Per una semiotica della comunicazione strategica


Da: (con Federico Montanari), E|C, rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici on-line.
Questo articolo è stato concepito e discusso congiuntamente dai due autori. La redazione dei primi cinque paragrafi è di Federico Montanari, mentre quella dei restanti cinque è di Paolo Fabbri.
Data di pubblicazione in rete: 30 luglio 2004.
http://www.associazionesemiotica.it/ec/contributi/fabbri_montanari_30_07_04.html


 

La proclamation de guerre relève de la sémiologie philosophique; loin d’être un simple constat, la proclamation est une véritable “Sinngebung”, une donation de sens.
(Alexis Philonenko, “Guerre et langage”, Essais sur la Philosophie de la guerre, Vrin, Paris, 1976)

La semiotica, nelle sue diverse fasi di sviluppo e nelle sue varie linee di ricerca si è definita come la disciplina che studia i sistemi e i processi della significazione, di costruzione del senso. Dunque, essa ha cercato, via via sempre di più, di lavorare organizzando un metodo che fosse in grado di articolare questi processi di costruzione e di espressione del senso, all’interno dei diversi sistemi sociali e culturali (dalla politica, ai media, fino all’arte): di organizzare il senso in tipologie e in relazioni riconoscibili e, per quanto possibile, generalizzabili; elaborando modelli che cercassero di rendere conto, attraverso gerarchie per livelli di analisi, della complessità dei significati propri ai fenomeni culturali.
Questa disciplina, dunque, non si è occupata e non si occupa solo di comunicazione – vale a dire dei modi di scambio e trasmissione di messaggi e contenuti – anche se evidentemente tale ambito della comunicazione non può non assumere una preminenza. È ovvio che, all’interno dei sistemi sociali1 ed in particolare nelle società “moderne”, la questione della comunicazione diviene preponderante – e in certi casi ipertrofica – arrivando a volte quasi a nascondere altre questioni e altri fenomeni. La semiotica cerca tuttavia di considerare anche la comunicazione come un processo di senso: una pratica culturale che, fra le altre, va studiata, scomposta e analizzata nelle sue diverse componenti e nello statuto dei suoi diversi partecipanti.

Testi e culture strategiche

È anche in questa direzione, allora, che la semiotica si interessa di problemi concernenti la strategia. Essa cerca, innanzi tutto, di mostrare quali costruzioni, categorie implicite, modi di vedere, di pensare o sistemi di attese, si attivino nel corso di una interazione, di una relazione con l'”altro”: sia esso avversario, nemico, partner. Naturalmente, all’interno di tali processi e sistemi di costruzione del senso, si colloca anche il processo comunicativo, ma dentro a processi semiotici più ampi. Tuttavia, la semiotica non è un’antropologia, né una microsociologia, o un’analisi partecipante delle interazioni sociali; o, ancora, essa non è una teoria delle organizzazioni: non ha la pretesa di occupare il posto di questi ambiti disciplinari. La semiotica si occupa di “testi”.
Ma allora che cosa può dire e cosa ha detto la semiotica a proposito di conflitto e di “interazioni bellicose”? Prima di rispondere a questa domanda è necessario chiarirsi sulla definizione di testo. Per testo, oggi, la semiotica non intende più soltanto testi letterari, scritti o verbali, ma, potremmo dire, porzioni di sistemi di significato situati in una data cultura. Un testo può essere un dipinto, così come un dato comportamento o stile di vita sociale; e, dunque, anche un certo modo di vedere, o fare, la guerra, in un dato periodo storico-culturale2.
Tuttavia, un modo di vedere, di rappresentare la guerra, da parte di una data cultura, può produrre degli effetti all’interno di questa stessa cultura: divenire efficace addirittura sul piano strategico, fino a retroagire sulla stessa condotta di un esercito o di un conflitto. E di questo una semiotica della cultura – e della cultura strategica – deve saper rendere conto. A tale proposito, è un semiotico come Jurij Lotman a sottolineare, ad esempio, l’importanza di una “iper-estetizzazione” e teatralizzazione della guerra durante l’epoca napoleonica (vedi nota 2) ed in particolare nella Russia di Alessandro I. Ogni volta che si trattava di far fronte alle esigenze della guerra reale, un’idea teatrale, da parata, dell’esercito, portata avanti con grande crudeltà e punizioni da parte dei comandanti, doveva essere abbandonata con sommo dispiacere dell’imperatore; emerge così, ad esempio, una struttura soggiacente, di tipo antropologico-culturale, caratterizzata da un’opposizione fra un “collettivo” compatto – un grande “Io” che marciava, esteticamente ordinato, agli ordini dell’imperatore (ma inadatto alla guerra) – e un “loro” plurale e forse disordinato, ma efficace per l’azione concreta3.
Dunque, ecco un caso in cui la guerra o l’esercito, vengono “rappresentati” e quindi percepiti in un certo modo all’interno di una data società, con una serie di effetti di senso che si riverberano all’interno di quella stessa cultura e sulle sue pratiche, in particolare grazie a veri e propri “testi” sociali e rituali, quali possono essere il modo di marciare, le parate o il cambio della guardia a corte.
A proposito di questa concezione di testo come vera e propria “tessitura” del significato dei fenomeni sociali all’interno di una data cultura, è anche vero che effettivamente, oggi, l’antropologia e le altre scienze sociali condividono con la semiotica l’interesse per una tale concezione. Un antropologo come Geertz4 sottolinea, proprio a proposito dell’atteggiamento verso la guerra depositato nella nostra cultura, in particolare in riferimento alla mentalità e alla memoria collettiva della Grande Guerra, l’idea secondo la quale i fenomeni culturali possono essere colti solo “in traduzione”: vale a dire attraverso la comparazione che lo studioso compie fra diversi fenomeni; dunque, anche fra i diversi “testi”, intesi come modi di apparire di quel dato evento attraverso descrizioni, visioni, resoconti.
Se dunque oggi, nelle scienze sociali, sembra cominciare a prevalere tale concezione, o paradigma “testualista”, la semiotica, a maggior ragione, si propone non già come “disciplina guida” ma, anzi, come metodo, “mathesis” delle scienze dei fenomeni culturali e sociali. Ed è proprio un sociologo, Bruno Latour5 a sottolineare questo ruolo della semiotica: essa verrebbe ad assumere lo statuto di organon delle scienze sociali nonché, egli aggiunge, di una sorta di “etnometodologia dei testi”. Vale a dire che la semiotica sarebbe in grado, con la strumentazione di cui si è dotata, di “immergersi” nei fenomeni testuali prodotti dalle culture e dalle società.
Tutto è testo dunque? Anche le pratiche e i modelli concernenti l’azione e la strategia? No: tutto può essere essere letto, osservato “sub specie texti“. E soprattutto “testi” sono gli oggetti che vengono costruiti, scambiati, manipolati e fatti circolare nel sociale.
Ma veniamo al problema specifico della strategia: innanzi tutto sottolineando ancora una volta come esso consista in una questione squisitamente culturale e culturologica. Ovviamente non è pensabile analizzare un dato pensiero di tipo strategico, o una data condotta strategica di azione senza tener conto della cultura che l’ha prodotta. Tuttavia, come abbiamo visto sopra, per l’approccio semiotico non si tratta di dare per scontato il contesto o l’ambito socio-culturale, pensando che da quest’ultimo si possa far derivare una data concezione di azione o di strategia. Semmai si tratta, al contrario, di analizzare una condotta o concezione strategica per ricavarne la cultura o una “visione del mondo” soggiacenti.
Ecco allora una prima caratteristica e vantaggio del modo semiotico di studiare i problemi della strategia e del conflitto: la ricerca della comparatività fra culture e sistemi strategici, con lo scopo di esplicitarne differenze, diversi tipi di efficacia e di costruzione di rappresentazioni – pensiamo, ad esempio, ai diversi modi che possiedono le culture per immaginarsi il “nemico”6 – e le possibilità di traduzione fra tali rappresentazioni.
A questo proposito forniamo un altro esempio. Studiare un modello di razionalità strategica – magari a partire da Lawrence D’Arabia – significa parlare di “cultura strategica” o di un’ antropologia della strategia con lo scopo “di rendere conto delle differenti forme che la guerra adotta a partire dalla tradizione storica e culturale degli attori implicati”7. Nello specifico, nel caso della guerriglia o “rivolta araba” di Lawrence, si tratta di una forma e di un modello strategico assai diverso da quello ordinario, ed in cui prevale un’idea di “non-battaglia”, di “linea di fuga” nel deserto, di condotta “flou” o “acentrata” dello scontro (concetti fra l’altro ripresi e sviluppati da teorici della strategia come Brossolet, Poirier o Joxe, o da filosofi come Deleuze e Guattari)8 ed in cui l’avversario è paralizzato dalla sua stessa adesione a modelli “razionali”, tipici della tradizione di guerra occidentale. Gli Arabi, per Lawrence, ignorano le lezioni della grande politica e della Grande Guerra: si trasformano in una sorta di “nuvola” che si muove nel deserto, rendendo incerti gli stessi limiti di territorio da essi occupato; facendosi ubiquitari e mobili, provocando negli ufficiali nemici un senso di smarrimento, di “incoerenza” per l’incapacità di capire la loro logica, la logica dell’altro.
In un senso assai simile, anche François Jullien afferma la radicale alterità di un altro pensiero, di un’altra cultura strategica e di guerra: quella cinese9. Pensiero in cui prevale l’idea di divenire come fluire continuo di trasformazioni e di adattamenti elastici alla condotta del nemico: in questo caso la guerra si vince proprio non entrando in battaglia, logorando l’avversario “lasciando che le cose accadano”10, dunque mettendo in campo un tipo particolare di soggetto agente, assai diverso da quello pieno, “attivo” e razionale della strategia occidentale.
Dunque, per una semiotica della strategia, si tratta, in primo luogo, di analizzare date condotte o visioni strategiche, per ricavarne poi modelli culturali e sistemi di valori che possono informare e motivare, a loro volta, i diversi modi di agire e le pratiche di condotta degli stessi conflitti e delle interazioni all’interno di quella data cultura.

La trasformazione del concetto di strategia e la dimensione semiotica

Come definire allora la strategia da un punto di vista semiotico; e cosa la semiotica può offrire agli studi strategici?
Proviamo a partire da una una concezione più generale di strategia. Innanzi tutto, oggi, questa nozione è divenuta, come sappiamo, estremamente diffusa (ovviamente si può parlare di strategie di marketing, di strategie di sviluppo, così come delle strategie della ricerca scientifica all’interno di un laboratorio di ricerca, ecc.). A questo proposito, il generale Lucien Poirier11 afferma che tale questo concetto si è talmente ampliato da alimentare una sorta di discorso retorico e una sua banalizzazione. D’altra parte, ciò che è avvenuto, in particolare negli anni successivi all’avvio della guerra fredda, è stata una trasformazione dell’idea di strategia, la quale, partendo dall’ambito specifico degli studi concernenti la guerra, si è via via allargata, assumendo il carattere di modello teorico generale. Del resto, tale tendenza al progressivo allargamento del concetto, come afferma lo stesso Poirier, era già da tempo presente, anche se soltanto negli studi propriamente militari: un grande teorico dell’era “classica”, antecedente cioè alla seconda guerra mondiale – Alfred Thayer Mahan – invocava, già nel 1911, una “strategia navale in tempo di pace”12.
Se le cause di questo ampliamento del concetto di strategia sono da imputare alla percezione delle trasformazioni storico-politiche – la guerra è diventata via via guerra globale e “totale”, tale da investire oramai tutte le strutture di una società, e sempre di più si è dilatata temporalmente e spazialmente, uscendo dai campi di battaglia tradizionali – ecco che, allora, il frutto di un tale cambiamento di percezione consiste in una trasformazione di pensiero e, potremmo dire, di punto di vista. Come afferma ancora Poirier13, a partire dall’eredità culturale dei secoli passati, la strategia – intesa “come pensiero dell’agire e sull’azione” – non esisteva che a partire da, e nella guerra; ora, via via la funzione strategica si estende sempre di più: dapprima alle operazioni preparatorie alla guerra – organizzare e mobilitare le forze, saper prendere in considerazione le innovazioni tecniche -; successivamente, una tale concezione, per quanto ancora limitata, si protende al di là della guerra stessa.
Il grande evento è dato, come si diceva, dalla guerra fredda. Tuttavia, ed al di là dei mutamenti storico-politici, in cosa è consistito tale cambiamento di pensiero, che porterà allo sviluppo della scuola americana di strategia – un nome su tutti è quello di Thomas Schelling – ma anche all’avvento di una scuola europea14, grazie soprattutto all’intenso lavoro di riflessione svolto in Francia?
La risposta di Poirier ci conduce già in direzione di una semiotica della strategia: il concetto di strategia si è sviluppato sia in estensione che in profondità perché ha dovuto occuparsi non più della guerra ma della sua virtualità. Le armi nucleari ampliano sempre di più la possibilità di utilizzare non già il ricorso alla forza, ridotto nella sua praticabilità, ma la minaccia. Ecco allora aprirsi quel nuovo scenario che gli studiosi di conflitto, dallo stesso Poirier ad Alain Joxe, definiscono proprio come “guerra semiotica”, arrivando sino al concetto di “gesticolazione strategica”15. La differenza consiste in questo: la guerra e il conflitto vengono ora considerate anche come un campo di possibilità per mostrare all’altro le proprie volontà, le proprie intenzioni o, al contrario, di dissimulare queste volontà e queste intenzioni; o, ancora, simulando certe intenzioni ed azioni, per spingere l’altro a comportarsi di conseguenza; dunque, lo spazio di interazione e di comunicazione con l’altro diviene un vero e proprio campo di manovra. Ecco che si tratta d’ora in avanti di guerra per segni. Ed è per questo che, a detta degli stessi esperti militari, possiamo parlare di vera e propria semiotica di guerra: semio-guerra.
Una virtualizzazione della guerra ne trasforma le dimensioni e lo stesso senso: ora, la guerra, intesa in senso specifico, diventa solo uno dei possibili modi della violenza armata16. E pure lo stesso ricorso alla forza diviene ora soltanto una delle possibili opzioni, all’interno di un campo di manovre strategico che comprende anche “armi semiotiche” come quelle della minaccia, della dissuasione, della manipolazione, della sanzione. Tale dilatazione dell’idea di strategia avviene dunque non solo in estensione, ma anche in profondità: trasforma la natura stessa del concetto, oltre che la forma del conflitto. Infatti, se proviamo a definire meglio queste armi semiotiche, vediamo che esse concernono soprattutto il campo, non dell’agire in senso stretto, ma della trasformazione e deviazione di questo agire: dallo “spingere a fare o a non fare” (manipolazione) all'”impedire di fare” (dissuasione), all'”obbligare a fare” (costrizione), alla seduzione (intesa come un “mostrare di essere in un certo modo, affinché l’altro faccia qualcosa”), e così via.
Si potrebbe replicare che tale dimensione, all’interno delle strategie e delle condotte belliche, è sempre esistita, un po’ come oggi si discute tanto della novità nell’uso, all’interno dei conflitti, dell’arma della comunicazione. È chiaro che non si tratta di novità “in sé”: l’innovazione consiste precisamente nel modo di pianificare l’uso di tali “armi”; dunque, si tratta, piuttosto, del cambiamento dei modi, o punti di vista, della stessa pianificazione strategica, e quindi di una logistica: si potrà parlare allora di una vera e propria logistica dei segni e della comunicazione. Come afferma Luhmann, per i sistemi sociali e per i fenomeni socio-culturali, le innovazioni strutturali consistono, in generale, non già nella loro presunta esistenza “ontologica”, peraltro assai relativa17, ma nel fatto che tali innovazioni vengano osservate e “trattate” – ricorsivamente – negli stessi processi di comunicazione interni a questi sistemi sociali.
D’altra parte, è anche vero che oggi, dopo la fine del ciclo della guerra fredda, l’uso delle armi, come sottolineano gli studiosi di strategia18, è ridiventato chiaramente possibile e praticabile. Ma ciò ha forse portato ad un superamento della fase “virtuale” e “gesticolatoria” della guerra? Nient’affatto. Anzi, constatiamo come l’uso sempre più frequente di armi “reali” – anche all’interno di spazi geopolitici come l’Europa per lungo tempo considerati pacificati, o meglio “congelati”, dal sistema bipolare USA-URSS – venga sempre più pianificato in accoppiamento strategico-tattico con le armi “virtuali” o semiotiche (sia “classiche” come la minaccia, la promessa, la sfida e la contro-sfida; sia attraverso l’uso, parrebbe, di logiche di tipo “arcaico”, come quelle della vendetta19; in più, magari, accompagnate dall’utilizzo sempre più massiccio delle nuove armi tecnologiche dell’informazione e della comunicazione, che, con apparente paradosso, materializzano e rendono concrete, le stesse armi virtuali o semiotiche20).

Espressione e contenuto dei racconti strategici

In effetti, tale distinzione fra azioni “materiali”, “concrete” ed azioni “immateriali” o “per segni”, risulta essere, da un punto di vista dell’analisi semiotica – cioè dello studio dei diversi programmi di azione e di inter-azione (programmi narrativi) utilizzati dai diversi attori all’interno dei conflitti – assai poco efficace.
La semiotica, a tale proposito, distingue fra costruzione e realizzazione di programmi narrativi di azione e loro manifestarsi nelle diverse sostanze espressive, siano esse azioni armate effettive e materiali o solo minacciate o, piuttosto, “azioni” verbali e visive, come può essere, ad esempio, un briefing della NATO. (Oppure, allontanandoci dalla strategia e dalla politica mediatica internazionale, in quelle che, dal punto di vista semio-antropologico, sono vere e proprie battaglie sonoro-verbali, forse lontane dalla guerra armata, ma assai violente ed intense, come certe dispute nei canti gitani o nella musica da strada, come il rap). E, con questa distinzione, la semiotica, mettendo fra parentesi la materialità dei diversi supporti, è in grado di rendere più efficace il proprio sforzo analitico; non perché le differenze fra sostanze espressive non siano importanti, ma proprio perché esse vanno considerate, appunto, come sostanze espressive e non come meri materiali. Si tratta, invece, di “sostanze formate”: messe in forma da un lavoro semiotico preventivo, esattamente come uno stratega decide di usare certe forze e certi mezzi piuttosto che altri.
Si sta dunque parlando dell’introduzione, nel campo dei conflitti, di una dimensione nuova perché osservabile come autonoma. Dimensione che diviene essa stessa campo di manovre strategico-tattiche e che, in prima approssimazione, potremmo definire “cognitiva”. Tuttavia il termine cognitivo è limitato: da un lato esso è utile per chiarire che una semiotica della strategia riguarda non soltanto la dimensione propria all’azione in senso stretto, o dimensione pragmatica, ma anche quella delle “mosse” di pensiero e di calcolo a partire dalla propria azione e da quella dell’avversario. D’altra parte, è importante sottolineare come tale dimensione cognitiva venga intesa qui non in quanto dimensione meramente psicologica ma, appunto, concernente il dispiegarsi del senso, dei processi di significato in una data situazione: dimensione propriamente e pienamente semiotica.
Ma perché una dimensione strettamente psicologica non è sufficiente a definire il campo dell’interazione conflittuale e occorre proprio una semiotica? In primo luogo perché, in situazioni di conflitto, non ci si trova di fronte soltanto a soggetti singoli, individuali o ad attori isolati, dotati di loro istanze o motivazioni, ma ad “inter-attori”: soggetti che si costituiscono proprio in quanto sono gli uni in contatto con gli altri, gli uni di fronte al proprio avversario, legati ad esso nelle varie forme della confrontazione. Un esempio classico di analisi semiotica è dato, a questo proposito, da “la sfida”, figura semiotica analizzata da A. J. Greimas in un suo articolo21. Questa figura, così come il duello – lo stesso Poirier, sulla scia di Clausewitz, considera, da un punto di vista prasseologico, il duello, vale a dire la dialettica, il conflitto fra “stesso” e “altro”, come la “cellula” di base di qualunque relazione fra attori socio-politici e, dunque, alla base di tutte le condotte strategiche22 -, è una figura che si costruisce attorno ad una struttura detta, in semiotica, “attante duale”: struttura di senso condivisa sia dall’attore sfidante che dall’attore sfidato i quali, oggettivamente, si vengono a trovare in una condivisione perlomeno di un sistema valoriale: quello che implica il riconoscimento dell’altro in quanto sfidante, e la partecipazione di entrambi alla disputa.
Scrive a questo riguardo Greimas: “il buon funzionamento della sfida implica una complicità oggettiva fra manipolatore e manipolato”23. Per l’analisi semiotica delle strategie, la struttura fondante consiste in una configurazione di tipo polemico-conflittuale che starebbe alla base della comunicazione e dell’azione stessa. In specifico, alla base delle azioni, la semiotica concepisce strutture profonde di tipo narrativo: composte di “attanti”- entità ancora astratte e vuote: funzioni, quindi, come un soggetto (S) – che si trovano, ad essere poi investite, cioè a congiungersi con valori-oggetto (O), facenti parte di dati sistemi assiologici. I soggetti si trovano a lottare per congiungersi con tali valori, a scontrarsi ed incontrarsi con altri soggetti che lottano per essi, alle volte contrapponendo invece altri sistemi valoriali. Quindi, un soggetto, in queste “trame narrative” di azioni, si trova sempre di fronte ad un “anti-soggetto” (anti-S), un “ostante” (sia esso incarnato in un nemico, in un’idea, o in una tentazione a cui resistere) e che va anch’esso a comporsi in programmi narrativi (dunque si potrà parlare pure di contro-programmi), anche di tipo cognitivo, e non solo strettamente di azioni di tipo pragmatico.
Inoltre, nella struttura narrativa di base, sono presenti altri tipi di funzioni attanziali come il “destinante” o il “destinatario”; naturalmente, data la struttura polemica della narrazione, si avranno le figure anche dell’anti-destinante e dell’anti-destinatario: queste figure sono responsabili dei valori di cui divengono competenti i soggetti dell’azione. (Ad esempio, il ruolo di destinante, o mandante, può essere assunto concretamente da un’intera società o da un’opinione pubblica o ancora, nel caso dei conflitti internazionali, dall’ONU).
Comunque, al di là della complessità descrittiva, di cui qui possiamo solo in parte rendere conto, scopo della semiotica è innanzi tutto quello di offrire un metodo di scomposizione delle diverse componenti dell’azione; arrivando così a costruire modelli, estrapolati dai diversi testi – siano essi “testi sociali”, come azioni e concatenamenti di atti concreti, che esempi “letterari” -: si dovrebbe trattare di modelli utili ad una “strategica” o prasseologia, in quanto sufficientemente generalizzabili.

I protagonisti ibridi delle interazioni strategiche

In secondo luogo, ed è questo un punto troppo spesso ignorato dalla psicologia e in generale dalle scienze sociali, non sempre e non necessariamente i “partecipanti” alle azioni e situazioni di interazione strategica sono “umani”. Anzi è, evidentemente, tipico di una confrontazione, soprattutto se armata, il fatto di avvenire attraverso l’ostentazione e la mediazione di “oggetti” (tecnologie, scambi di messaggi e, ovviamente, armi). Un sociologo come Bruno Latour sottolinea questa mancanza delle scienze sociali: esse, afferma, quasi sempre studiano i rapporti e le interazioni fra uomini come se fossero “nudi”: come se questi si confrontassero, si scontrassero senza mediazioni tecnologiche. In più, questi mediatori, o “delegati tecnologici” come gli oggetti o le armi non sono meri “oggetti” inanimati: sono veri e propri “soggetti” (anche se non umani, chiaramente) in quanto dotati di competenze e di programmi di azione.
A tale proposito, la semiotica, proprio grazie all’attrezzatura metodologico-concettuale di cui si è dotata, è in grado di analizzare indifferentemente i “partecipanti” ad una data azione o “storia”: siano essi esseri umani o oggetti. Si tratta, insomma, di comprendere che le società, e quindi anche i processi di interazione e di conflitto, sono composte di varie specie di attori, la cui specificità è data non da una presunta essenza ma, dal punto di vista di una teoria semiotica dell’agire, dai programmi di azione e narrativi che questi attori si danno. Ed è soprattutto per questo che Latour riconosce alla semiotica un ruolo cruciale nell’analisi dei comportamenti all’interno delle culture.
Ad esempio, come afferma ancora una volta Latour24, un’arma (pensiamo proprio all’arma nucleare) trasforma lo statuto di chi la possiede; non soltanto lo dota di un potere maggiore, ma egli “sa che può”: sa che può minacciare, e soprattutto “sa che l’altro sa”. Ogni oggetto, in particolare ogni arma, anche la più semplice, dota, dunque conferisce a chi la possiede, di programmi di azione nuovi – una sciabola non prolunga o estende (idea banale di protesi) soltanto il gesto ed il braccio nel colpire, ma possiede un proprio programma d’uso che fa sì che si possa colpire l’avversario in un certo modo e non in un altro25. D’altra parte, se il soggetto viene dotato da tali oggetti (simili in questo agli oggetti magici delle fiabe tradizionali) di nuovi poteri, egli stesso produrrà dei meccanismi di delega verso questi oggetti (ecco un altro esempio di funzione di destinante). Tali oggetti saranno, quindi, veri e propri “oggetti-persone”, dotati di capacità di fare: investiti di diversi ruoli all’interno delle varie azioni narrative.
Dunque, per una semiotica della strategia, non si tratta soltanto di tener conto della storia e della cultura degli armamenti (Poirier), della loro dinamica ed influenza, ma di comprendere la costruzione di quei veri e propri attori ibridi che sono i “partecipanti” ad un conflitto. Attori ibridi, in quanto composti di “armi ed uomini”. La semiotica, più in generale, scompone tali entità in componenti di base, come abbiamo visto, definite in generale come attanti, vale a dire elementi sintattici, componenti funzionali delle azioni, che vanno a comporre i diversi programmi narrativi dei diversi attori: si tratta delle entità “che fanno o subiscono un’azione”. Tali componenti di base, si possono poi ricomporre in concatenamenti (anche, come si è detto, ibridi) a carattere multiplo (composti cioè di aggregati di attanti), a cui va il nome di “attanti collettivi”: essi sussumono certi caratteri comuni ai diversi attori, o partecipanti ad una data azione. In questo senso, come si è visto riguardo alla sfida, o al duello, possiamo parlare di attante duale (tipo di attante collettivo), in quanto tale partizione (operata sulla base di criteri comuni fra gli attori, come il loro “campo funzionale” o le loro “qualificazioni specifiche”26) è condivisa dai due partecipanti a questa azione.
Per fornire un esempio limitato e specifico di partecipante “ibrido” ad una guerra pensiamo al caso, attuale e assai problematico, di un pilota d’aereo che deve colpire un dato bersaglio: tale “attore” sarà inserito quindi in un “essere ibrido” che incarna vari programmi narrativi ed è “concatenato” a diversi altri programmi di azione, incapsulati a loro volta in una macchina; questo insieme di programmi di azione sono più o meno condivisi da entrambi, uomo e macchina, sono attuati da “delegati attanziali”, dotati di ruoli, vale a dire di competenze diverse. (Si tratterà, ad esempio, di una acquisizione di un “sapere” e di un “dover fare” da parte del pilota, un suo “delegare” alla macchina certe competenze, un “informare”, da parte della macchina, il pilota di date cognizioni, un “fare”, prima “cognitivo” e poi “decisionale” e così via, sino alle interazioni con il controllo del volo, ecc.). Insomma, tutto questo per dire che lo studio semiotico-strategico delle azioni – siano esse, come in questo caso, singole azioni o mosse di tipo pratico-tattico, che più ampie condotte di tipo strategico – richiede un’ampia articolazione di categorie e di piani di analisi.
Questo esempio degli oggetti, delle armi, dei soggetti partecipanti ad un conflitto e delle loro diverse competenze ci conduce direttamente nel cuore della teoria e dell’analisi semiotica.

Il confronto fra semiotica e strategia

Per proseguire in questa rapida illustrazione degli strumenti che la semiotica narrativa e strutturale può offrire agli studi strategici, dobbiamo completare il quadro generale della disciplina. La semiotica contemporanea possiede, per così dire, un doppio codice genetico. Da un lato vi è una tradizione filosofica di tipo soprattutto americano, in particolare derivante dal pragmatismo di C. S. Peirce. Questo primo orientamento ha costituito la fonte principale dello sviluppo teorico facente capo soprattutto a Umberto Eco. Tale filone di studi si concentra, in particolare, su di una concezione del senso e della produzione del significato di tipo interpretativo-inferenziale: il senso, il significato, si costituirebbe a partire dalle inferenze e ipotesi che un interprete compie, grazie alla propria competenza culturale, a partire da fenomeni, oppure testi, da “leggere”, da interpretare, appunto, sulla base di un principio di tipo cooperativo27. Questo interprete compie una serie di “mosse” a partire dalle istruzioni che inferisce dal testo stesso. Per quanto concerne gli studi strategici, tale primo filone è interessante soprattutto per una teoria della strategia e dell’azione di tipo logico: basata cioè sui calcoli, sulle inferenze e le aspettative a partire da, e in “cooperazione” con, il comportamento dell’altro (che diviene anch’esso un “testo” da interpretare, testo che è perlomeno “pigro” nel cooperare con il lettore, se non addirittura determinato a resistergli).
Se questo primo filone di studi semiotici non ha sviluppato esplicitamente un interesse per la strategia in senso proprio28, tuttavia, come abbiamo potuto constatare anche da questo rapido schizzo, vi sono alcuni punti di contatto con gli studi strategici – idea di interpretazione delle mosse dell’altro, idea di cooperazione, pur tenendo conto che si tratta di rapporti di tipo conflittuale – nonché alcuni snodi, anche critici, che condivide con l’altra grande linea di sviluppo della disciplina semiotica: quella di tipo narrativo-strutturale, di origine europea, di cui abbiamo finora trattato. Prima di riprendere questo secondo importante filone di sviluppo della semiotica – quest’ultimo sì impegnato in modo esplicito nell’elaborazione di modelli per una teoria della strategia -, sottolineiamo come uno degli snodi che le due linee di sviluppo della semiotica condividono riguarda proprio un problema di natura strategica. Si tratta di quella che H. Parret definisce la questione della razionalità strategica e narrativa29.
Parret si occupa in particolare del problema della comunicazione in situazioni di interazione. Caratteristica di tali situazioni è quella di possedere da un lato una natura intrinsecamente polemico-conflittuale: sempre, quando ci si relaziona o si interagisce con un altro, si instaura una sorta di “lotta”, per quanto amichevole o, magari, amorosa; una disputa, perlomeno sulle proprie posizioni, sulle proprie idee e credenze, se non addirittura per convincere l’altro a cambiare le sue. O ancora, una lotta, più o meno implicita, sul controllo delle reciproche posizioni. Dunque, si viene a creare una vera e propria battaglia (fatta di segni verbali e non verbali), quasi mai cruenta.
In secondo luogo, la cooperatività evocata sopra, in relazione ad una semiotica di tipo inferenziale, è l’altro carattere tipico delle interazioni. Tuttavia, anche in questo caso, cooperazione non significa “comprensione” né tanto meno “accordo”. Anzi, gli studiosi insistono su come spesso si tratti di situazioni di connivenza più o meno imposta e obbligata da fattori esterni (regole di etichetta e di ambiente sociale) o da fattori intrinseci alla interazione stessa (ad esempio, regole di convenienza o di convivenza)30.
Parret sottolinea proprio il fatto che, al di sotto delle interazioni conflittuali, vi possano essere diversi modelli di “razionalità polemologica”, un po’ come si era visto all’inizio riguardo ai diversi modelli culturali di strategia, come quella “cinese” (lo si è visto del resto con Jullien), “orientale” o “araba” (con Poirier; e Alonso su T. E. Lawrence). E tali forme diverse di razionalità strategica comportano differenti modelli di sintassi dell’interazione: ovvero, diverse regole di organizzazione sequenziale delle dinamiche dell’interazione (attuate, ad esempio, con procedure di enfatizzazione o, al contrario, di “sordina”, nel corso dell’interazione stessa).
Dunque, per uno studioso di linguistica e semiotica come Parret, la strategia si manifesta più come un insieme di “regolarità” nei comportamenti interattivo-conflittuali, che non di norme da seguire: si tratta piuttosto di vincoli, frutto anch’essi di negoziazioni da parte degli “inter-attori” [,X] dotati di un potere e di una competenza, soggetti essi stessi a calcoli e previsioni, prima, durante e dopo le situazioni di interazione.

Lo studio delle “molecole” dell’azione strategica

Ecco allora che torniamo alla questione del modello di analisi semiotica e nel vivo dell’approccio semiotico alla strategia. Per la semiotica i soggetti partecipanti ad una interazione, o ad uno scambio comunicativo, composti, come si diceva sopra, di funzioni o attanti, sono soggetti “pieni”: queste funzioni si riempiono, si arricchiscono via via di istanze che la teoria definisce, derivandole dalla linguistica, come istanze modali – il volere, il dovere, il potere, il sapere, il credere e infine l’essere e il fare, suscettibili, naturalmente, di costituirsi nelle diverse combinazioni -. Si tratta allora di partecipanti “carichi” di una competenza detta “modale”; ed è questa competenza che definisce il ruolo dei diversi attanti, cioè delle istanze che svolgono i diversi programmi di azione. Per cui, secondo l’analisi semiotica, il confronto, lo scambio polemico, non avviene fra attori compatti e monolitici ma fra diversi livelli, o “strati” di queste soggettività composite.
Un soggetto qualunque – sia a livello “micro”, come un soggetto singolo, che a livello “macro”, come nel caso di un soggetto collettivo, ad esempio uno Stato, o, ancora, di un personaggio pubblico o politico – può esprimere, nel corso di un negoziato o di un conflitto, un “volere” qualcosa, ma, al contempo, “credere” che l'”altro” (il nemico, l’avversario, l’alleato) “voglia” qualcos’altro; o ancora, che “sappia”, “creda” o meno qualcos’altro.
Come vediamo, già in questa descrizione banale si manifesta una ricchezza di possibilità e di articolazioni: ad esempio, due attori di un conflitto possono scontrarsi o negoziare per ottenere di “sapere” qualcosa, o per indurre l’altro ad aderire a qualcos’altro e, al tempo stesso, “far credere”, ad un terzo – che si configura come osservatore esterno, il quale tuttavia partecipa all’interazione, pensiamo, ad esempio, ancora una volta, all’opinione pubblica di un dato paese – di stare lottando per un altro “oggetto di valore” (ad esempio per la giustizia, o per un dato scopo, risultato o premio). Vediamo allora come questi diversi soggetti partecipanti – siano essi, lo ripetiamo, singoli o collettivi (di qui anche la potenza euristica del modello) – si compongono e ricompongono in diversi piani “modali”: e per ciascuno di essi, e fra di essi, si possono instaurare diverse forme di lotta e di confrontazione.

Il nucleo polemico-conflittuale della semiotica

Prima di concludere la descrizione di questo modello semiotico del conflitto è però necessario completare, anche se in modo rapido, il percorso di sviluppo e di ricerca della semiotica: di come essa sia giunta a tale modello.
La semiotica, in particolare quella di scuola francese, di orientamento strutturalista e facente capo al gruppo di ricerca che ha lavorato attorno a A. J. Greimas, ha mosso i suoi primi passi, oltre che dalla linguistica strutturale di Saussure, di Hjelmslev e di Jakobson, proprio dall’antropologia (Cl. Lévi-Strauss) e dall’analisi del racconto. Da un lato, fin dalle sue origini, essa ha cercato di analizzare gli universi mitici e culturali31, scomponendoli in sistemi di valori; dall’altra parte, ha sviluppato l’analisi narratologica, in particolare partendo dalle analisi del formalismo russo (V. Propp) delle fiabe e dei racconti popolari. Essa è stata così in grado di sviluppare un modello di tipo narrativo; modello capace di essere sufficientemente ampio per poter fungere da griglia generale di analisi dei processi e delle dinamiche delle azioni.
Possiamo comunque affermare che la semiotica si interessa ai problemi della strategia e della guerra anche per una sorta di “a priori epistemologico”, oltre che, evidentemente, con lo scopo di analizzare i fenomeni culturali e, nello specifico, la guerra: questa disciplina sembra portare al suo interno un modello, un cuore “agonistico”, polemico-conflittuale.
Tale concezione trae origine dal binarismo, che è proprio del modello linguistico strutturalista e da cui la semiotica ha preso avvio. Potremmo parlare, in questo caso, di una sorta di concezione epistemologica che, del resto, attraversa tutto il pensiero scientifico del nostro secolo. Da Saussure fino a Jakobson – ed al di là dei differenti modi e sviluppi nell’intendere il binarismo, in senso più o meno categorico o oppositivo – la concezione binarista e strutturalista concepisce il costituirsi dei linguaggi, via via fino alla costruzione stessa del senso e della significazione, per differenze: il senso non sarebbe dato in maniera positiva e atomistica, ma per scarti e per rapporti differenziali. Come affermano Greimas e Courtès, una struttura è detta binaria quando, al minimo, si definisce come la relazione tra due termini.
In altre parole, qualunque valore, o componente che vada a costruire il significato – da una parola, ad un testo – sarebbe data per scarto, per differenza rispetto ad un altro valore.
Allora, la semiotica è interessata intrinsecamente al conflitto poiché, in primo luogo, pensa, per così dire, “binariamente” – per scarti oppositivi – fin dall’origine, fin dall’interno del suo statuto epistemologico di modello scientifico. Naturalmente, il pensare in modo “binario”, il cercare di vedere cioè i rapporti, gli scarti, le differenze, piuttosto che gli elementi singoli, non la esime dall’interrogarsi su quali diversi tipi di rapporti o legami si creino fra le diverse componenti dei processi di significazione. Si potrebbe quasi dire, in tale direzione, che la semiotica ha la pretesa di assomigliare più ad una chimica che ad una fisica del senso: si tratta di studiare le valenze e i valori dei legami fra le “particelle” di significato; di interdefinire, attraverso tipologie, tali relazioni.
Dunque, a partire da una concezione che fu tipica della linguistica, da Saussure in avanti, la semiotica ha fatto propria l’idea di “senso negativo”: il senso, il significato si dà solo in quanto scarto negativo fra le sue parti. Come afferma A. J. Greimas32, la possibilità di dire che “passo” non ha lo stesso significato di “basso”, ci è data dal fatto che fra i due termini vi è “scarto” di senso, percepito in questo caso, evidentemente, proprio da una differenza, da uno scarto a livello della stessa costruzione della parola.
Tale concezione differenzialista e “negativa” funziona, per la semiotica ad ogni livello della costruzione del significato; ed è in questo senso che possiamo parlare, per essa, come di una sorta di “fondamento” epistemologico. Infatti, tutte le categorie costruite dalla semiotica sono concepite in questo modo: dalle opposizioni profonde fra valori differenziali del significato (i “semi” o le componenti “minime” del significato), all’articolazione fra piano dell’espressione e piano del contenuto – ricordando che questa articolazione rappresenta un altro degli “assiomi”, se così si può dire, della semiotica, per la quale un qualunque linguaggio si costituisce a partire dalla funzione semiotica, cioè dal differenziarsi e dall’associarsi di questi due piani33.
Seguendo le parole di Greimas, è lo stesso universo che ci circonda, il mondo sociale delle cose e degli eventi, ad essere da noi percepito in un tale modo, per scontri e scarti di differenze. Dunque, potremmo dire che, per la semiotica, polémos è davvero all’origine di tutte le cose; tuttavia, e vi è qui un’enorme differenza rispetto alla filosofia, o alla teoria tradizionale del conflitto (da Eraclito fino a Hegel e Marx) esso non si dà come fondamento dell’essere, o del divenire, ma si pone, seguendo ancora una volta l’epistemologia contemporanea34, come modo costitutivo di osservare il mondo. Un mondo che non è dato una volta per tutte, ma che è composto di senso percepito e si costituisce nel procedere stesso di questa percezione; e, soprattutto, tale senso – tale “sostanza del mondo” – viene colta per differenze.
Dunque, orfani di una teoria del conflitto, e privati di un “motore dialettico” del cambiamento storico-sociale, possiamo comunque concepire le basi della significazione in un senso profondamente dinamico-conflittuale.

Il modello di analisi semiotica del conflitto: una lotta fra “voleri”

Una tale concezione del conflitto sembrerebbe così riguardare soltanto un livello astratto di filosofia del senso e dell’azione.
Invece, si tratta di andare a vedere come la semiotica sia in grado di fornire piani e categorie operative, in vista di uno studio sistematico delle azioni “concrete” e dei conflitti: nella prospettiva di un’analisi strategica. A questo proposito, e per inciso, è allora forse possibile che la semiotica sia in grado di riattualizzare l’importanza di una teoria dell’azione per le scienze sociali; teoria che negli ultimi decenni, e probabilmente con buone ragioni, è andata sempre più in crisi, a favore dello svilupparsi di “teorie del sistema”: di teorie in grado cioè di scomporre le dinamiche dei sistemi sociali ed in cui l’agire dei singoli attori era visto piuttosto come l’epifenomeno, la manifestante di componenti e dinamiche più profonde35.
Tornando in specifico alla semiotica, dicevamo sopra che essa cerca di articolare questo binarismo e questo principio polemico-conflittuale su tutti i piani della significazione. Infatti, la semiotica strutturale e narrativa di scuola francese, a cui qui facciamo in particolare riferimento36 ha costruito un modello stratificato, per piani, di generazione del senso. Tale modello (detto “percorso generativo”) può funzionare come griglia di analisi anche per i fenomeni conflittuali e per la strategia in senso ampio37.
Semplificando, per cercare di fornire un modello utilizzabile ai fini della ricerca sulle forme di confrontazione e di interazione strategica:
– ad un primo livello, più elementare e profondo, si collocano i sistemi di valori (con i loro diversi tipi di relazioni, ad esempio in posizioni di contraddizione, di implicazione o di contrarietà) dei soggetti partecipanti all’interazione. In altri termini, si tratta delle “poste in gioco” in quel dato conflitto, all’interno dei diversi sistemi culturali. Naturalmente bisogna poi andare a scoprire se le poste in gioco dichiarate dai partecipanti (ad esempio “libertà” vs “dittatura”, “democrazia” o “vera pace” vs “paura”, “guerra” e “repressione”) equivalgono a questi sistemi di valori, o se questi sono invece più o meno occultati. Tale livello di analisi si andrebbe a collocare in prossimità, ed a supporto analitico di quella che Carlo Jean definisce come “metastrategia” o esplicitazione dei valori metapolitici: livello di esplicitazione rigorosa delle “poste in gioco” e degli interessi delle diverse parti in conflitto38;
– al secondo livello, tali sistemi di valori vengono narrati, “raccontati”: collocati cioè all’interno di diverse logiche di azione (rappresentate da quelle strutture narrative composte di attanti che abbiamo visto sopra). I diversi soggetti, scomposti nelle loro differenti funzioni (definite attanti: il mandante, o destinante, l’oppositore, e così via), si compongono, all’interno di queste strutture narrative, “caricandosi” via via di quelle istanze, o competenze modali – intese come organizzazioni di modalità, fondate ad esempio su un “voler fare” o un “dover fare” che reggono un potere o un sapere, come avevamo visto sopra;
– infine, se, come si diceva, un soggetto costituisce immediatamente un suo anti-soggetto, tuttavia tale inter-azione va poi collocata all’interno di una struttura composta anche di differenti costruzioni spaziali, temporali, e del tipo di quelle che la semiotica definisce come “tensivo-aspettuali”: si tratta di quel vasto campo, che la disciplina definisce come “prassi enunciativa” o della “messa in discorso” (potremmo dire della realizzazione ed attuazione delle strutture semiotiche precedentemente approntate). In altri termini, oltre ai soggetti che lottano, bisogna costruire – e, dal punto di vista dell’analisi, scomporre e ricomporre – la “scena” della lotta: la sua “arena” o “scenario”. Essa sarà dunque costituita sia dai vari programmi e contro-programmi narrativi dei diversi soggetti, sia dalle loro attribuzioni di competenze modali; ma anche dai diversi tempi e spazi del conflitto. Ad esempio, si può concepire il “proprio territorio come sacro e inviolabile”, o pensare a spazi meno “fisici” come quello, più metaforico, utilizzato quando si litiga con una persona perché la si considera “invadente”. Oppure, riguardo alla dimensione del tempo, pensiamo alle diverse forme temporali di un conflitto; ad esempio, al tempo costituito dall’attesa che l’altro faccia qualcosa; o dalla figura dell’ultimatum: tempo in cui la dead-line è una frontiera sia spazio-temporale, che di tipo “passionale”39. Ed infine vi sono le componenti date dallo “sguardo”, dal punto di vista, degli stessi soggetti sull’azione (in tal senso definiti come tensivo-aspettuali): un soggetto si può aspettare qualcosa, o essere colto di sorpresa. Evidentemente, tali componenti sono fondamentali anche per il costituirsi del piano emotivo-passionale dell’analisi strategica: da una data azione ci si attende qualcosa, o si teme qualcos’altro, si aspetta e si spera, ecc.
In effetti, l’analisi di quest’ultima dimensione – passionale e ritmica – del conflitto costituisce uno degli apporti maggiori che la semiotica può offrire agli studi strategici.

Le passioni del conflitto

Negli ultimi decenni, questo studio delle passioni in semiotica ha conosciuto un notevole sviluppo40, fino ad arrivare a considerare la componente passionale come l’altra faccia di quella dell’azione: tale dimensione fornirebbe il ritmo, la cadenza, il legame delle sequenze di azione, nonché la loro forza ed intensità. Pensiamo all’esempio, classico, del “morale” dei combattenti o dei partecipanti ad un conflitto. Tale concetto assume, evidentemente, una doppia valenza: etico-morale in senso stretto; “la moralità”41 cioè, in termini semiotici, l’adesione di un soggetto a certi valori, adesione che viene, come si è detto, “modalizzata” attraverso un “dover-fare” e un “dover-essere”). E passionale: il “morale” nel senso della forza dell’adesione alla lotta, con una sua più o meno intensa partecipazione; ed essa, dal punto di vista semiotico, concerne processi passionali che “modulano” o deformano i sistemi modali di adesione o di credenza, conferendo forza e incisività alla decisione di partecipare, o di intervenire, ad una lotta. Un esempio a tale riguardo è quello fornito da Marc Bloch, nel suo diario della sconfitta francese, all’inizio della seconda guerra mondiale (L’Etrange défaite): strana sconfitta, dice Bloch, dovuta, più che a mancanze di tipo materiale, a motivi legati al “morale” dell’esercito francese; incapacità legate alla sua demotivazione, così come al contrapposto “ritmo” (intensivo e passionale) conferito dall’avversario tedesco al suo “dover fare” e “dover essere”, ed espresso dai nuovi dispositivi tattici e dalle nuove condotte strategiche.
Vediamo, concludendo, quanto cruciale possa essere questa scomposizione e ricomposizione semiotica dell’azione. I diversi soggetti partecipanti ad un conflitto vengono come radiografati e scomposti attraverso i diversi livelli della griglia, per poterne scoprire ulteriori coerenze o dissonanze e per riuscire a coglierne dinamiche e tendenze in atto. Le diverse figure che costituiscono le interazioni e i conflitti possono venire così scomposte in parti e strati più elementari, suscettibili di essere interdefiniti e posti in correlazione fra loro. Tali componenti – che, riassumendo, consistono nel livello dei valori in gioco, nel livello dei programmi narrativi e modale, in quello della produzione ed enunciazione nei diversi spazi, tempi e attori, con quello ritmico-passionale – potranno poi essere riaggregate, per rendere conto, nella loro diversa variabilità ed incidenza, di quelli che possono venire considerati come veri e propri “atti semiotici”; o, come afferma anche Joxe, figure, “molecole” di azione a statuto semiotico, “stratagemi” o “tattemi”: figure di base, costitutive di configurazioni e condotte strategiche più ampie, come la minaccia, la promessa, la sfida o l’ultimatum42.
Se, come dice Poirier, si ha conflitto quando si ha soprattutto un confronto fra due volontà, ecco allora l’importanza di cogliere, attraverso questo modello semiotico, le diverse maniere in cui questi “voleri” si costituiscono e si affermano; si nascondono, si inseguono e lottano.


Note

  1. È il sociologo Niklas Luhmann a sottolineare la contingenza e la relatività storico-culturale della comunicazione. Se essa costituisce il processo fondamentale dei sistemi sociali, tuttavia non si tratta di pensarla in termini ontologici: essa è data non da una necessità o da un bisogno assoluti, ma dalla contingenza (anche in termini di evoluzione storico-culturale) che ci porta ad estrarre, selezionare “qualcosa dal nostro orizzonte” di senso attuale, “scartando qualcos’altro“: si ha processo comunicativo soltanto a partire da una selettività dell’informazione. In secondo luogo essa è data dalla percezione di un’alterità, di un alter che tuttavia, anche in questo caso, non è dato in termini ontologici e nemmeno trascendentali – anche se, come sappiamo, è proprio da Kant che parte la riflessione sulla “differenza” fra soggetto e “altro”, e il mondo -. Luhmann afferma che la comunicazione prende invece avvio dal fatto che ego – un soggetto – osserva e considera il comportamento di alter come comunicazione. Vedremo poi le connessioni fra tale concezione e una teoria semiotica della comunicazione e, evidentemente, del conflitto. Cfr. Luhmann, Niklas, Sistemi sociali, (tr. it.) Bologna, Il Mulino, 1989, pp. 253-255. Per una storia della comunicazione, anche riguardo ai suoi legami con la guerra, cfr., ad esempio, Mattelart, Armand, L’invenzione della comunicazione, (tr. it.) Milano, Il Saggiatore, 1998. torna al rimando a questa nota
  2. Cfr. Lotman, Jurji, La semiosfera, Venezia, Marsilio, 1985; Lotman, J., “Il decabrista nella vita. Il comportamento quotidiano come categoria storico-psicologica”, in: Da Rousseau a Tolstoj, Bologna, Il Mulino, 1984. A proposito di guerra e di strategia, della loro percezione e rappresentazione e degli atteggiamenti culturali verso di esse in una data epoca, Lotman sottolinea come ad esempio “l’epoca napoleonica introdusse nelle azioni militari, accanto ai momenti ad esse inerenti, un inequivocabile elemento estetico. Solo se terremo conto di questo ci sarà possibile capire perché gli scrittori della generazione successiva – Merimée, Stendhal, Tolstoj – dovettero impiegare tante delle loro energie creative per deestetizzare la guerra, per liberarla dai voli di una belluria teatrale. Nel sistema della cultura del periodo napoleonico la guerra era un enorme spettacolo […]” (ibid., p. 146). torna al rimando a questa nota
  3. A questo proposito, Alessandro I, vedendo le proprie truppe marciare vittoriose per le strade di Parigi, affermò: “La guerra mi ha rovinato l’esercito”, in Lotman, J., Cercare la strada, (tr. it.) Padova, Marsilio, pp. 39-40. torna al rimando a questa nota
  4. Si veda, ad esempio, Geertz, Clifford, Antropologia interpretativa, Bologna, Il Mulino, (tr. it.) 1988. Geertz riporta come esempio di fenomeno studiato “in traduzione” proprio il caso della guerra, facendo riferimento allo studio sulla mentalità e la memoria della prima guerra mondiale – a partire dal noto lavoro di Paul Fussell, The Great War and the Modern Memory, tr. it., Bologna, Il Mulino, 1984 -, in cui la guerra diventa “una struttura simbolica” e “mentale” che ci giunge attraverso una serie di immagini e di sensibilità diverse: ci giunge “tradotta”, ad esempio, da descrizioni letterarie. torna al rimando a questa nota
  5. Latour, Bruno, Petite réflexion sur le culte moderne des dieux faitiches, Paris, Synthélabo, 1996, p. 55; cfr. anche Latour, B., Nous n’avons jamais été modernes, Paris, La Découverte, 1991. torna al rimando a questa nota
  6. Cfr. il già citato Lotman: anche in Lotman, Ju., Uspenskij Boris, Tipologia della cultura, (tr. it.) Milano, Bompiani, 1975, su come le culture costruiscono e percepiscono la propria esteriorità, la propria alterità e i diversi tipi di frontiere, più o meno mobili, più o meno permeabili all’altro. A questo proposito ed in generale su come le culture “vedono” il conflitto e costruiscono immagini diverse di nemico, cfr. anche l’ampia e completa introduzione ad una teoria generale dei conflitti: Arielli Emanuele, Scotto, Giovanni, I conflitti, Milano, Bruno Mondadori, 1998, in particolare pp. 173-177. A titolo di esempio pensiamo a come le recenti forme di guerra costruiscono – o prevedono, nelle diverse dottrine strategiche – nuovi e diversi tipi di nemico: dai Grandi Cattivi tipo Saddam o Milosevic, sino alla declinazione di diverse tipologie di avversario pensata dalla attuale dottrina strategica statunitense (nemici civili per i conflitti ecologici o i conflitti informatici; nemici substatuali; forme di conflitto interno, con avversari dal carattere di pseudo insorti, che tendono a non essere più distinte dai conflitti esterni, e così via). torna al rimando a questa nota
  7. Alonso Aldama, Juan, “Modèle stratégique et rationalité sémiotique chez Lawrence d’Arabie”, p. 1, 1998, (di prossima pubblicazione presso Nouveaux Actes Sémiotiques, PULIM, Limoges). torna al rimando a questa nota
  8. Cfr. ad esempio Poirier, Lucien, Le chantier stratégique, Paris, Hachette, 1997; Deleuze, Gilles, Guattari, Felix, Mille plateaux, Paris, Minuit, 1980. Lo stesso Poirier si è occupato di cultura strategica comparativa (ibid. pp. 159-163), lavorando anche su T. E. Lawrence. torna al rimando a questa nota
  9. Jullien, François, Traité de l’efficacité, Grasset, Paris, 1996. torna al rimando a questa nota
  10. Cfr. anche Fabbri, Paolo, “Introduzione” a Jullien, Fr., Elogio dell’insapore, Milano, Cortina, 1999. torna al rimando a questa nota
  11. Poirier, Lucien, Le chantier stratégique, Paris, Hachette, 1997, pp. 15-16, 31. torna al rimando a questa nota
  12. Poirier, L., cit., pp. 33-34. torna al rimando a questa nota
  13. Ib., pp. 32-33. torna al rimando a questa nota
  14. Cfr. ad esempio oltre al lavoro di Thomas Schelling (Strategy of Conflict, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1963), i classici studi di Herman Kahn (ad esempio, Thinking about the Unthinkable, New York, Horizon Press, 1962); mentre, per quanto riguarda la Francia, cfr. ad esempio, Aron, Raymond, Penser la guerre. Clausewitz., Paris, Gallimard, 1976, fino ai testi di André Beaufre, Introduction à la stratégie, Colin, Paris, 1976, di Gérard Chaliand (è sua l’Anthologie mondiale de la strategie, Paris, Laffond, 1990) di Jean-Paul Charnay (cfr. ad esempio, La Stratégie, PUF coll. “Que sais-je?”, Paris, 1995), di Alain Joxe (cfr., con P. Fabbri e M. Dobry, Dissuasion infra-nulceare: Principes de dissuasion civique, Cahiers d’études stratégiques, 6, Paris, 1985, ora in italiano in Salvo Vaccaro (ed.), Oltre la pace. Saggi di critica al complesso politico-militare, Milano, Angeli, 1987); Joxe, A., Voyage aux sources de la guerre, Paris, PUF, 1991); dello stesso Lucien Poirier (cfr. ad esempio Essais de stratégie théorique, Les Cahiers de la Fondation pour les Ètudes de Défense Nationale, n. 22, Paris, 1982) o di Guy Brossolet, Essai sur la non-bataille, Paris, Belin, 1975. torna al rimando a questa nota
  15. Cfr. ad esempio Joxe, A., Stratégie de la dissuasion nucléaire, in Fabbri, Paolo, Landowski, Eric (eds.), “Explorations stratégiques”, Actes Sémiotiques, Bulletin, n. 25, Paris, Institut National de la Langue Française, 1983, p. 24. torna al rimando a questa nota
  16. Ib., p. 38. torna al rimando a questa nota
  17. Cfr. nota 1. torna al rimando a questa nota
  18. Cfr. Jean, Carlo, L’uso della forza, Roma-Bari, Laterza, 1996. torna al rimando a questa nota
  19. L’uso e l’adesione a logiche di vendetta è una delle critiche mosse da Alain Joxe alla NATO nel recente conflitto del Kosovo, al di là, ovviamente, delle responsabilità di Milosevic e della dirigenza serba: cfr. ad esempio, Joxe, A., “Représentation des alliances dans la nouvelle stratégie américaine”, Le Monde, 23 aprile 1999. torna al rimando a questa nota
  20. A proposito delle info-tecnologie – delle tecnologie di pianificazione dell’informazione e della comunicazione nelle nuove forme di conflitto (della cyberwar e dell’infowar) – cfr. ad esempio, AA.VV., Infowar, Wien – New York, Springer, 1998. Del resto, a tale riguardo, alcuni di questi autori (come ad esempio J. Arquilla) affermano che, in qualche modo, la”ciberguerra” è sempre esistita, ad esempio nell’organizzazione logistica dei dispacci presso le armate mongole. Cfr. anche, Virilio, Paul, La bombe informatique, Paris, Galilée, 1998. torna al rimando a questa nota
  21. Greimas, A.J., “La sfida”, in: Del senso 2, (tr. it.) Milano, Bompiani, 1984, pp. 205-215. torna al rimando a questa nota
  22. Poirier, cit., pp. 59-61. torna al rimando a questa nota
  23. Ibid., p. 211. Tale articolo è stato ripreso da A. Joxe come esempio di analisi semiotica di discorso strategico. torna al rimando a questa nota
  24. Cfr. ad esempio Latour, B., Petite réflexion sur le culte moderne des dieux faitiches, cit., p. 46, nota 24, pp. 82-85; Latour, B., Lemonnier, P., (eds.) De la préhistoire aux missiles balistiques – l’intelligence sociale des techniques, Paris, La Découverte, 1994. torna al rimando a questa nota
  25. Prima di Latour, André Leroi-Gourhan (Il gesto e la parola, (tr. it.) Torino, Einaudi, 1977, vol. I, pp. 168-169, 221-225) parlava, a proposito della costruzione di utensili e di armi, di “gesti ritmici”, come nel caso della sega e dell’ascia: senza poter qui approfondire, il paleoantropologo intende per gesto ritimico l’insieme e le interferenze delle azioni svolte rispettivamente da un soggetto, unito alla contro-azione di un utensile. In qualche modo un utensile si forgia per il tipo di azione per cui viene pensato, ma anche per il tipo di gesto e di ritmo che gli viene conferito, ed infine per una sorta di “memoria ritmico-gestuale” che reca impressa. Dunque, resistendo, un utensile si trasforma nella sua concezione, nel tempo, e diventa via via più specializzato per certi usi, quindi per certi programmi di azione, rispetto ad altri. Un’ascia è adatta ad una certa funzione di percussione lineare lanciata, per la sua forma, per la pietra, il bronzo o l’acciaio della sua lama, ma anche, infine, per il gesto ritmico che la muove. E un’arma nucleare o un aereo anticarro A10? Anch’essi sono dotati di evidenti programmi di azione incarnati, o meglio “incastonati” nei loro materiali: programmi d’uso a cui, naturalmente, dal punto di vista di una semiotica degli oggetti (e delle tattiche), possono essere contrapposti dei contro-programmi di azione e di contrasto (dai finti bersagli, ai disturbi elettronici, fino al programma SDI di difesa spaziale). Inoltre, le stesse armi possono produrre dei programmi di resistenza, dei contro-programmi che ne impediscono l’uso, o un uso diverso da quello per cui sono state pensate: ad esempio, certe armi possono diventare obsolete perché cambiano le situazioni d’utilizzo.
    A proposito del concetto di resistenza, esso può essere, d’altra parte, confrontato con il concetto clausewitziano di frizione. Si potrebbe, dunque, parlare di frizione, di attrito, oltre che fra materie, anche fra diversi programmi e contro-programmi narrativi messi in atto dai diversi soggetti e anti-soggetti. La guerra, in effetti, è questione di frizione fra questi diversi programmi. (Cfr., per una teoria della resistenza, anche Proust, Françoise, De la résistance, Paris, CERF, 1997; l’autrice sviluppa, da un punto di vista filosofico, da Spinoza a Kant, una teoria dell’azione a partire dall’idea secondo cui qualunque potenza, o istanza ad agire, suscita un gioco di impulsioni e repulsioni, di azioni e reazioni – frizioni e resistenze – naturalmente anche sul piano passionale; grazie a tale concetto di resistenza – non in senso banale e passivo – sul piano di una teoria della guerra, la Proust si ricollega a diverse forme di conflitto piuttosto vicine a quelle, viste sopra, di tipo “cinese” o “orientale”). torna al rimando a questa nota
  26. Cfr. le voci “Collettivo” ed “Attante”, in: Greimas, Algirdas J., Courtés, Joseph, Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, (tr. it.) Firenze, La casa Usher, 1986. torna al rimando a questa nota
  27. Cfr. ad esempio, Eco, Umberto, Lector in fabula, Milano, Bompiani, 1979. In particolare pp. 111-119, sulle “passeggiate inferenziali”, le ipotesi interpretative e le strategie che il lettore mette in atto per comprendere un testo, ma che il testo, spesso mette in atto per “resistergli”. torna al rimando a questa nota
  28. Tuttavia lo stesso Eco ha lavorato sul concetto di guerra, sottolineando come sia necessario “pensare la guerra”, oggi, in particolare dopo la guerra del Golfo, dopo le guerre nella ex Jugoslavia), ipotizzandone nuovi modelli. (Eco parla, a questo riguardo, di “neo-guerra” o guerra che procederebbe secondo un modello parallelo, di tipo connessionista, rispetto alla guerra tradizionale di tipo lineare, cfr. Eco, U., “Pensare la guerra”, in Cinque scritti morali, Milano, Bompiani, 1997, pp. 9-24; o, ancora, di modelli “para-bellici” dello scambio e della retorica sociale, come lo “stallo” o la stessa “minaccia”, esportabili cioè dalle logiche di guerra verso altri contesti di azione come l’economia o la politica). torna al rimando a questa nota
  29. Parret, Herman, “La rationalité strategique”, in: Berrendonner, Alain, Parret, Herman, (eds.) L’interaction communicative, Berne – Frankfurt/M. – New York – Paris, Peter Lang, 1990, pp. 47-69. torna al rimando a questa nota
  30. Cfr. Berrendonner, A., Parret, H., ibid., pp. 6-9, in cui si fa riferimento anche agli sviluppi della pragmatica e della linguistica americane in quanto da lungo tempo (ad esempio con autori come Grice) si sono occupate del rapporto fra norme e interpretabilità. L’altro riferimento importante è uno degli autori classici della sociologia, Erving Goffman (ad esempio in uno dei suoi saggi più conosciuti, Strategic Interaction, Philadelphia, Univ. of Pennsylv. Press, 1969), soprattutto per l’importanza attribuita ai rituali per la gestione delle situazioni in cui il rischio è quello “di perdere la faccia”, ed in cui il conflitto consiste, spesso, proprio nel negoziare i mezzi stessi di cui ci si può servire in tali rituali; laddove, come evidenzia lo stesso Parret (cit., p. 51), la “faccia” non è altro che l’immagine, l’inter-faccia pubblica, di un “sé” (sia esso individuo, gruppo o comunità). torna al rimando a questa nota
  31. Cfr. ad esempio lo studio, classico, di Greimas “Interazioni delle costrizioni semiotiche”, ora in: Del Senso, (tr. it.) Milano, Bompiani, 1974, pp. 143-159. torna al rimando a questa nota
  32. Greimas, Algirdas J., Del senso, (tr. it.) Milano, Bompiani, 1974, p. 9. torna al rimando a questa nota
  33. Ricordiamo che tale concezione ci viene proprio da uno dei fondatori della semiotica, Louis Hjelmslev (I fondamenti della teoria del linguaggio, (tr. it.) Torino, Einaudi, 1968). Sia per Greimas che per Hjelmslev il senso è allora una sorta di “nuvola” che prende forme sempre diverse nei differenti linguaggi, siano essi verbali, gestuali o spaziali. Ed è precisamente la funzione semiotica (quella che mette in connessione i due “funtivi” del piano dell’espressione e del contenuto) a determinare la forma di questa ‘nuvola di senso’. È proprio grazie a tale opposizione, lo ricordavamo sopra, che la semiotica è in grado di analizzare le articolazioni del contenuto, anche per quanto riguarda le azioni, le strategie ed i conflitti, in modo autonomo dalla loro espressione nelle diverse sostanze. torna al rimando a questa nota
  34. A questo riguardo, ad esempio Gregory Bateson in Mente e natura, ((tr. it.) Milano, Adelphi, 1984) sottolinea come gli atti stessi della percezione e della cognizione si costruiscano sempre a partire da tale atto del “cogliere differenze”. Su un’idea differenziale e costruttivista del senso e del modo di percepire il mondo che ci circonda, cfr. anche Luhmann, cit.; Watzlawick, Paul (ed.), La realtà inventata, (tr. it.) Milano, Feltrinelli, 1988. torna al rimando a questa nota
  35. A tale riguardo, per una concezione sistemica e di superamento della teoria dell’azione, facciamo riferimento ancora una volta a Luhmann, ibid.; inoltre cfr. Sciolla, Loredana, Ricolfi, Luca (eds.), Il soggetto dell’azione. Paradigmi sociologici ed immagini dell’attore sociale, Angeli, Milano, 1989; infine cfr. il classico, Crozier, Michel, Friedberg, Erhard, Attore sociale e sistema, (tr. it.) Milano, Etas Libri, 1978, in cui veniva tentata un’originale sintesi fra le due tradizionali linee di pensiero sociologico – quella durkheimiana di sistema e quella weberiana di azione – proprio a partire da una “razionalità strategica” dell’attore sociale, “immerso” nel suo specifico sistema. Per indicazioni sugli ulteriori sviluppi della teoria dell’azione cfr. Ladrière, Paul, Pharo, Patrick, Quéré, Louis (eds.), La théorie de l’action, Paris, CNRS Editions, 1993. Dal punto di vista semiotico, cfr. ad esempio, Fabbri, P., Landowski, Eric (eds.), cit.; Stockinger, Peter, “Prolégomènes à une théorie de l’action”, in: Actes Sémiotiques, Documents, n. 62, Paris, Institut National de la Langue Française, 1985; Landowski, E., Stockinger, P., “Problématique de la manipulation: de la schématisation narrative au calcul stratégique”, Degrés, n. 44, 1985; per una distinzione fra tattica e strategia dal punto di vista sociosemiotico, cfr. De Certeau, Michel, L’invention du quotidien 1: Arts de faire, Paris, Gallimard, 1980. torna al rimando a questa nota
  36. Cfr. oltre alle opere di A. J. Greimas, per una introduzione, Marsciani, Francesco, Zinna Alessandro, Elementi di semiotica generativa, Esculapio, Bologna, 1994; cfr. inoltre, Greimas, Algirdas J., Courtés, Joseph, Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, (tr. it.) Firenze, La casa Usher, 1986. torna al rimando a questa nota
  37. Per una descrizione accurata di questo modello cfr., Pozzato, Maria Pia, Magli, Patrizia, “Introduzione” a Greimas, A. J., Del Senso 2, (tr. it.) Milano, Bompiani, 1984; inoltre la voce “Percorso generativo”, in Greimas A. J., Courtés J., Dizionario, cit. torna al rimando a questa nota
  38. Cfr. Jean, C., cit., pp. 20-22. torna al rimando a questa nota
  39. Cfr. Alonso Aldama, J., Montanari Federico, L’attente de l’événement. A propos du concept d'”ultimatum”, in: Fontanille, Jacques (ed.), Le Devenir, Limoges, PULIM, 1995, pp. 77-90. L’ultimatum consiste in quella “linea”temporale “oltre” alla quale “non si torna più in dietro”: la temporalità si fa irreversibile, ed al tempo stesso si accende una sfida “passionale” con l’altro, ma anche una carica, un’intensificazione di attesa per chi lancia l’ultimatum. torna al rimando a questa nota
  40. Cfr. per gli sviluppi di una semiotica delle passioni, Fabbri, P., Pezzini, Isabella (eds.), Affettività e sistemi semiotici. Le passioni del discorso, Versus, nn. 47-48, Milano, Bompiani, 1987; Greimas, A. J., Fontanille, J., Sémiotique des passions, Seuil, Paris, 1991 (ora in tr. it., Bompiani, Milano, 1997); Fabbri, P., La svolta semiotica, Roma-Bari, Laterza, 1998, in part. pp. 26-28. Greimas e Fontanille hanno in particolare cercato di sviluppare veri e propri schemi di una sintassi passionale, così come erano stati sviluppati, in precedenza, dalla semiotica, schemi di una sintassi delle sequenze narrative di azione. Si prenda ad esempio il caso della passione della collera, studiata da Greimas (in Greimas, A. J., Del Senso 2, cit., pp. 217-238): essa sarebbe costituita da una sequenza del tipo: “frustrazione”->”scontento”->”aggressività”, i cui diversi momenti sarebbero poi, a loro volta, scomponibili in elementi sia narrativo-modali, che temporali-passionali, come i tipi diversi di attesa: da configurazioni modali come il “volere qualcosa” assieme ad un tratto di “tensione”, e da percorsi di preparazione della risoluzione di tali tensioni, più o meno frustrati. torna al rimando a questa nota
  41. Cfr. ad esempio, per un ampio studio dei processi etico-morali che portano ad aderire alle motivazioni di un conflitto, Pavone, Claudio, Una guerra civile, Torino, Bollati Boringhieri, 1991. torna al rimando a questa nota
  42. Cfr. ad esempio Joxe, A., Dobry, M., Fabbri, P., cit.; Joxe, A., “Vocabulaire des armes, phrasé militaire, langages stratégiques”, in: Signes et rhétoriques militaires, Mots/Les langages du politique, n. 51, Paris, Presses de la Fondation nationale des sciences politiques, Juin 1997, pp. 10-11.
    Arielli e Scotto, cit., p. 98, fanno invece l’esempio della classica scomposizione in fasi della trasformazione di un conflitto. Ad esempio: sviluppo, nuova fase di escalazione, deescalazione, “stand-off” (o incapsulamento), trasformazione, introduzione di intra-azioni positive, terminazione. Anche queste fasi possono essere analizzate semioticamente e considerate come diversi “atti semiotici”, scomposti in diversi programmi narrativi, in cui prevale una componente, ad esempio, di tipo emotivo-aspettuale, come l”‘attesa”, o una “escalation emozionale” oltre che pragmatica, piuttosto che una componente di tipo modale, del tipo “è necessario, si deve fare qualcosa” o, “non si può rimanere inermi” (ovvero, “non si può non fare”, accompagnato anche da una data intensificazione passionale). torna al rimando a questa nota
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