Viaggio nel lato oscuro della Rete. «Il deep web non va demonizzato»


Lorenzo Guadagnucci, Il Resto del Carlino, 9 settembre 2016, p. 31.


Il semiologo Fabbri: «La trasparenza assoluta induce al totalitarismo»

LA RETE è un iceberg e quel che vediamo abitualmente, il world wide web, non è che la punta affiorante dall’acqua, appena il 4% del totale. Tutto il resto è «comunicazione al nero», come l’ha chiamata il semiologo Paolo Fabbri nella sua conferenza al Festival della Comunicazione di Camogli.

Professor Fabbri, che cos’è la comunicazione al nero?

«Le cito i dati di una ricerca: ogni giorno su Facebook passano 350 milioni di foto e circolano 144 miliardi di mail. Un’enormità, ma – appunto – la comunicazione in chiaro non è che il 4% del totale. Abbiamo un’idea della comunicazione – chiara, trasparente, aperta – che non corrisponde alla realtà. Possiamo dividere la comunicazione al nero in due ambiti: il “dark web”, dove la comunicazione è criptata, ma è sempre qualcosa di conoscibile e conosciuto, accessibile con strumenti come il software Tor. Poi c’è il “deep web”».

È pericoloso?

«II deep web è un enorme mercato, dove si trovano droga, armi, pedofilia, commercio di organi e dove si usa una moneta virtuale che permette di non lasciare tracce. D’altra parte è anche il luogo che permette ai militanti che si oppongono alle dittature di comunicare e organizzarsi: accade in Cina, è successo con le primavere arabe».

Quindi, pro o contro il deep web?

«È la domanda che dobbiamo farci sulla scia del quesito che Umberto Eco ha lanciato riferendosi al web in chiaro, che una volta definì popolato di imbecilli. La mia risposta sul deep web è: pro e contro, contro e pro. II mio è un giudizio reversibile. La trasparenza va benissimo, ma non sempre».

Oggi la trasparenza in Rete è invocata anche per la lotta al terrorismo.

«Appunto, ma io dico che la domanda sul deep web pone un falso quesito, perché si sofferma sulla tecnica e trascura la tecnologia. lo faccio una precisa distinzione: la tecnologia è l’uso sociale che si fa della tecnica, è può quindi essere criminale ma anche l’opposto, cioè socialmente utile».

Quindi è sbagliato demonizzare il deep web?

«È sbagliato, ma certo non dico che non si debbano perseguire le attività criminali, tutt’altro. In un certo senso il deep web è utile anche alla polizia, che lì può riuscire a scoprire e inseguire chi compie dei crimini. C’è una tensione continua fra trasparenza e privacy. Quando il governo statunitense ha chiesto alla Apple di aprire la sua criptografia per gli smartphone, la risposta è stata no».

Ma non c’è il pericolo di agevolare terroristi e criminali?

«Guardi, le ultime indagini hanno rivelato che i membn dell’lsis usano poco il deep web, che è difficile utilizzare, e preferiscono il web in chiaro, dove comunque è possibile agire con forme di protezione e riservatezza. La società dell’informazione nella quale viviamo è anche la società della massima diffusione della criptografia e dello spionaggio. Non c’è mai stato tanto spionaggio come oggi. Il dilemma è evidente: eliminando la criptografia si renderebbe forse la vita più difficile ai terroristi, ma ci sarebbe un prezzo molto alto da pagare in termini di libertà. Il ministro degli Interni francese in effetti è stato chiaro: è contro la criptografia in nome dell’emergenza, cioè di una guerra, ma in guerra c’è il controllo dell’informazione».

Dobbiamo dunque convivere con l’informazione al nero?

«lo credo che dobbiamo riconoscere il ruolo costitutivo del segreto. Segreto non come mistero, sia chiaro, ma come non detto. C’è stato un periodo in cui la psicanalisi diceva che il paziente deve dire tutto, non nascondere niente. Poi si è capito che c’erano più difficoltà e pericoli di quanto si immaginasse e anche lo psicanalista ammette che qualcosa possa rimanere segreto. II non detto fa parte della nostra vita, del modo di essere di ciascuno. A livello sociale vale lo stesso principio. Pensi alla politica. La comunicazione politica è fatta di polemica e non c’è polemica senza una parte di segreto, di non detto. Non c’è politica senza allusività. C’è ancora chi ritiene che la tecnologia della comunicazione, di per sé, porti democrazia, ma non è così. Chi lo pensa ritiene che chi parla dica tutto, con chiarezza e trasparenza, ignorando l’importanza del non detto e dell’allusività. Potremmo anzi ribaltare il concetto e dire che in un mondo in cui tutto è visibile incombe il totalitarismo. Il sogno del dittatore è la trasparenza totale».

La trasparenza è oppressiva?

«Ci può essere un’oppressione della trasparenza, come può esserci, è chiaro, un’oppressione del segreto. Ma c’è un’ideologia della trasparenza che non considera quanto questa possa essere alienante».

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