Almanacchi felliniani


Da: Alfabeta2, gennaio 2015.


 

Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?
(G. Leopardi)

“Mi fa spavento il cinema” scriveva Zanzotto in una poesia, tra le più belle che ha dedicato a Fellini. Finiva però per riconoscere che il cinema “era lui la poesia, un’altra”. Per mantenere un po’ del timore che incute il parlare di cinema ed evitare ripensamenti poetici, vanno lette le oltre 50 pagine dell’Omaggio a Federico Fellini in Micromega 9/2014. Questo “Almanacco del Cinema”, oltre alla sezione felliniana, chiamata iceberg4, conta un centinaio di pagine di interviste ad autori di varia qualità e tavole rotonde.
Sappiamo dall’ultimo libro di Eco che: “L’intervista con l’autore è pacificante, perché nessun autore parla male del suo libro, quindi il nostro lettore non viene esposto a stroncature astiose e troppo superciliose. Poi dipende dalle domande”. Infatti in tempi di crisi critica, l’intervista, sequenza cumulativa di forme brevi, dilaga. La vecchia critica mordeva talvolta prima di mettere i denti, ma non era cieca dalla nascita; lo è diventata però senza molta fatica. Gli intervistatori, soprattutto nell’arte contemporanea, hanno orrore di quei puristi che si tolgono le parole di bocca e le depongono sui bilancini, quelli che si fermano davanti ai superlativi e fanno una pausa. Meglio mettersi i paraorecchi e non dir nulla di un autore, se non con “parole sue”. Cioè quelle che lui pensa gli facciano gioco in quel momento.

1.

Il Fellini micromegalico espone il titolo: “Il cinema e le donne”. È articolato, per così dire, in un’intervista con Jean A. Gili, registrata nel 1984, quando Fellini non aveva ancora girato Ginger e Fred, Intervista e La voce della luna. Nel distributore automatico delle interviste felliniane non è davvero la più significativa, se confrontata con quelle di Grazzini, Kezic, Costantini, Rita Cirio, Bondanella, J. L. de Villalonga, ecc., o quella che Fellini concesse a se stesso, Fare un Film. Segue un’intervista di Paolo Sorrentino con Gianni Canova, un saggetto di quest’ultimo: “Fellini politico” e un esteso gossip di Gianfranco Angelucci, “Fellini Proibito”, condito da 16 disegni felliniani, già pubblicati in carta, in e-book, in rete, ecc., riconoscibili per la deformazione onirica, grottesca e felicemente sguaiata, ma non certo “comparabili a Kokoschka” (sic).
L’ultimo contributo che (mal)tratta il tema delle donne di Fellini, non ha nulla a che vedere con la meravigliosa folla di figure femminili sognate nel suo cinema; cantate da Zanzotto ed alcune delle quali, come la Brunelda – Saraghina di Intervista, provengono da America di Kafka. Il saggio, se così si può dire, elenca con nomi e talvolta cognomi, alcuni imbarazzanti affari di letto di Fellini, con dettagli appropriati a giornali per soli uomini. Anche l’antica critica stilava la lista delle amanti del Foscolo. Il brogliaccio di Angelucci si segnala però per uno stile, inabituale in Micromega, fitto d’impagabili stilemi di purissimo trash: “fata del desiderio”, “maliarda fatalità”, “avvenente sammarinese”, procace australiana”, “vikinga fragrante di Romagna”, “focosa amante”, “semidea inarrivabile” che “irradia luce magnetica” (Anita Ekberg), “segretaria di erezione”, “laureata alla sorconne”, “Tersicore vellutata di ironia”, “francese dalle torbide simulazioni”, sempre con “seni traboccanti mesmerici”, “forme poderose”, “sfidanti prominenze da virago”, “curvilinei morbidi allettamenti”, “chiappone gloriose”. Ogni “conquista” è sempre “alta e ben piazzata, atletica e in perfetta forma”, e solo talvolta “flessuosa, amorevole”. Un contributo al manualetto idiomatico dell’infimo ciarpame linguistico, ancora da scrivere poiché l’autore di questo trash, intendeva “evitare vanterie di cattivo gusto”. Solo accennata infatti è la “estroversione delle ninfe latine” “dotate di richiami ancestrali”, poiché vogliono figli e via scadendo. Angelucci è stato aiuto regista di quel Fellini e forse si vendica presentandolo come un libertino del nulla, ma on n’est jamais un genie pour sa femme de chambre. Il lettore pruriginoso – che ignora i salaci scambi epistolari tra l’autore di Otto e mezzo e Simenon – potrà conoscere, dal buco della serratura, le cilindrate automobilistiche delle amanti del regista riminese e altri ghiotti dettagli: “non sapeva baciare. Lo faceva a labbra strette, come avrebbe fatto Andreotti”. Avrà inoltre diritto a osservazioni più politiche sull’ostilità a Berlusconi e alle frequentazioni craxiane di Sandra Milo.

2.

Fortunatamente quest’ultimo tema viene affrontato da Gianni Canova, dopo un’intervista con Paolo Sorrentino – premio della (sciaguratamente soppressa) Fondazione Fellini nel 2011 e poi Oscar nel 2013. Conversazione interessante per la resistenza che Sorrentino oppone alle domande. “Il vero scandalo di Fellini è il Nichilismo?” E il regista: “Lì dove c’è l’ironia, Fellini riesce anche a costruire il senso”. L’intervistatore: “Torniamo al nichilismo, Gep alla fine si salva (nella Grande Bellezza), (nella Dolce Vita) Marcello no…”. E Sorrentino: “È sicuro che Marcello non si salvi?”. Più attinente alla problematica dell’intervista: alla domanda sull’evidente influenza di Fellini sulla Grande bellezza, il regista risponde “Io non volevo citare Fellini”. Ed aggiunge alcune, non richieste, ma lucide osservazioni sul feticismo realistico e l’invenzione del reale: “Fellini arrivava a intuire la verità inventando tutto”. Giusto: oggettivo e soggettivo diventano indiscernibili, la realtà passa nell’immaginario, l’immaginario nello spettacolo.

3.

Il tema assegnato a Canova era il discutibile proposito che “Fellini faceva politica (…) che è proprio quello che si chiede all’arte”. Il professore lo affronta con gli strumenti della critica epitetica. “La carica dinamitarda”, “il sorriso sarcastico, “il sangue romagnolo”. “Fellini tuona e ringhia”, “si scaglia contro gli effetti devastanti”, “si scaglia contro il confuso tentativo” “la mattanza culturale”, laddove “il candore non abita più lì”. In conclusione “Fellini è un Ufo: solca i cieli del cinema come un oggetto volante non identificato, come un masso erratico” (un’immagine magrittiana!). Va apprezzato l’impegno con cui Canova accumula un entusiasmo che riserva forse per occasioni migliori. Ci sembra però eccessivo il dispendio retorico per mantenersi alla superfice del problema, se finisce per assicurarci che Fellini “si libera dei lacci del conformismo, molla gli ormeggi, e vola alto nei cieli della immaginazione e della libertà”. Nel mondo intero Fellini è conosciuto proprio con questa definizione, che corrisponde al riduttivo santino a cui, per Canova, sarebbe sfuggito. Quanto alla politica, il cinema veggente di Fellini non è d’azione. Anche la sua opposizione alla cultura beghina della Democrazia Cristiana ne Le Tentazioni del dott. Antonio è reinventata e sognata. L’episodio era ispirato al famoso “caso del prendisole” in cui il bigottissimo Oscar Luigi Scalfaro – ministro DC della Pubblica Istruzione nel 1972, poi presidente della Repubblica – schiaffeggiò (pare) una signora scollata in un caldo caffè estivo. Ricordi di rifiuto, com’è il caso dell’adolescenza littoria che servono a Fellini per liberarsi, e a liberarci dal provincialismo fascista col suo contenuto “fanatico, provinciale, infantile, goffo, sgangherato e umiliante” (FF). Anche Prova d’orchestra, allegoria sospesa, è leggibile, più che sul piano politico, come un’allegoria musicale al mestiere di regista. (Ricordate i propositi del suonatore di oboe sull’audizione colorata che Fellini si attribuiva?!) L’impegno pubblico, ripete Canova, non era davvero una sua caratteristica, ma non è sempre mancato: come la petizione che Fellini firmò nel ’61 – con Antonioni, Strehler, Vittorini, Moravia, Sanguineti e Olivetti – per la liberazione del pittore Jean-Jacques Lebel e il dissequestro del Grand tableau antifasciste, firmato anche da Bai, Crippa, Dova, Errò e Recalcati, accusati di pornografia e anarchismo. Certo “Fellini era contro”, ma meglio sarà, in futuro, approfondire il peso politico del suo cinema giovandosi di riferimenti meno paesani del citato libro di Andrea Minuz. Oltre all’episodio antiberlusconiano, ripetuto anche nel brogliaccio di Angelucci, andava ricordato non solo per l'”antagonismo ontologico” alla televisione e alla sua incultura, ma anche per non averne compreso il ruolo. (Non era il solo!) D’altra parte anche l’ambiente del cinema di Toby Dummit con la sua satira del mondo cattolico e le citazioni di Roland Barthes, era, come la televisione di Ginger e Fred, “un circo funebre, un music hall psichedelico” (FF). Infine, andrebbe ripensato il fascino ambivalente, seduttore e diabolico, per lo schermo-manifesto pubblicitario, da Boccaccio ’70 alla Voce della luna. Come risponde, in un’intervista televisiva, il protagonista di Toby Dummit: “non credo in dio, ma nel diavolo sì”. E il diavolo, cattolico o protestante, è sempre una donna, contro cui l’uomo brandisce invano la lancia di S. Giorgio (Le Tentazioni del dott. Antonio) o la scocca della Ferrari (Tre passi nel delirio). Un don Chisciotte sempre sconfitto.
Scrive Zanzotto nei suoi Versi in onore di Federico: “‘ciak!’ – Federico -, è il tuo circo che erutta e deflagra con gusto/ vi piroetta e saetta la festa che maschere appioppa o strappa”.
No, non mi bisognava questo almanacco.

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