La svolta semiotica


Sebastiano Maffettone, Il Sole 24 Ore, 7 Febbraio 1999.


Paolo Fabbri, La svolta semiotica, Lezioni Italiane Fondazione Sigma-Tau, Laterza, Roma-Bari, 1998, pagg. 138, L. 18.000

“La nostra vecchia cultura umanistica è un insieme di saperi fondato sulle arti liberali – grammatica, retorica, filosofia eccetera – un insieme di saperi in cui il linguaggio verbale mantiene una posizione di assoluto privilegio… L’ermeneutica, oggi, non è altro che il proseguo di questa tradizione umanistica che pone la verbalità al centro della socialità (e che io considero perfettamente polverosa, assolutamente sorpassata dalla condizione epistemologica contemporanea)”. Con queste parole per niente ambigue, Paolo Fabbri presenta – sin dalle prime pagine del suo libro, pubblicato da Laterza – il senso generale del suo progetto teorico ne La svolta semiotica. In questa prospettiva, la svolta semiotica è un modo diverso, diverso da tutto quello che potrebbero proporre gli altri saperi, di organizzare e comprendere l’universo della comunicazione. Se la filosofia del Novecento si può caratterizzare, adoperando la nota espressione che sta nel titolo di una raccolta di saggi curata da Rorty, all’insegna di una “svolta linguistica”, ora suggerisce Fabbri – tempo è venuto per cambiare registro. La svolta linguistica è, infatti, nella sua prospettiva insieme datata e parziale. Essa privilegia la rappresentazionalità degli enunciati linguistici, e più ancora tende a confinare il significato del significato nell’ambito stretto della verbalità e dei suoi affini. Mentre invece – auspica Fabbri la semiotica rappresenta una svolta proprio perché ci consente di andare oltre questi limiti, per ripresentarsi come un nuovo organon della cultura contemporanea, capace di restituirci il senso pieno della narratività e della corporeità.
Al tempo stesso, però, la svolta semiotica è anche una svolta nella semiotica, e cioè un modo originale di guardare agli studi semiotici, di cui, come è noto, Paolo Fabbri è da anni affermato protagonista internazionale. Da questo punto di vista, più interno alla disciplina, Fabbri propone come sfondo una divisione in due della tradizione semiotica del Novecento. La svolta rappresenta qui il superamento di questa divisione data, superamento che non va inteso alla guisa di una “rottura”, ma piuttosto una “piega” nell’attuale discorso semiotico. Le tradizioni, da cui parte Fabbri, sono da un lato quella neo-umanistica, che fa per lui capo a Barthes e De Saussure, e dall’altro quella più attenta alla costruzione di una disciplina scientifica, che fa capo a Peirce ed Eco. Entrambe, comunque, non riescono a superare – come invece vorrebbe Fabbri – il Primato della testualità, che diviene, tendenzialmente critica dell’ideologia nel primo caso e storia strutturale del segno nel secondo.
Contro, o meglio oltre questa duplice tradizione, opera la svolta semiotica. Gìà, ma in che direzione? Umberto Eco, uno degli autori più criticamente discussi da Fabbri, ha proposto un modo interessante per rispondere a questa domanda (venerdì, nel corso di una seguitissima presentazione romana del libro alla quale sono intervenuti Alberto Abbruzzese, Mario Morcellini, Jorge Lozano, Gianfranco Marrone e Isabella Pezzini). Secondo Eco, bisogna interpretare la svolta di Fabbri alla luce di una riproposizione della narratività, come orizzonte globale della semiotica, della rivalutazione delle passioni, sulla scorta di Greimas autore con cui Fabbri ha lungamente collaborato, e infine sul recupero della corporeità, e qui la scia potrebbe essere quella di Merleau-Ponty, un filosofo particolarmente caro a Fabbri.

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