Il Giornalino – www.zoooom.it


Da: Il Giornalino – Settimana dal 26/2/2001 al 4/3/2001, www.zoooom.it, 2001.


domenica 4 marzo
Come lunedi’, torno a guardare la Dalmazia dalle colline innevate di Rimini. S. Marino, dietro le mie spalle è stata fondata da un monaco illirico. Ricordo il gioco infantile di riconoscere nell’orizzonte nuvoloso la costa di Spalato e Zara, Cattaro e Ragusa. Quest’ultima aveva un tempo la “franchisia”, il diritto di asilo. Ne usò Sigismondo Malatesta, il signore di Rimini, l’uomo dell’elefante e della rosa a quattro petali, che il papa Piccolomini fece bruciare in effige sui gradini di S. Pietro. Si è aperta ieri a Rimini la Mostra Malatestiana dov’è esposta la sua armatura. E il S. Gerolamo che per lui dipinse Pietro della Francesca. Ha ragione Calvino: tra S. Gerolamo il traduttore e S. Giorgio l’uomo dei guerra c’é presupposizione reciproca. Dopo il viaggio e l’avventura c’è lo studio e lo stallo, dopo il Cavaliere, l’Eremita. Non mi resta che epilogare, cioè estrarre dal carniere dei segni una filza di sensi. Pedràg Matvejevic ha scritto ne “Il mondo “ex-“, che i croati hanno guadagnato l’indipendenza senza acquisire la simpatia e la credibilità dell’opnione pubblica mondiale. E’ il momento allora di leggere i libri e le riviste che ho ricevuto: “Dubrovnik”, n 1/2, del 1999 e il primo numero de “Il ponte”, rivista di letteratura croata, stampata a Zagabria interamente in italiano, con una parte dedicata all’Istria e a Dubrovnik. E di guardare le immagini di quel che ho già visto, come quei consumatori che, dopo l’acquisto della merce, guardano le pubblicità per confermarsi nella buona scelta. Cosa ho compreso? Sapevo già che la verità ci viene dagli altri (spesso in forma rovesciata). Sapevo che la frontiera è un dispositivo di traduzione e che più grande è l’intraducibilità, maggior è il compito e l’esito del tradurre. Ho avuto la conferma della difficoltà dell’Europa e qualche dubbio in più sulla sua identità. Ma ho preso tempo: saro’ a Trieste alla fine di marzo, al convegno degli idiomi istriani e a Budapest alla fine di aprile. Per i nodi di questa parte d’Europa non basterà la spada, ci vorrà il sapere. Forse ho imparato qualcosa sul viaggio e su quella curiosa particella “ri-” nella parola “ritorno”. Quando si “ri-fa” qualcosa, lo si puo’ fare dal principio, dal mezzo o dalla fine. Il mio ritorno in Croazia (forse in maggio o in settembre per la riunione delle università europee) sarà dal mezzo: non ricomincerei dall’inizio e neppure dalla fine. Senza l’accellerazione terribile che la guerra infligge alla storia potro’ ri-cominciare a partire dalla atmosfera di questo breve viaggio come se non fossi veramente ri-partito. L’atmosfera è fatta di piccole sensazioni: odore di rose, colore di aranci o di mattoni, luce di pietre e d’acque viste da alta quota, la qualità della voce in parole sconosciute, i silenzi umani e non umani, il sapore del vino bianco o d’un biscotto allo zenzero. La memoria come l’erba cresce dal mezzo.

sabato 3 marzo
Zagabria. Non ho rivisto la città vecchia, né il museo dei pittori naifs. La città ed io ci siamo toccati in qualche punto e non sono un turista con pretese totalitarie. Riparto dall’hotel Intercontinental che durante la guerra (si puo’ dire: civile?) era il sicuro quartiere degli ufficiali dell’Onu e il preteso luogo di prestazioni (come dire: sentimentali?) con tariffe riportate dalla stampa italiana. L’Alitalia non ha voli diretti (perché?) e si serve del vettore Croazia Airlines che ha un volo interno fino a Split, per poi proseguire su Roma. A Spalato sale l’intera squadra di calcio della Corea, impeccabilmente vestita di bianco e nero, come l’enorme rete di palloni da footbol che viaggia col nostro bagaglio. Un segno senza frontiere, la sfera di cuoio: glocale, globale e locale. Crepuscolo sull’antico Golfo di Venezia, il mare Adriatico di cui l’amico Pedràg Matvejevic scrive come di un braccio di mar morto, in cui “la storia ha buttato l’ancora ed ammainato le vele”. “Stasis”, che in greco antico voleva dire lotta intestina, guerra civile. Ma io ricordo un viaggio recente all’arcipelago delle Kornati (Coronate): al riparo del vento fresco, nello stretto di S. Pietro, le barche estive con i segni dell’Austria, della Germania, di Venezia. A quando gli ungheresi, che avevano a Fiume il loro accesso al mare? Il vento salato faceva inarcare e balzare il leone di S. Marco. “Si alza il vento, proviamo a vivere”: cosi’ dice il poeta, Pedrag! Conta su di me -immagino la tua risposta -ma non sarà facile fare l’Europa. Intanto il tramonto ha le sue pretese: vuol riassumere tutto il giorno, anzi, tutto il viaggio (in inglese “journey”). Ha un’alba e un pomeriggio e persino un tramonto del tramonto. Chiede a gran luce il senso, un’illuminazione che si dà sempre a ritroso. Pensare è pesare: nel palazzo Sponza di Ragusa, da un arco di pietra pendeva la bilancia della pesa pubblica. Con un’iscrizione latina: “Fallere nostra vaetant et falli pondera/mecque pondero cum merces ponderat ipse deus” (i nostri pesi impediscono d’ingannare e di essere ingannati/cosi come io peso la merce cosi anche iddio mi pesa”). Ma io non sono un intellettuale con pretese totalitarie; quello di scuola dreyfusarda e sartiana che vede, giudica e manda. Con “gaffes” cospicue: come allora M. Foucault in Iran, cosi’ oggi R. Debray in Serbia. Di organico non apprezzo neppure il cibo. Mi tocca la singolarità degli eventi, la molteplicità delle situazioni e degli incontri, la sensazione di una reversibilità e di una ironia non soggettiva ma nelle cose. La mia curiosità va al loro valore d’allegoria. Che Dubrovnik sia sopravvissuta alla follia rituale che voleva la pulizia etnica e la distruzione delle città, che Zagabria sia già una voce nella polifonia europea, questo almeno non è più necessario sperare per crederlo. Per quanto?

venerdi 2 marzo
Zagabria. Nella mia conferenza esitavo a proporre Italo Calvino poeta, con i suoi giochi linguistici “ulipisti” (l’OULIPO è un gruppo francese di avanguardia letteraria: in italiano OPLEPO: OPificio di LEtteratura POtenziale). Avevo torto: un pubblico di professori e studenti seguiva con curiosità il virtuosismo di due quartine in lipogrammi progressivi, dedicate da Calvino a R. Queneau, il grande scrittore del 900 francese. “Aiuole obliate gialle d’erba, sa /un cupo busio muovervi, allusione”. Nel primo verso, un alessandrino, le 5 parole contengono in ordine decrescente tutte le vocali dell’italiano e così nel secondo, ma in ordine crescente. Provare per credere! E’ vero: i croati sono tra i più grandi studiosi della nostra lingua. Uno storico presente é sconsolato: ” La perizia linguistica si perde in Italia. In un mio libro il traduttore ha reso “mots savants” con “motti sapienti” anziché con “parole dotte”. Arrossisco, académie oblige. Poi incontro, con Grytko Mascioni e la direttrice dell’Istituto di Cultura, gli accademici del dipartimento di Italiano. Sollecitano l’inserzione degli studenti nei programmi europei di scambio e preparano un progetto di ricerca in Traduttologia. Tradurre le lingue, parole e discorsi e trasporre i segni: un programma semiotico. I croati che ho incontrato, passate le ebbrezze dell'”illirismo” e dello “jugoslavismo” si vedono come intercessori tra culture e linguaggi d’Europa. Non potrei sentirmi più vicino a loro pur conoscendo cosi’ male l’idioma ‘balto-slavo’. (Grytzko, ripreso da una ragazza perché non conosce abbastanza la lingua, risponde galantemente con la frase croata “ti amo”). Visito l’antica farmacia che si dice fondata dal figlio di Dante Alighieri (é vero, Dante faceva parte dell’ordine degli speziali!) e mi ritorna l’aroma di Dubrovik. Nella farmacia del convento francescano, sotto lo stemma con le due braccia incrociate (uno nudo e l’altro vestito), tra gli antichi vasi alchemici dove l’acido formico si chiama “spiritus formicarum”, ho comprato per Simonetta, che mi accompagna, un’essenza di rose. Cosi densa da sembrare ferma come un’aureola intorno alla bottiglia. Passeggiando per Zagrab, in vana cerca di modernariato, vedo che la moda, cioè l’estetica applicata del cambiamento sociale, è assolutamente contemporanea. I vestiti dei giovani sono i cloni dei loro coetanei italiani: non li separa neppure quell’abisso di stile che è la sfumatura. Resta un gusto pronunciato per i cappelli, sopratutto femminili – ma mancherò i negozio del cappellaio matto- e i disegni storici delle “cravatte” che sono, etimologia alla mano, invenzione “croata”. Mi sorprendo a pensare che la cravatta fu lo strumento principe della Restaurazione e del Dandismo. Tornati dall’esilio dopo la Rivoluzione e l’Impero, gli aristocratici francesi trovarono nel fazzoletto croato un segno di distinzione nella nuova moda egualitaria. Il dandy si distingueva per la maniera inimitabile di piegare la cravatta. Questo per sommi capi. Ma dovrei rileggere il “Trattato della vita elegante” di Balzac o il saggio del mio vecchio professore lituano, A.J. Greimas su “La Moda nel 1830”. Restaurazione e dandismo di massa: vorrà dire qualcosa? In ogni caso Zagabria è come quelle foto pubblicitarie di nudi in cui si vede la traccia sulla pelle del vestito appena portato, ma che hanno già in mano quello che indosseranno.

giovedi 1 marzo
Zagabria. Giro tra le dita una kuna, la moneta croata che porta sul verso un Pesce e sull’altro una Martora. Il mio viaggio da Dubrovnik a Zagreb si muove nello stesso senso: dal sud al nord, dal mare alle montagna. Lungo la strada dell’aeroporto alla capitale, fino alla nuova biblioteca nazionale, tra i sofisticati manifesti delle nuove tecnologie, alcuni cartelloni rozzamente disegnati: un uomo in piedi dietro le sbarre e una scritta in difesa della libertà di stampa. Per MacLuhan la pubblicità à l’icona del nostro tempo. Arrivo all’ hotel Intercontinenal dove avevo organizzato, con altri due direttori di Istituti italiani di cultura, il premio letterario Città di Assisi 1995, con una presenza intensa d’intelletuali croati delle università e delle accademie. Mancava soltanto l’ambasciatore italiano, ma c’era quello di Francia. Alla vigilia della vittoriosa offensiva croata, la conversazione, in italiano preciso, portava sulla guerra, sui profughi, sul missile che aveva appena colpito il teatro, portando la morte in un corso di danza classica. Oggi, centenario verdiano, in quel teatro c’è “La Traviata”. Nelle vie affollate del centro, sulla piazza Josip Jelacic c’erano allora piccoli monumenti anonimi e transitori: muretti di mattoni portati e sovrapposti a mano a mano. Sui lati ognuno aveva inciso i nomi di persone e di luoghi perduti. “I monumenti: segni ottici del tempo presente”, dice lo storico. Io preferisco questi ad altri “solecismi di bronzo” (Borges). Dove saranno oggi? In un museo? Al loro posto, in piazza P. Peradovic allestiscono un sontuoso negozio Benetton di cui ricordo la pubblicità Toscani contro la guerra: dei vestiti militari macchiati di sangue! L’astrazione non é il nostro forte, ma bisogna pur vendere! Dal simbolo al segno e dal segno allo stimolo in via breve. Un’altra idea del valore. Cosa vado a pensare? Avevo visto, la volta scorsa, la mummia di Zagabria, sorpreso di incontrare qui un greco-egizio del 2°-3° secolo a. c., avvolto in bende scritte in etrusco, con inchiostro rosso e nero. Un “libro di lino” con 1500 parole etrusche, la più lunga iscrizione che si conservi. Nel museo accanto, davanti alla strada del Maresciallo Tito, oggi c’è un’esposizione di gioielli d’ artisti italiani. E nel Mimara, il museo della città, una mostra di cultura iraniana. I croati hanno nella loro origini mitologiche l’idea indeuropea di una tribu’ iranaina perduta nei Balcani; il che va insieme ad una fiera certezza : i Turchi non hanno mai messo piede nella loro capitale (anche se la cattedrale è stata distrutta dai mongoli). L’identità croata allora? A Dubrovnik un piccolo test: quasi nessuno si dice slavo. Che sia per assonanza con la parola “schiavo”? Ma “slava” signfica “gloria”! Nelle rassegne di vecchi film i giovani fischiavano i protagonisti che si chiamavano Jugoslav e il grande cinema della città, il Balkan, dal giorno dell’indipendenza si chiama Europa.

mercoledi 28 febbraio
Dubrovnik. La frontiera non è confine fisso. E’ una linea mobile che attraversa lo spazio e ne cambia il senso: il significato e la direzione. Ragusa nella sua storia è stata attraversata da molte frontiere e fatto parte di molti luoghi : bizantini, veneziani, imperiali, turchi, ungheresi, francesi, austriaci, serbi… Nello stesso spazio hanno vissuto molte città. Oppure: la città è frattale nel tempo come la costa dalmata è nello spazio: più di mille e cinquecento isole! Come calcolerà il geografo la lunghezza esatta d’una costa cosi’ frastagliata? Anche fuori stagione, incontro sullo Stradon, che scorre diritto come un canale di pietra, un gruppo di francesi pronti come me al giro delle mura. Osservo sollevato i risvolti dei loro cappotti. Niente cuori rossi, non sono quei pellegrini che, da ogni parte del mondo, attraversano Dubrovnik per recarsi a visitare un luogo di miracolose apparizioni della Vergine, vicino a Mostar. Dalle mura scorgo i tetti riparati di fresco con coppi rossi e riconosco i segni dei bombardamenti. Le cicatrici sono segni strani: non rinviano alle ferite – come un segnale sta “in luogo” di una cosa – stanno nello stesso posto. Mi dico che ricucire la memoria non sarà facile: ci sono tecniche per migliorare la memoria ma non tecniche per l’oblio. Non si puo’ fare un nodo al fazzoletto per dimenticare! Ma gli universitari di Dubrovnik mi sorprendono e non solo per la conoscenza, mal ricambiata, dell’Italia. A pranzo, nel vecchio circolo della Marineria, tra agavi e aranci, ho suggerito un incontro con l’erede del trono del Montenegro; Nicola Petrovic un architetto che visto a Parigi, dove vive, in una cena con Jacques Derrida. Sarebbero d’accordo i “ragusei” per un accordo tra il loro famoso Festival e la Biennale di Architettura di Cettigne, in collaborazione con quella di Venezia? Certo! Il principe montenegrino li ha aiutati a recuperare almeno la metà del bottino dei saccheggi! Buon sangue mercantile e cervello diplomatico non mente. Insomma: mi sento alla frontiera o alla cicatrice temporale, tra mondi e tempi. Ci sono i tesori delle chiese ricchi d’ori e d’arredi, – che io chiamo “semiofori”, i vecchi magazzini di stato- colmi d’oggetti virtuali e vuoti di clienti – e i nuovi supermercati con gli stessi beni e gli stessi prezzi europei. I croati emigrati tornano per comprare alberghi e ristoranti, con un altro stile, più rapido e rapace. Adorno diceva che non c’è miglior periodo musicale di quello in cui nuove sono le idee e comprovato il “tact”, il tocco tradizionale. Che sia vero anche qui ed ora? Per questo sono cosi’ a mio agio e mi pare che tutto abbia gioco e mi faccia gioco? Riparto domani: a cosa e a chi ritornero’? Nel tramonto d’acque e di nuvole mi torna alla mente l’amico Franco Berardi, Bifo; un appassionato di Hvar: “Uno dei bei posti del mondo: quanto metteremo a distruggerlo?”. Penso a Rimini oltre l’Adriatico. “Molto” rispondo a voce alta , non per conoscenza del futuro, ma per premonizione. La speranza è una passione del tempo.

martedi 27 febbraio
L’Adriatico è teso dalla bora. Immagino le buganvillee che presto fioriranno attorno ai pini, come le rose sui cipressi del marocco. All’aeroporto, vicino alla Ragusa vecchia , c’è lo scrittore Gryztko Mascioni, addetto culturale dell’ambasciata italina, l’amico che mi ha invitato e risiede a Dubrovnik. Era lui che aveva organizzato il viaggio di solidarietà del Pen Club, lui che ha descritto la guerra nel suo romanzo “Puck”, lui che he traduce in italiano (in quartine ed ottonari) il poema nazionale croato di Ivan Gondulic, “Osman”. Mi mostra all’ingresso di Dubrovnik, la statua del paladino Orlando, terrore dei saraceni, prediletto dai pupari siciliani e da Italo Calvino. Gli ricordo che nel “Castello dei destini incrociati “- scritto con le carte da gioco – Orlando, recuperato il senno si trova a testa in giu’ come l’Appeso tarocchi: saggio e impotente. Come l’Europa durante le guerre jugoslave, replica Grytzko e mi ricorda il proposito calviniano della mia conferenza. Per Calvino in ogni autore c’è l’Eremita e il Cavaliere di spade. L’avventura e il raccoglimento, la giovinezza e la maturità, la scienza pura e la tecnologia applicata. Alla condizione pero’ che si scambino le loro proprietà: che ci sia avventura nella scienza e rigore nell’avventura. Galileo e Ariosto insomma.
Grytzko è un eremita che la guerra ha trasformato in cavaliere: ha scritto un centinaio di articoli ha fatto tradurre decine di libri. Come vecchi amici ci rivediamo come se ci fossimo appena lasciati e parliamo di ogni cosa. Della nostalgia d’Occidente, del desiderio d ‘Europa in questo versante dell’Adriatico. In uno spazio pubblico vedo gli annuncia mortuari: più discreti dei nostri, inquadrati di nero . E Alcuni di verde: riconosco la mezzaluna dell’Islam e i nomi “turchi”. Non si ne parla molto di “loro” nella città di Orlando e Biagio . Neppure qui, in terra di frontiera, si discute dei limiti dell’Europa. Eppure la Turchia batte alle porte e persino un storico come le Goff si è appena pronunciato: la Turchia che pure per secoli è stata vicina a queste terre non è Europa! Intanto la piccola comunità ebraica si batte per conservare suo il vecchio cimitero (con antiche tembe a piramide): nella generale deregulation liberista un soprassalto dirigista nella gestione dei morti. Il governo di centro sinistra ha attribuito ai sindaci il controllo di cimiteri comunali.

lunedi 26 febbraio
Caduto il muro di Berlino, nell’Europa dell’Est si viaggia in stato di allegoria. Ogni dettaglio è un segno, esemplare di quel che non è stato e di quel che potrà essere. Partendo per Dubrovik e Zagreb , in un viaggio organizzato dal centro internazionale della Università Croate, la memoria delle guerre è viva, come la carne è viva. Ricordo il mio viaggio del 1993, sulla nave del Pen Club, partita da Venezia perDubrovnik. Erano appena terminati i bombardamenti e le strane forma a conchiglia dei proiettili da mortaio segnavano le pietre polite dello Stradon. Intellettuali di ogni parte d’Europa, avevamo percorso le campagne saccheggiate appena fuori dalle mura rinascimentali. Vicino nello spazio, – sono nato sull’Adriatico – non mi sentivo contemporaneo di quella guerra antica dove popoli, lingue e religioni (croati, serbi, montenegrini, ortodossi, musulmani, cattolici) si intrecciavano come i fili d’un tappeto rovesciato. Ero sovrappensiero – come si dice sovrappeso: cosi’ concentrato sulle vivide immagini di devastazione da essere distratto. La città mi aveva nascosto il paese e al mio ritorno a Parigi all’Istituto Italinao di Cultura era entrata a far parte del repertorio delle mie città invisibili. Questa volta è un viaggio accademico: preparo una conferenza a Zagabria sull’ iconografia fantastica I. Calvino -sul suo progetto di scrivere una autobiografia per immagini – e il progetto d’un consorzio di università italiane per allestire a Dubrovik un master d’insegnamento in lingua italiana e croata. Dalla mia finestra posso guardare verso Ragusa – che guarda il sole si levarsi dall’altra parte- come al modello in esatta riduzione che sta nelle mani nelle immagini del suo protettore S. Vlaco (S. Biagio). La repubblica marinara era legata alla signoria riminese: sull’elenco del telefono si trovano ancora dei Malatestinic. Dal 1808, Napoleone l’ha integrata insieme alla rivale Venezia, all’ Europa, la sua. Ora è croata, alla frontiera lungo la costa del Montenegro lungo la costa; a portata di cannone una striscia sottile di territorio la separa dalla Serbia. Ricordo al risposta di un comandante di artiglieria ad un giornalista che chiedeva: “Distruggerete Dubrovik”? “La ricostruiremo più bella di prima”.

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