Pinocchio


Intervista con Alessio Filippi, Italian studies, UCLA, Los Angeles, 2004.


Prima ancora che il Pinocchio di Benigni uscisse nelle sale nordamericane (avventura dimostratasi poi purtroppo quasi del tutto fallimentare), ho invitato il Prof. Paolo Fabbri, Visiting Professor al Department of Italian Studies di UCLA nell’autunno del 2002, ad esprimere alcune considerazioni sulla fortuna del Pinocchio collodiano. Insieme abbiamo discusso non solo di alcuni motivi e strutture inerenti al testo originale, ma anche di “mitismo” del personaggio e del lessico che lo descrive, e dell’ultimo lavoro cinematografico di Benigni. Il testo che segue riproduce fedelmente (con lievi varianti editoriali) il contenuto dell’intervista.

Come si spiega secondo Lei la straordinaria fortuna editoriale del Pinocchio collodiano?

Impossibile spiegarla con ragioni storico-sociologiche da bestseller. Ci sono delle proprietà testuali salienti. Probabilmente Pinocchio ha nella forma espressiva e nell’organizzazione dei suoi contenuti un certo “mitismo”, cioè la capacità di essere tradotto sostenendo tutte le trasformazioni e mantenendo comunque la propria identità. Ci sono opere in cui la variazione di parti provoca un’alterazione irreversibile. Pinocchio invece resiste alla traduzione linguistica e semiotica, alla trasformazione semantica e al tradimento. Questa potrebbe essere una definizione parziale del mito: il mito è quello che sopporta infinite variantie vive, per così dire, in stato di traduzione.

Ma allora, esiste secondo Lei una struttura formale nel Pinocchio di Collodi? Qual è la sua organizzazione? Quali sono le strutture formali ed organizzative del testo?

Vanno tenuti in conto la trama e i tratti distintivi del personaggio. Il libro Pinocchio non è un testo coeso, nel senso narrativo tradizonale. La storia è stata scritta a puntate con la tecnica del feuilleton, e quindi con una certa incoerenza e permutabilità fra una puntata e l’altra. Ma anche il Pinocchio personaggio soffre o gode del tratto della incoerenza.

Quali sarebbero dunque queste incoerenze? Si ricorda degli episodi particolari?

Certo! Ad un certo punto i carabinieri vogliono prendere Pinocchio per le orecchie, ma che Geppetto si è dimenticato di fargliele; oppure è lui a mettersi le dita nei capelli, ma per accorgersi che il padre non ha li ha rifiniti. Pinocchio è un personaggio morfologicamente incompiuto e narrativamente incompleto. Si brucia i piedi che verranno ricostruiti alla buona, perde i vestiti in mare e indossa un sacchetto di lupini. Il burattino è in costante trasformazione fino alla metamorfosi definitiva. Questa incoerenza, che è una componente della qualità “mitica”, è causa ed effetto della incoerenza della storia. Manganelli, nel suo libro Pinocchio, un libro parallelo ha spiegato con humor molte incoerenze testuali. Come non si conosce bene la sua età, né di che legno sia fatto, così non si riesce a capire, per esempio, come sia fatta la stanza di Geppetto. La prima volta che ci viene descritta è un sottoscala, in cui poi Geppetto entrerà… da una finestra; vi si trova di tutto, per accumulazione, secondo le necessità di sviluppo della storia: compreso un mucchio di immondizia con un uovo e sul muro una pentola dipinta che bolle. Incoerenza discorsiva di un libro a punntate e con una struttura aperta, in cui gli stati del mondo dipendono dal fare del personaggio e non il contrario. Qualche altra “incongruenza” sul piano degli attori: la Fata. Inseguito dagli assassini, Pinocchio la incontra dapprima come una bambina, che si dichiara morta, ma che vorrà poi metter su famiglia con Geppetto come padre e come fratellino Pinocchio. Poi Pinocchio se ne va per le sue avventure e sventure: la fata bambina apparentemente muore e ne leggiamo l’epitaffio; in seguito Pinocchio incontra una donna, riconosce la Fata e la prende come madre. Alla fine della storia la Fata si trasforma in una capretta e sempre come capretta gli regalerà la casa. Per riapparire in sogno come Fata e operare la trasformazione da burattino a bambino. Insomma il testo è incongruo per certi aspetti, ma questa incongruità, è diventata una forza narrativa “mitizzante”. Anziché analizzarlo, i lettori e i traduttori lo catalizzano, cioè ne colmano i vuoti narrativi (i blanks direbbe W. Iser), i presupposti e le allusioni. Sul piano formale, chiedere una coerenza a Pinocchio è comportarsi come davanti ai fregi del Medioevo, in cui i personaggi stanno uno accanto all’altro, separati dalle arcate d’una comune architettura, come se abitassero uno stesso spazio e tempo. Tocca noi invece il compito coinvolgente di ricostruirli narrativamente.

E dal punto di vista del contenuto, quali sono i punti di forza di Pinocchio?

Pinocchio tratta qualcosa di molto profondo nel nostro immaginario collettivo. La relazione fra l’animato e l’inanimato: tra il pezzo di legno e il burattino che agisce con intenzione autonoma. Poi, il rapporto tra il mondo animale e quello degli uomini. Intermediario e shifter tra i due mondi, Pinocchio è costantemente a rischio di ricadere dalla sua posizione ibrida per diventare animale. In un episodio lo legano alla catena di un canile e deve abbaiare per svegliare il padrone; oppure diventa un somaro e si trova a ragliare; oppure vogliono friggerlo e mangiarlo come pesce, un pesce-burattino. Così come rischia costantemente di ricadere al livello inanimato. Lo vogliono bruciare come un pezzo di legno, come nell’episodio di Mangiafuoco; e i compagni di scuola vorrebbero legargli dei fili alle mani ed ai piedi, perché non capiscono come possa muoversi altrimenti. Pinocchio è un essere intermediario, come un androide. Per esempio, con l’eccezione dell’oste del “Gambero Rosso”, Pinocchio è il solo a parlare agli uomini ed agli animali: gli animali e gli uomini non parlano tra loro e la Fata, che parla a Pinocchio e agli animali, non agli uomini. Stare così tra l’animato e l’inanimato, l’uomo e l’animale, è una posizione ed una forza mitica, quella stessa che ci porta a costruire computer che potranno un giorno parlare o robot capaci di sensazioni. Come ha compreso Spielberg, nel film A.I., un’ottima variante del nostro mito.
Insomma partendo da una cultura regionale come quella Toscana, che ispirò Collodi, si manifesta qualche cosa di antropologicamente molto profondo. Il mondo degli uomini e degli automi alla fine si rivela però incompatibile. Pinocchio-marionetta non può crescere: come dice bene la fata, “nasce burattino, vive burattino, muore burattino”. Per svilupparsi deve abbandonare la sua doppia natura, sdoppiarsi. Quando Pinocchio diventa fanciullo, il burattino Pinocchio rimane inanimato, appoggiato ad una sedia. Non c’è metamorfosi possibile, come, ad esempio, nella versione di W. Disney.
Questa coerenza antropologica sostiene poi e guida le incoerenze testuali di superficie.

Di che tipo di coesione si tratta?

Pinocchio racconta costantemente Pinocchio. Proprio per l’esigenza temporale del feuilleton, di quando in quando fa dei riassunti abbastanza spropositati che formano, ironicamente, un livello “meta-narrativo”. In più di un occasione, Pinocchio rinarra confusamente la propria storia, come se non la comprendesse a pieno e toccasse al lettore di districarla.
Se guardiamo invece ai dettagli del racconto, ci accorgiamo che c’è un sistema in questa corsa picaresca. Per esempio, siccome Pinocchio non appartiene interamente alla cultura, i suoi vestiti sono sempre “naturali”: il cappello di crosta di pane, il vestito di carta, le scarpe di scorza, più tardi i sacchetti di lupini. La sola volta in cui porta un cappello di lana lo fa, in maniera antifrastica, per coprire le orecchie da somaro! Solo alla fine Pinocchio fanciullo si vestirà con scarpe di vacchetta. E solo alla fine riuscirà a restare in contatto con quell’oggetto culturale che è il denaro: riceve infatti un portamonete d’avorio con quaranta monete d’oro. Prima i soldi li seminava, nella speranza che, come i semi naturali, crescessero, ma il denaro “frutta” altrimenti. Ma osserviamo anche la sua dieta. Pinocchio è uno stretto vegetariano e in ogni caso non consuma dei cibi cotti, che mangiano invece persino gli animali come la volpe ed il gatto. Pinocchio rischia piuttosto di essere mangiato ma e tutte le volte che si alimenta lo fa con elementi non trasformati culturalmente.

E cos’è allora che permette il passaggio di Pinocchio dal mondo della natura a quello più evoluto della cultura?

Da un parte il padre, e questo spiega per esempio il raddoppio degli episodi di costruzione: Mastro Ciliegia e Geppetto. Mastro Ciliegia vuole farne la gamba ad un tavolo e Pinocchio rifiuta. Quando invece Geppetto dice di voler fare un burattino “che andrà per il mondo, per ballare e tirare di scherma”, “bravo Polendina!”, dice subito Pinocchio. La logica narrativa soggiacente permette la squalifica dei cattivi, coloro che intendono lasciarlo nel mondo della natura e la valorizzazione di quanti vogliano portarlo nel mondo dell’animato. Il problema è il passaggio di stato, il processo, non la natura di Pinocchio che è composita. Per esempio, non è interessante sapere di che legno è fatto Pinocchio. Anche nell’ultimo film di Benigni, lo si pretende di pino, da cui Pinocchio. (Se mai è curioso che si chiami come il padre: Pinocchio e Geppetto sono due diminutivi di Giuseppe.) Più notevole è che sia fatto d’un legno durissimo che resiste alle coltellate e galleggia quando ce n’è narrativamente bisogno.
Ma torniamo al padre che deve socializzare Pinocchio. Come fare? Con i consigli e soprattutto con la reciprocità delle promesse. Fin dall’inizio è scritto: “Io sarò il bastone della tua vecchiaia”. A Pinocchio il padre rifà i piedi bruciati, poi lo sfama e lo riveste anche coi propri vestiti. Ma alla fine della storia, Pinocchio è l’agente d’una puntigliosa restituzione: tira fuori Geppetto dal ventre della balena; gli fabbrica una specie di carretta di legno per trasportarlo; è lui che gli trova i vestiti; lui che lo sfama col latte (!) e gli trova casa. Una inversione perfetta: tutto quel che il padre ha donato, gli va reso. Questa è la regola prima per apprendere ad essere membro socialmente competente di una comunità. E non solo nella cultura contadina nella Toscana dell’Ottocento.

E il ruolo della madre? Se guardiamo alla struttura della famiglia italiana dell’Ottocento, quella di Pinocchio mi sembra molto anomala.

Certo. Una madre-sorella singolare. Tutti i lettori hanno notato il paradosso di un bambino creato dal solo padre e gli psicanalisti si sono appassionati al fantasma d’una partenogenesi maschile. Ma dobbiamo tener presente che senza la madre Pinocchio non potrebbe restituire al padre, come da promessa. È necessario che la madre compia due fondamentali operazioni: il dono ed il perdono. Perdonare, dicendo che il tempo delle monellerie è chiuso, consente d’aprire il futuro. Non si possono far e tenere promesse se non si è chiuso col perdono il tempo del conflitto. Quanto al dono, ricordo che è la Fata a donare la casa e che trasforma le monetine di rame in zecchini d’oro. La madre è capace di miracolo: portare la ricchezza, chiudere col passato e aprire il futuro. Però il senso e il valore fondamentale d’un uomo non è vivere con la madre: svolto il suo compito, alla fine, la Fata-madre appare solo in sogno, poi sparisce e restano insieme i due uomini, come all’inizio. E di questo bisogna tenere conto, per la ideologia e la struttura tradizionale della famiglia toscana dell’Ottocento. Ma bisogna tenerne conto anche come tema culturale più vasto. La madre è il miracolo necessario e provvisorio in un mondo di relazioni tra uomini!?

Cosa può dirci delle varianti di Pinocchio?

Beh, di recente Stefano Benni ha scritto e rappresentato a teatro una Pinocchia e un noto omosessuale ha pubblicato un Finocchio gay. Carmelo Bene ne ha messo in scena almeno tre versioni: diceva d’essere affascinato da un personaggio da teatro che non poteva crescere.
Le possibilità generative sono molte. Vorrei prendere un esempio da Collodi, da quella che potremmo chiamare non l’originale, ma la variante toscana di Pinocchio. Si tratta del naso che cresce e delle bugie che sono stati oggetto d’infinite replicazioni. Quel naso spropositato viene usato come emoticon su internet. Vorrei ricordare però che nella versione toscana non è grave dir bugie, ma non saperle dire al momento giusto. Per esempio, quando Pinocchio, anzichè comprarsi il vestito, dà i soldi alla fata, la quale si pretende malata per metterlo alla prova, dirà al padre di aver deciso di non comprare vestiti. E non gli cresce affatto il naso! Quando non dice al padrone che il cane Melampo era complice delle faine, mente per buon cuore e non gli cresce il naso. Il problema di Pinocchio non è mentire, ma sapere quando e come e dove e a chi dire la verità… No, Pinocchio è un testo dove viene insegnato a tenere le promesse, questione di efficacia, che è un’altra cosa dalla verità.

Certo, ma secondo Lei come fanno letteratura e lessico toscano a permettere questa grande varietà?

Le caratteristiche di Pinocchio, affamato, in corsa continua, da un padrone all’altro che lo vuol mangiare, legare, annegare, bruciare ecc., somiglia, come ha notato Calvino, al genere picaresco. Il quale è assente dalla letteratura italiana, ma è un tratto della fiaba toscana.
Ancora: mentre a livello lessicale alcune parole toscane risultano così difficili, che alcune edizioni le “traducono” in italiano, permangono invece le immagini che traspongono certi idioms toscani. Per esempio, gli asinelli con le scarpe di vacchetta nel carro dell’Omino di Burro traducono il detto: “un asino vestito e calzato”. Pinocchio dà un morso al Gatto, nascosto sotto la maschera e sputa via lo zampino di gatto: “tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino”. Di più: quando a Pinocchio spuntano le orecchie asinine e si mette una berretta per nasconderle col pretesto del raffreddore, parla ad una Marmottina. Questo perché in toscano si diceva “prendersi una marmottina” quando s’aveva il raffreddore. Insomma gli idioms toscani hanno prodotto una figuratività che manca in altre lingue, ma che si è integrata ad un ricco immaginario, non più ancorate al significato originario. Permane il rapporto alla lingua e alla cultura toscana, ma questo retaggio è l’occasione di una produzione d’immagini inusuali che entrano poi in contatto per sinonimia o antonimia con nuove immagini delle lingue e delle culture in cui la storia viene trasposta e tradotta. Per esempio, in un certo episodio, che ha luogo sulla spiaggia, Pinocchio fa un errore di comportamento. Chi si fa avanti per rimproverarlo, e a chi Pinocchio darà la baia? Un granchio. Proprio così: “ha preso un granchio”.

Vorrebbe aggiungere alcune osservazioni sulle produzioni cinematografiche su Pinocchio?

Pinocchio è stato trasposto al cinema vent’anni dopo la sua pubblicazione. Il primo film (1911) di un nobile toscano, il Conte Antanamoro, era di quaranta minuti, un colossal per l’epoca. Era già un Pinocchio che correva picarescamente attraverso situazioni disparate e poiché sono stati utilizzati diversi set cinematografici già esistenti, ad un certo punto della storia vediamo Pinocchio correre tra una tribù di indiani nordamericani sul sentiero di guerra e un reparto di soldati canadesi. Fin dall’inizio, quello che ha attirato in Pinocchio è il suo correre, la figura in rapido movimento. Anche le illustrazioni dei primi libri di Pinocchio erano mobili, munite com’erano di una linguetta che anima i personaggi. In fondo il cinema è stato una naturale prosecuzione del moto. Ma correre non basta, c’è qualche cosa di più profondo di cui discorrere. De Chirico, per esempio, racconta che nella sua vita quello che ha contato di più erano gli enigmati di Pinocchio e Nietzche. Calvino dice che Le avventure di Pinocchio è sempre stato il suo libro di riferimento. Per B. Croce come P. Hazard era il più importante dei libri per bambini. E non solo in Italia.

E poi arriva Disney, fino al punto che il pubblico americano stenta a riconoscere la paternità collodiana di Pinocchio.

Pinocchio di Disney è del 1939-40; sono passati sessant’anni da quando è stato scritto e sessant’anni da oggi. Da allora ci sono state e ci sono decine di Pinocchi al cinema e in televisione. Io ricordo un Pinocchio della TV tunisina con Fata sorella e preghiere ad Allah. Oltre ai remake – dove ha un ruolo sempre più importante lo spettacolo, il Pinocchio del teatro – ci sono anche continuazioni di Pinocchio: ne Il figlio di Pinocchio, Pinocchio sposa la sorella di Lucignolo. Insomma da vero mito, vive con varianti incessanti. Disney ha segnato però un caso molto fortunato: ha introdotto nel testo un ideologema anglosassone che ha avuto grande fortuna, ma che manca completamente nel libro toscano. Il grillo parlante è un Conscience Officer, cioè è quasi un poliziotto, un funzionario della coscienza. Ora, in Pinocchio il grillo è tutto fuori che questo: è l’attore metamorfico di un mondo magico di fiaba. Pinocchio riesce anche ad ucciderlo, ma il Grillo torna senza posa. Evidentemente questa trasformazione ideologica risponde all’uscita da una società tradizionale, dove i problemi erano di responsabilità verso la figura paterna per diventare una questione di psicologia domestica. In un mondo mutato, Disney aveva capito che la problematica della famiglia si era spostata: il bambino e il babbo formano una famiglia mononucleare, con ruoli individuali. Dall’antropologia alla psicologia insomma, il Pinocchio americano è molto più vicino alla sensibilità odierna.

Concludiamo con l’esperimento di Benigni. Il film uscirà negli Stati Uniti a Natale e dall’Italia mi sono già arrivati giudizi discordi. A Lei come è sembrato? Il Pinocchio di Benigni è fedele alla tradizione o un ribelle come il suo regista?

Devo dire che Benigni, piuttosto mal girato e peggio recitato, è rimasto fedele al testo, con qualche divertente invenzione. Per esempio, Pinocchio e Lucignolo hanno una comune passione per i leccalecca, che attaccano ciascuno da una parte. È una variante dei celebri panini imburrati sui due lati delle merende dalla Fata!
Quel che è difficile da accettare, perché profondamente infedele, è che sia la Fata a dar vita al legno in cui verrà intagliato Pinocchio. È politicamente corretto ricollocare la madre in un ruolo fondamentale, ma è del tutto diverso dal senso del Pinocchio tradizionale. Una variante come un’altra? Poi, nonostante gli sforzi, il Pinocchio-Benigni non riesce neppure ad uccidere il grillo… oggi non si tratta così la coscienza!
Detto questo, alla fine del racconto c’è una bella invenzione. Pinocchio-fanciullo va saggiamente a scuola, ma la sua ombra fugge e ricomincia a correre. Il personaggio si scinde, ripetendo in qualche modo la divisione tra bambino e burattino inanimato dell’originale. Si riapre così la storia: lo scolaro è una marionetta inanimata e la libertà sta nelle ombre? Comunque sia, trovo che questa variante sia un contributo, modesto, al numeroso mito del nostro burattino.

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