Fabbri: “Gilles voleva che questo vocabolario fosse visto col suo respiro”


Intervista con Stefania Scateni, L’Unità, 20 Marzo 1999.


A come animale, B come bevanda, D come desiderio, G come gioia, O come opera. Cinque voci per “rimontare” L’abécédaire de Gilles Deleuze, la lunga intervista che il filosofo francese registrò per Arte. Ci sarà un semiologo al “montaggio”, Paolo Fabbri. Perché un semiologo? Fabbri ce lo spiega citando lo stesso Deleuze: “Tutto quello che ho scritto era vitalismo, o almeno spero che lo sia e costituiva una teoria dei segni e dell’evento”.
Non c’è altro da aggiungere, se non rilevare la poco accademica sede in cui verranno proiettati i brani scelti del “dizionario”, il Link. “Il dispositivo di enunciazione di Deleuze non lo annovera tra i filosofi professionisti – risponde Paolo Fabbri -. Proprio per questo oggi si interessano di lui persone che non stanno al centro del paradigma filosofico. Deleuze era molto ossessionato da un’idea alla Luther Blisset, e cioè dall’agencement collectìf – che possiamo tradurre “collettivo di enunciazione” che è stato uno dei cardini del suo lavoro, la maggior parte del quale è stato effettuato in coppia. Lo scopo dell’incontro al Link è quello di formare un collettivo di ricezione, per creare un collettivo di enunciazione”.

D’accordo, ma L’abécédaire Deleuze lo ha realizzato da solo… Come si iscrive la scelta di compilare un dizionario, seppure “parlato” nella sua filosofia?

“È molto buffo. Lui aveva chiesto che non fosse mai pubblicato perché teneva molto all’aspetto verbale e all’interattività specifica dell’immagine. Riteneva essenziale che il pubblico lo vedesse mentre parlava, ascoltasse il suo respiro. Nel suo caso era particolarmente importante, dato che aveva dei problemi di respirazione terribili. Deleuze si è occupato molto dell’immagine e del cinema. La sua riflessione sull’immagine ha compreso persino il viso. In Mille plateau c’è un capitolo molto importante sulla visagité, dove spiega il modo in cui la cultura e la società impongono al volto una forma e di come l’arte, la pantomima, il cinema impongono ad esso delle sistematiche deformazioni. Il viso come luogo dell’ordine e della metamorfosi, del divenire altro”.

Perché “sistematizzare” il suo pensiero proprio nella forma del dizionario?

“Credo che la scelta si agganci alla conoscenza approfondita che Deleuze e Guattari avevano della semiotica e del pensiero linguistico. Dicevano, ad esempio: smettiamo di studiare i sostantivi, studiamo l’infinito. E cioè: studiamo il fare non lo stato, non occupiamoci delle cose così come sono, ma delle cose nel loro divenire, nel loro infinitivo. Detto questo il vantaggio del dizionario è che è fatto proprio come Deleuze voleva: il dizionario è un rizoma, un sistema enorme di rinvii rizomatici. Ciò che appassionava Deleuze del dizionario è questa forma proliferante nel senso del divenire ma, nello stesso tempo, fissa: contribuisce al significato e contemporaneamente rimanda a un altro significato. Il dizionario è un enorme sistema in cui la parola è nello stesso tempo un’entrata e un’uscita. L’idea del rizoma sta diventando una delle idee portanti della scienza. Internet è un rizoma senza fine. E anche la vita è un sistema in crescita continua. Lo stesso Deleuze era un rizoma: si è interessato di musica (ha lavorato con Messiaen), di teatro (ha lavorato con Carmelo Bene), di letteratura, di pittura, di cinema”.

E lei come introdurrà la voce “gioia”?

“Deleuze ha sempre detto che era nel suo interesse studiare i percetti, i concetti e gli affetti. La gioia è per lui uno degli affetti fondamentali (in questo il rinvio nietzschiano è fondamentale). La sua genialità sta nel pensare le passioni non come passive, ma come attive; nel liberare l’emozione dall’essere “effetto dell’azione altrui” per intenderla come cambiamento di intensità e di potere. La filosofia pensa sempre in termini estensivi, quantificabili. Deleuze invitava a pensare in termini intensivi: parlava dei qualia, non dei quanta. Aggiungerei un’osservazione che forse Deleuze non avrebbe posto, mi domanderei se non esista una crudeltà della gioia, se la gente felice non sia un po’ egoista. A questo proposito vorrei citare una libro molto curioso che Deleuze scrisse prima di morire. L’epuisement, la spossatezza. È interessante che un teorico del potere, prima di morire, pensasse anche alla spossatezza. Ma lui diceva che la spossatezza non è una forma di esaurimento del potere, ma una forma del sentimento del potere, un sentimento del possibile. Abbiamo bisogno del possibile, altrimenti si soffoca, diceva. E persino nella spossatezza assoluta trovava una forma di estrema vitalità. Ci si chiede, allora, come un uomo positivo come Deleuze possa essersi suicidato. Deleuze non si è suicidato in un modo qualsiasi, si è buttato dalla finestra. Guardacaso, lui scrisse moltissimo sulla vertigine, definendola una valorizzazione dell’alto. Chi soffre di vertigini, diceva, non ha paura dell’alto, chi si lancia nel vuoto cerca di far sì che là dove si butta diventi alto. Anche il suo atto ultimo di rifiuto della vita è stato in qualche modo un’affermazione della vita.

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