l’ascensore riservato ai professori di ruolo. Parecchio comunque è cambiato, per esempio? A Bologna a Giurisprudenza nel 1958. Noi studenti eravamo 40; entrava il bidello e diceva “Entra il Professore”. Il Professore entrava: Fonti di Diritto romano.
Faceva un gesto con la mano come per farci stare seduti. Alla fine della lezione applaudivamo ed entrava il bidello ad annunciare che il professore usciva e noi di nuovo in piedi. Questa era l’Università d’elite degli anni ‘50 e ‘60.
Adesso stanno tutti sul telefonino e si siedono quando hai già cominciato a fare lezione. Il ’68 e il ’77 erano dell’idea non già di distruggere l’Università ma di innalzare il livello. Non ci siamo riusciti tanto è vero che gli Italiani che vogliono fare ricerca in Università se ne vanno all’estero. Il risultato è che non appena sono andato in pensione mi hanno subito proposto due contatti: allo IULM a Milano e alla LUISS a Roma, ove ancora insegno. Io che sono stato un accanito sostenitore nel pubblico, sono “finito a finire” nel privato. Nel frattempo ero a Rimini e con alterne fortune sono stato nell’equipe del Prix Italia della RAI, presidente del Festival dei Popoli di Firenze, direttore del Mystfest di Cattolica, direttore scientifico della rivista FMR, membro della giuria del Premio Viareggio, ecc. Dimenticavo: direttore della defunta fondazione Fellini di Rimini – che sia stata colpa mia?
Paolo Fabbri è un intellettuale di fama mondiale sulla vita del quale si girano docufilm e si scrivono tonnellate di pagine. Paolo Fabbri è un uomo che ha l’irresistibile fascino dell’intelligenza in tandem con l’ironia. Riminese scanzonato di sé, dice che qui da noi lui è stato prima “l’anvòd – nipote – ad Panòun” – mio nonno Ersilio, poi il “figlio della Tina” e, last but not least, “il fratello di Gianni”. “Sono Paolo da Rimini solo come bibliotecario nel “Nome della Rosa” di Eco”.
Per tutti noi Paolo Fabbri è un orgoglio cittadino e siamo contentissimi che si stia spendendo in proprio per valorizzare la nostra città sempre più dinamica e interessante.

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