All’impronta: per una semiotica dell’estemporaneo


Da: AA.VV., Parole nell’aria. Sincretismi tra musica e altri linguaggi, a cura di M. P. Pozzato, L. Spaziante, ETS, Pisa, 2009.


Jazz: l’improvviso e la sprovvista

1.
La musica, appena cominciata o già finita, riceve subito un epiteto: i suoi critici infatti sono ineffabilisti o aggettivali, per fascinazione o debolezza teorica. Oppure, poiché la musica è sprovvista del piano semantico – a differenza dell’altro linguaggio sonoro, quello naturale – se ne parla solo per metafora poetica o allegoria sociale. Credo invece che, come la poesia, la musica dice quel che ha da dire e lo dice dicendolo. A tutti quelli che vogliono ascoltare e senza tacere niente. Ed è proprio qui che sta il suo contenuto e il suo senso.
È il caso del jazz, che merita più degli aggettivi qualificativi e degli epiteti spregiativi (come l’allergia di Adorno); più delle scorciatoie sociologiche (lo stile dissonante di Monk come simbolo della condizione americana del suo tempo!?) e antropologiche (le correlazioni razziali: come «il jazz invenzione bianca neutralizzata dai critici bianchi nel tentativo di descriverla come musica nera»?!).
Il suono e la parola del jazz, marginale e diffusissima, ha caratterizzato il secolo breve appena trascorso e continua ad offrire ancora o proprio ora degli insight estetici e politici alla seconda modernità, quella che qualche ottimista chiama riflessiva. Penso, come Hosbawm, che il jazz non abbia lasciato il tempo che ha trovato e non lo lascerà senza aver trovato un nuovo tempo.

2.
Per chi non ha cera massmediatica nelle orecchie, ci sono molti modi di ascolto. Uno è quello di Ulisse, melomane legato all’albero per non cedere alle tentazioni. Il semiologo invece – almeno io – ha con il jazz una prossimità critica, un orecchio relativo, attento a trasformare l’indizio in segno, i suoni in racconti, gli accordi in conversazioni. Nei giochi di questo linguaggio non ascolta però con studium, con una estesa e continuata applicazione ai prodotti finali. Orecchia più volentieri con punctum, il processo sonoro nel suo farsi, il diventare musica, il prendere forma e senso in un’attività collettiva in tempo reale. Gli intrecci della sezione ritmica nei primi trio di Bill Evans, l’uso della dissonanza e del sincopato in Monk, gli scoppi emozionanti di John Coltrane e di Cecil Taylor esemplificano per me il divenire sonoro come “battito continuo di trasformazioni”.
Mi piace, dalla viva voce, sentire la molteplicità, la serie open-ended delle differenze – invano discordi, invano concordi – e l’emergere di configurazioni impreviste prima quanto necessarie poi. Come nella biologia contemporanea e nei dialoghi quotidiani, mi incanta l’evento performativo dell’auto-organizzazione; il tempo reale in cui delle pratiche – gesti, suoni, voci strumenti, fanno sì che la musica sopravvenga.
Non si tratta di comunione mistica, quella in cui tutto è possibile e quindi niente conta. Come il jazz inventa le sue regole, i suoi dispositivi di emergenza, anche la semiotica ha i suoi spartiti – le teorie risparmiano lavoro! Ma il modello comunicativo ha limiti propri nel pensare il senso nel suo farsi ed è a corto di concetti davanti alle performance collettive suscettibili di realizzazioni multiple e ai sistemi complessi e intricati che generano stili collettivi di vita.
Per questo il jazz che preferisco, l’attrattore dei miei interessi teorici, è quello in cui l’improvvisazione è dominante.
Il free jazz, quindi, the thing. Ornette Coleman, quando rinuncia alla progressione degli accordi nei freebop quartet registrati con Don Cherry per Atlantic; quando nell’album Free Jazz, mette da parte ogni armonia e melodia e in un doppio quartetto – con Eric Dolphy e Freddie Hubbard – lascia che diversi improvvisatori suonino insieme, senza paura di cacofonia (idea cara al vecchio jazz, dimenticata all’epoca dello swing e delle orchestre dixieland). L’ultimo John Coltrane – in album come Ascension o Interstellar Space – e Archie Shepp and Albert Ayler, quando sperimentano coi timbri e traggono nuovi suoni dai loro strumenti o usando strumenti da cui non erano abituati. O Cecil Taylor che suona il piano come uno strumento di percussione creando strutture proprie.
In tutti questi casi, o in altri ancora di analoghi, l’assenza di uno schema comune di riferimento crea la necessità d’una particolare comunicazione interna al gruppo.
Non solo jazz. Si tratta di un paradigma per tutte le forme di improvvisazione collettiva, senza (o quasi) la rete di protezione di spartiti e copioni, dalla Commedia dell’Arte a una conversazione informale. Il game delle regole fisse non sovrasta l’esecuzione, diventa se mai una componente nel play. Una coordinazione miope che non procede alla cieca, ma che va creando le proprie forme di prevedibilità. Non si tratta di fantasia sbrigliata e di creatività. Il collettivo collabora escogitando quello che è confacente, prende il ruolo dell’altro per anticipare la sua interpretazione e interpenetrazione. Restando aperta all’informazione e all’energia esterne al sistema (con)sonante: cioè alla presenza del pubblico che non è un astante, ascoltatore modello, ma il membro variabile di questa molteplicità che somiglia più ad un sciame sonoro, uno stormo, una muta. Fino al momento in cui l’improvvisazione inattesa si presenta necessaria e felice, emerge come la memoria di un preesistente anticipato insieme, come la regola che aveva l’aria di fuggire. Nulla allora è corretto o scorretto, solo conta quel che è riuscito e non riuscito. Il paradosso dell’ordine contradditorio “siate liberi” si risolve suonando insieme in stato di emergenza.
Queste sono, inoltre, le precondizioni dell’innovazione strumentale e sonora: per prendere degli esempi vistosi del rock negli anni Sessanta, il modo in cui i Pink Floyd cambiano il modo di tenere la chitarra, Jimmy Hendrix che ne trae suoni coi denti o i Who che distruggono gli strumenti sul palco.

3.
Come ogni improvvisazione collettiva, anche quella del jazz si serve di stratagemmi che si trovano descritti in una vasta gamma di manuali, più interessanti a volte delle storie ufficiali, sotto forma di tipologie, ricette ed esempi. Ricordo gli sviluppi melodici, i playing changes degli anni 50, le celebri enclosures di Clifford Brown, Sonny Rollins, Cannonball Adderly, Red Garland, Hank Jones, Herb Ellis, Joe Pass, Paul Chambers e Ray Brown. Il cromatismo, consonante anche se fuori scala, di Woody Shaw, Steve Coleman e di Eric Dolphy (quando suonava con Charles Mingus o nei suoi album Live At The Five Spot and Last Date). Le improvvisazioni modali, come i sideslipping di Miles Davis in So What, nell’album Kind Of Blue, quelle non tonali, sprovviste di un’unica chiave – sempre Miles Davis negli album E.S.P., Nefertiti, Miles Smiles e Sorcerer.
Conta certamente l’inclusione in un genere, che comprende molti tratti storicizzati del discorso musicale e persino il tipo di coinvolgimento del pubblico e la sua valutazione culturale – più rituale più apprezzato o viceversa. Conta il tipo di cambiamento che un genere prevede e la resistenza al cambiamento del genere stesso – la sua naturalizzazione.
Tutto quello che riconosciamo, a suoni fatti e, dal confronto delle registrazioni, si lascia leggere come un insieme di digressioni, di varianti isolate e di varietà legate. Prende però un tono davvero diverso se pensato in variazione, nella prassi del suo divenire collettivo, senza far appello a repertori prestabiliti, spartiti, canovacci, copioni o libretti. E pone quindi il problema del divenire di un ordine, attraverso l’interazione di attori miopi, sprovvisti di una bacchetta anticipatrice, e dotata di una visione d’insieme, che lo generano e lo sostengono. Emerge un possibile – anche le dissonanze sono collaborative – che sembrava improbabile. E talvolta, come commentano i musicisti stessi del jazz: “Yeah, he’s really saying something”!

4.
Per orientare il semiologo, decisivo è il riferimento alla rinnovata riflessione estetica che va da Nelson Goodman a Gérard Genette circa il ruolo generale della performance nei regimi di immanenza dell’opera artistica. «[…] Il jazz mostra chiaramente questa stretta cooperazione tra ciò che viene improvvisato e quel che è composto: non solo nella parte degli arrangiamenti concertati, memorizzati e financo scritti, soprattutto per i passaggi d’insieme, ma per come ogni chorus improvvisato si conforma e si ispira ad una trama fornita dalla progressione degli accordi del tema» (Genette, 1994, trad. mia). L’improvvisazione quindi è presa in considerazione dal teorico – e percepita dal pubblico – come uno stato complesso, un sincretismo tra opera allografica e autografica, cioè come testo «suscettibile di notazione a posteriori e di moltiplicazione definita allografica e di un’azione fisica (autografica) le cui caratteristiche materiali non possono essere integralmente annotate, ma possono essere imitate e persino contraffatte» (Genette, 1994, trad. mia).
Fin qui il contributo “ontologico” di una fenomenologia dell’opera d’arte. Ma per avanzare nella riflessione sulle pratiche performative e la loro articolazione interna, vale la pena di ripartire non dalla teoria, ma dalle affermazioni più abituali nei manuali correnti d’improvvisazione jazz. Il carattere narrativo e colloquiale dell’improvvisazione.
Per questi prontuari infatti, il solo racconterebbe (i) una storia dall’andamento narrativo canonico con cui dall’esordio, attraverso il climax, si giungerebbe alla conclusione, segnalando così alla sezione ritmica (basso, percussione e piano) il momento di ripresa e il passaggio di turno. Questa interpenetrazione, in situ e in corso, costituisce e delimita delle sequenze e segnala delle riprese e dei cicli e viene presentata, come (ii) una “conversazione” tra tutti gli elementi del complesso.

4.1.
L’analisi narratologia, a partire da testi letterari e visivi, ha mostrato – ad nauseam – che il racconto è una figurazione del tempo. Narrare dunque è dare e prender tempo. Tempo aristotelico che scandisce le azioni e tempo agostiniano che esprime il punto di vista di chi le narra. Configurazione e rifigurazione delle durate mal fatte del vivere, la narrazione ci propone nuovi ritmi, altri modi di sentire, in tutti i sensi di questo termine. Senza racconto, la vita resterebbe un errore.
L’improvvisazione jazzistica espone però il modello letterario a molte complicazioni intertemporali. Il tempo narrante del collettivo è lontano dall’equilibrio e soggiace a forti emergenze temporali. È una sequenza imminente e immanente di presenti – meglio di compresenti – in cui il futuro si traduce istantaneamente nel passato. Va colto quindi e spartito con tempestività, a rischio costante di estemporaneità, di consonanze o di dissonanze mancate. Di qui l’urgenza delle prese di tempo: pause, rallentamento, perifrasi, citazioni e, più comunemente, ripetizioni, riprese, e replica di motivi, episodi stereotipi, lazzi e gag. Le forme di ripetizione più correnti sono repliche all’identico o riprese parziali della frase con cambiamenti di accordi, di misura, di ritmo, e così via.
Eppure, il manuale più corrente d’improvvisazione ci mette sull’avviso: la ripetizione nella improvvisazione jazz non è il concetto sistemico della ridondanza, ma quello di chiamata e risposta. Il contesto in cui s’inserisce il “racconto” del solo è la “conversazione” del collettivo sonoro, fatto di umani – suonatori, pubblico e non umani – gli strumenti in relazione di reciprocità. Groove non è solo il nome proprio d’uno stile o un ritmo, ma un verbo che segna questo processo di interazione collettivo e simbolizza un ideale estetico comune.

4.2.
Il termine conversazione, non deve dar adito a equivoci. Non è questione di ridurre la musica al linguaggio anche se si tratta di più di una metafora. Anche lo scambio verbale non ritualizzato, infatti, segue il ritmo d’uno sviluppo naturale dalle cui dissonanze e sovrapposizioni, silenzi e unisoni emerge un ordine. La concatenazione delle mosse di una conversazione in tempo reale porta all’esistenza una cadenza inedita, anche tra interlocutori che si conoscono da tempo. Negli interscambi, il modello a chiamata e risposta assicura una coerenza sonora e una coesione di massima delle sequenze. Nel corso di un solo ad esempio, ci sono richiami e citazioni del solo precedente, insieme ad annunci di conclusione e offerte di presa di ruolo, di quelle che tocca agli altri cogliere al volo. Ma è anche possibile respingere un accenno di richiesta per riattribuirsi il turno e proseguire. Non troppo però, c’è una etichetta e forse un’etica nelle jam session!
La conversazione strumentale dal vivo, come la commedia dell’arte, è fortemente meta-comunicativa: segnala continuamente il proprio andamento agli interlocutori, alla band e al pubblico. E riflessiva: integra cioè le risposte e procede ad assestamenti e a correzioni. La band, anche la più smaliziata, corre continuamente ai ripari, come accade nel dialogo quotidiano. Le esitazioni, le stonature possibili o realizzate vengono anticipate e riparate con un bricolage praticato hic et nunc. Agli interpreti e ai loro accordi è dato ben poco tempo per interpretare ed accordarsi. Per questo è cruciale tutto un apparato non sonoro di segni d’intesa, realizzati dai corpi e dalle posture, ma anche da cenni e movimenti e da un uso degli strumenti che influisce sulla loro resa sonora. Il ritmo di questa vigilanza, fatta di incoraggiamenti e di arrangiamenti, la trasforma in creazione.
L’improvvisazione sembra che cominci sempre dal mezzo, ma ci sono momenti di maggiori rilevanza esecutiva, come l’incipit, l’attacco e soprattutto la chiusura, l’excipit. I teorici della conversazione linguistica hanno sottolineato il ruolo delle “paia adiacenti” necessarie per aprire e chiudere qualunque interazione colloquiale. Ma, come il verso poetico, la performance musicale – il solo, ma anche l’intera composizione – diventa più ardua verso la fine, quando se ne cerca la chiusa. C’è uno stile singolare e collettivo nella sincope del tagliar corto, nel ritardando o nel diminuendo che segnalano l’avvio del processo conclusivo. Restano memorabili gli arresti di Duke Ellington associati agli arrangiamenti di Take a train, scritti da Duke e eseguiti dalla sua band.
L’abitudine di suonare insieme permette alle soluzioni più felici di stabilizzarsi e ripetersi “a occhi chiusi”; il formarsi di una maestria delle formule che garantisce la riconoscibilità e l’identità di uno stile. Ma anche il virtuosismo della (meta)comunicazione tra i suonatori e il pubblico. L’improvvisazione in comune è per sua natura didattica: la condizione per potersi svolgere è imparare a sostenersi e a mostrarlo. L’audience non condivide soltanto un’atmosfera, è un personaggio del paesaggio sonoro e deve imparare l’ascolto. E soprattutto le emozioni che lo devono accompagnare.
(Fanno sorridere i tentativi della psicologia cognitiva per costruire algoritmi destinati a generare sequenze corrette di jazz o automi che producono accordi in tempo reale).

5.
La forma di vita che il jazz ci propone ha uno straordinario rilievo per la teoria culturale nei suoi aspetti artistici, estetici e politici. Per l’influenza esercitata sulla musica colta, la danza e il cinema, ma anche sulla letteratura. Da Boris Vian a Georges Perec, da Julius Cortazar – un fan di Charlie Parker, fino a Toni Morrison che esegue un jazz letterario passando per Ellison, Ondaatje e Reed. E anche per il ruolo che ha avuto nella ridefinizione speculativa dell’arte nella filosofia americana di Nelson Goodman e in quella continentale di Gilles Deleuze, ben diverse da una ermeneutica debole o da una mera teoria della ricezione. Deleuze in particolare ha indicato nella musica una dimensione politica che non si limita allo sviluppo di significati culturali nell’interpretazione del jazz. Una jam session ha una doppia politica: introdurre del senso nella natura muta di un suono senza significato, e correlativamente di far comunità, cioè costruire un collettivo di suonatori e pubblico, di strumenti e voci. Sono entrambe politiche di ricerca, sperimentazione ed invenzione di un linguaggio con la sua comunità di suono e d’ascolto.
Anche il sociale, che nelle scienze umane viene connesso dall’esterno al fenomeno del jazz, è tutt’altro che stabile. Viene plasmato da molti modi del senso e del suono, dal modo con cui «si fa musica assieme», come diceva, con esplicita referenza jazzistica, il sociologo husserliano Alfred Schutz. L’esistenza del collettivo non consiste nell’eseguire i codici prescritti nella memoria sociale, rispettandone a puntino l’identità di compitazione (come vorrebbe una sociologia durkheimiana) ma anche, e soprattutto, nel praticare insieme, in sintonia e mano a mano, l’emergenza rischiosa di nuove forme del vivere.
L’improvvisazione nel jazz è un buon modello in fieri di questa comunità da fare. Ne canta e ne suona l’immediata utopia.


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