«Il nome della rosa» nato per gioco. E la generazione degli «echini»


Da: Piero Di Domenico, Corriere di Bologna, 21 febbraio 2016.


Il racconto di chi ha vissuto con lui gli anni all’Università. Il semiologo Fabbri: «Il romanzo che l’ha reso famoso nel mondo? All’inizio era una cosa fra noi amici»

BOLOGNA – Chi ha condiviso con Umberto Eco i tanti anni passati nell’Università di Bologna sembra avere un obiettivo comune. Ricordarlo non come lo scrittore campione di vendite ma come lo studioso instancabile. «Una forza della natura, una locomotiva», secondo il semiologo Paolo Fabbri: «Non era certo un guru, una guida spirituale, piuttosto un maitre à penser. Non è un caso che il suo gruppo di allievi, gli echini come vengono chiamati, non erano certo suoi zeloti. Umberto era uno dei grandi singolari del nostro tempo e oggi mi piace ricordare che ha scritto “Le poetiche di Joyce” più che “Il nome della rosa”. O, più che “Apocalittici e integrati” il fondamentale “Opera aperta”, il suo vero libro, come mi disse anche Derrida. Con cui lui, laureato in Estetica, aveva ribaltato il modo di considerare l’estetica, anticipando la globalizzazione».

AL DAMS – Con Eco Fabbri ha condiviso la nascita del Dams bolognese: «Quando arrivò con la sua grande capacità organizzativa e di relazioni portò una cultura nuova, che ha contribuito in modo fondamentale alla reputazione di Bologna. Allora al Dams avevamo studenti bizzarri, respinti da altri atenei perché considerati rifiuti o geni. Il Dams poi è stato vittima del suo successo perché ne sono nati ovunque». Fabbri è però convinto che Eco dall’Università non abbia ricevuto quanto aveva invece dato. «Il suo cruccio più grande era proprio quello di non essere riuscito a cambiarla, l’Università».

IL NOME DELLA ROSA – La fama planetaria di Eco era arrivata però con Il nome della rosa. «Con Chomsky Umberto era l’intellettuale più famoso al mondo – aggiunge – ma non si può capire il successo che ha avuto se non si coglie che in lui capacità e talento si sono combinate con un po’ di fortuna. Ha avuto il naso di intuire che era il momento di lasciare la teoria e passare dalla semiotica alla narrazione. Ma Il nome della rosa inizialmente era nata come una cosa fra amici, anche bolognesi, dove c’era anche un tal Paolo da Rimini». Il riferimento personale fa sorridere Fabbri, che ricorda poi la capacità di lavoro onnivora di Eco: «Amava dire che i libri sono come il maiale e che di essi non si butta via niente. Quando eravamo a Bologna dormivamo entrambi all’Ambasciatori. Una sera siamo arrivati distrutti ma io a letto sentivo i suoi passi di sopra mentre, stanchissimo, dettava al dittafono la traduzione di un romanzo. Mi è dispiaciuto molto che non gli abbiano mai dato il Nobel, ma forse sarebbe stato troppo, non ne aveva bisogno».

«CULTURA RIVOLUZIONATA» – Anche Patrizia Violi, che di Eco ha preso il posto nella cattedra di Semiotica, preferisce ricordare i suoi meriti scientifici. «Noi che abbiamo lavorato con lui – dice – lo ricordiamo come un grandissimo semiotico, che ha lasciato un’eredità etica, di correttezza». Pure la storica dell’arte Anna Ottani Cavina aveva condiviso con Eco l’avvio del Dams: «Ero l’unica donna nel primo gruppo di grandi intellettuali che diede vita al Dams, ero giovanissima, avevo 26 anni. Eco ha rivoluzionato la concezione stessa di cultura. Non c’erano steccati tra le discipline e anche le sessioni d’esame le facevamo insieme. Mi ha permesso di misurarmi con grandi menti e poi mi è sempre stato vicino nelle sfide, come quella di portare a Bologna l’Archivio Zeri. Nessuno è mai stato disponibile come lui, anche con gli studenti. Nessuno ha mai dimostrato come lui tanta fedeltà e passione all’Università. Nessuno si è mai speso con una tale generosità».

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