Come Deleuze ci fa segno. Da Hjelmslev a Peirce


Da: AA.VV, Il secolo Deleuziano, a cura di S. Vaccaro, Mimesi Ed., Milano, 1998.


Ho già lavorato, con amici e colleghi palermitani, sul problema delle relazioni tra filosofia e linguaggio: non tanto in direzione di una tradizionale filosofia del linguaggio quanto semmai alla ricerca di una, per così dire, linguistica filosofica. In questa direzione andrà anche il mio intervento di oggi, il cui intento è appunto quello di vedere in che modo la filosofia di Deleuze può essere letta come una linguistica filosofica, una filosofia che lavora cioè con altri mezzi, tra i quali anche quelli della linguistica e della semiotica.
Vorrei a questo proposito, a mo’ di esergo del mio discorso, ricordare subito due affermazioni di Deleuze. La prima dice: “Per chi pensa, il segno è prossimo”, e si citano subito dopo la fine dello Zarathustra di Nietzsche e il quinto libro dell’Etica di Spinoza: testi che, come tutti sappiamo, sono – insieme a quelli di Bergson – per Deleuze fondamentali. La seconda dice: “Tutto ciò che ho scritto era vitalista, spero, e costituiva una teoria dei segni e degli eventi”. Si tratta di due affermazioni che si pongono come una specie di bilancio della propria attività e che mi sembrano decisive.
Vorrei fare alcune osservazioni preliminari. Si prenda uno dei primi testi di Deleuze, Proust e i segni, dove la questione della semiotica era posta in maniera evidente come centrale per il pensiero contemporaneo. Si tratta di un libro originale, che colpì moltissimo in quell’epoca, perché portava avanti la tesi secondo la quale il romanzo proustiano non concerne affatto la memoria, dunque il passato, ma il problema del segno, dunque del futuro; tra le diverse tipologie di segni (amorosi, mondani ecc.) individuati da Deleuze in Proust, erano ritenuti fondamentali, non tanto i segni della memoria, ma i segni del desiderio e quelli dell’arte. Ricordo alcuni passi: “La vocazione è sempre predestinazione in rapporto ai segni”; “l’opera di Proust non si basa sull’esposizione della memoria ma su un apprendimento di segni”. Gli strumenti di Deleuze erano – allora – tradizionalmente filosofici, e Proust gli serviva per verificare se poteva costruire concetti. Non riprenderò dunque questa idea.
Vorrei invece tentare di valutare l’elemento altamente tipologico del trattamento dei segni da parte di Deleuze; in altri termini, mi interessa mostrare – da un parte – la sua altissima attenzione alla semiotica e alla linguistica e – dall’altra – il suo tentativo di riformulazione di tipologie segniche molto complesse in vista di una nuova problematizzazione del concetto filosofico. Prendo per questa ragione un breve saggio su Spinoza e le sue tre etiche (compreso in Critica e clinica).
Prima, però, vorrei dare una definizione della semiotica per Deleuze. In Immagine-tempo, secondo volume della sua immensa ricerca sul cinema, Deleuze parla della semiotica come di una “scienza descrittiva della realtà”. Intervenendo in un dibattito tra Eco e Pasolini a proposito dei segni cinematografici (dove Eco sosteneva che Pasolini scambiava i significati per i referenti), Deleuze sembra schierarsi dalla parte di Pasolini dicendo, appunto, che la semiotica è una scienza descrittiva della realtà. Cito testualmente: “tale è la natura misconosciuta della semiotica, al di là dei linguaggi esistenti verbali e non”. Ovviamente, Deleuze non sta pensando qui alla tradizionale semiologia generale come studio dei segni verbali e non verbali; sta pensando semmai a una specie di “trans-semiotica” come attività costante di traduzione: per Deleuze i concetti non esistono di per sé ma solo in traduzione con altri concetti; allo stesso modo, i segni e gli autori non esistono di per sé, ma solo in traduzione con altri segni e con altri autori. Da questo punto di vista potremmo dire che gli stessi Deleuze e Guattari non sono due autori ma una traduzione costante tra due autori. Per Deleuze il filosofo non può che essere un intercessore, un trans-duttore di segni, proprio perché in ogni traduzione si ha morfogenesi, incremento di senso.
Veniamo al breve testo su Spinoza, che mi sembra indicativo del modo di scrivere, di formare, di produrre concetti di Deleuze, e che si basa proprio su questa attività di intercessore e di trans-duttore. La comprensione del testo spinoziano implica e presuppone, in Deleuze, una certa idea delle relazioni tra parole e cose, e precisamente una coscienza semiotica profonda, che comporta un’adeguata conoscenza delle due grandi correnti semiotiche del Novecento: quella relativa a Hjelmslev (autore che Deleuze chiama il “cupo principe spinozista danese”) e quella relativa a Peirce, che Deleuze utilizzerà (a modo suo, come al solito) per una rielaborazione dei segni in Bacon o nel cinema.
In Spinoza, dice Deleuze, ci sono tre etiche: la prima è un’etica degli affetti (o delle affezioni), la seconda è un’etica dei concetti, la terza è un’etica delle percezioni. (Ovviamente qui si presuppongono i tre termini chiave dell’ultimo Deleuze – percetto, affetto, concetto – che qui non discuto perché per questo autore sono delle specie di primitivi epistemologici. E a me, adesso, interessa soltanto mostrare il modo semiotico di lavorare praticato da Deleuze, non i suoi punti d’arrivo.) Su Spinoza Deleuze si pone una questione fondamentale: come l’etica dei concetti, nella sua varietà, ha bisogno di un’etica dei segni nella loro specificità? come è possibile creare dei concetti di oggetto comuni? Per rispondere a questi interrogativi fondamentali, è necessario per Deleuze tentare una classificazione dei segni e degli affetti nell’Etica; così, distingue due tipi di segni: segni scalari (le affezioni), segni vettoriali (gli affetti). Deleuze fa poi una tipologia all’interno del lavoro spinoziano tra segni scalari indicativi (corrispondenti a indici), segni astrattivi (icone logiche), segni imperativi (simboli morali) e segni ermeneutici (idoli metafisici). Ogni segno è l’effetto dell’azione di un corpo su un altro corpo, quindi è affetto; e questa variazione di effetti su un corpo provoca una variazione di potenza, di sensibilità affettiva: incremento di potere (gioia), diminuzione di potere (tristezza). Questi segni vettoriali sono poi distinguibili in potenze aumentative, servitù diminutive e segni ambigui. Ogni segno è caratterizzato da collegamenti con altri segni, con principi di associabilità, di variabilità, di equivocità e di analogia. Ne scaturisce un certo imbarazzo: da dove Deleuze trae, in Spinoza, nozioni come indice, icona, simbolo, idolo? La risposta è ovvia: da Peirce, al quale si aggiunge però l’idolo. Ecco un esempio di come lavora Deleuze: opera per deformazione di categorizzazioni concettuali, idonea a sperimentare, più che a inventare, su testi filosofici. In Spinoza c’è Peirce, ma c’è anche qualche altra cosa, che non è né l’uno né l’altro ma la loro traduzione reciproca.
Sempre a partire da Spinoza, Deleuze si pone inoltre la questione della tradizionale distinzione tra segno convenzionale e segno naturale, ossia, in altri termini, il problema della arbitrarietà del linguaggio. E la risposta per Deleuze è ovvia: no, risponde Deleuze, il linguaggio non è arbitrario, per la ovvia considerazione che i segni linguistici hanno sempre a che fare con altri segni, che sono segni naturali; così, l’opposizione tra convenzionalità e naturalità dei segni è revocata da Deleuze, lettore di Spinoza, con l’idea che non esiste alcun segno arbitrario: ogni segno è traduzione di altri segni e – soprattutto – i segni rinviano sempre ai segni; insomma: non c’è alcun tipo di realtà esterna ai segni, giacché i segni sono costitutivi di oggetti e nominativi di eventi, e quindi sono essi stessi la realtà. Ogni modifica dei corpi sui corpi in quanto effetto è segno-affetto; allora non esiste alcun problema di realtà esterna dato che l’evento reale, l’effetto-affetto, è segno. Per Deleuze la grande battaglia è quella di dimostrare che non c’è alcuna opposizione tra le parole e le cose, tra i segni e le cose. In tal modo, Deleuze legge Foucault: la sola cosa che esiste è l’oggetto, creato dagli enunciati, che lo includono.
Ma torniamo ancora a Spinoza. Nell’Etica, nota Deleuze, il libro dei segni accompagna sempre il libro dei concetti. Se si accetta l’ipotesi che in qualche misura i concetti d’oggetto (ossia la definizione di “nozione comune” per Spinoza) superano la separazione tra segni (in sé imperfetti) e concetti (di per sé razionali), occorre dire che essi, i concetti d’oggetto, si costruiscono per selezione di segni affettivi: il concetto è dunque un’attività di selezione del segno-affetto, che è il suo “cupo precursore”; dunque il segno-affetto prepara ma “raddoppia” e “schiva” continuamente il concetto. “Ogni sforzo razionale è regolamento provvisorio di una lotta passionale. Le grida del libro dei segni marcano questa lotta passionale”. Deleuze ricorda a questo proposito la Proposizione 10 del V Libro dell’Etica che dice: “se non siamo tormentati da affetti contro la nostra natura, allora noi ordiniamo e concateniamo l’affezione del corpo con un ordine relativo all’intelletto”. Ecco come si forma una nozione comune: una nozione comune è possibile soltanto se noi non siamo tormentati da affetti contro la nostra natura; quindi è possibile che noi siamo tormentati da affetti contro la nostra natura, e che il grande problema sia in qualche misura questa lotta passionale. La lotta passionale è in qualche modo creatrice di concetti. I concetti sono continuamente costituiti in questa lotta di segni-affetto.
Resta a questo punto da spiegare che cosa sono questi segni scalari e vettoriali, i simboli, gli idoli, le icone etc. Per farlo, ho bisogno di tornare al problema della tipologia semiotica, e di ricordare il secondo capitolo di Millepiani. Qui c’è la storia curiosa di un professore che si chiama Challenger, tratto da Conan Doyle, il quale – dicono Deleuze e Guattari – è “doppiamente articolato”. La metafora a esso associata è quella di in un grosso gamberone, esposto in una fotografia, con due pinze. Da dove estrae Deleuze questa nozione di doppia articolazione e questa figura del gamberone con le doppie pinze? La risposta è sempre nello stesso libro, dove si legge del “geologo danese spinozista Hjelmslev, cupo principe discendente da Amleto, che si occupava anche lui di linguaggio appunto per estrarne la stratificazione”. Tutta la teoria degli strati di Deleuze ha come punto di riferimento l’autore dei Prolegomeni di una teoria del linguaggio, Louis Hjelmslev, che per Deleuze è essenziale perché rompe definitamente con la distinzione psicologistica saussuriana tra significante e significato, sostituendo a essa la ripartizione tra materia, sostanza e forma in relazione sia all’espressione sia al contenuto. Per Hjelmslev, come tutti sappiamo, non ci sono forma e contenuto; ci sono una forma e una sostanza dell’espressione, e ci sono poi una forma e una sostanza del contenuto; le quali si formano in relazione a una materia dell’espressione e una materia del contenuto.
Se non si ha chiara quest’impostazione hjelsmleviana dell’opera di Deleuze, non si ha chiara, a mio avviso, l’intera sua opera, che dal linguista danese prende le mosse. Non si capisce per esempio tutta la polemica di Deleuze e Guattari contro la semiologia a favore della semiotica, contro la linguistica a favore della glossematica, contro un certo tipo di rappresentazione concettuale (referenzialista e psicologista) a favore di un altro tipo di rappresentazione concettuale (immanentista e molecolare). Basta vedere i primi capitoli di Millepiani: se il primo si chiama non a caso “La geologia della morale”; il secondo si intitola “Per qualche tipo di regime di segni”; e se nel primo l’idea delle stratificazioni geologiche è ripresa dalla linguistica hjelmlesviana, nel secondo si mantiene la nozione di segno solo all’interno di questa geologia glossematica.
Per queste ragioni la disciplina rizomatica del professor Challenger (alias Deleuze e Guattari stessi) viene detta stratoanalisi, nomadologia, micropolitica, pragmatica o scienza delle molteplicità: si tratta di un uso cinico dei concetti altrui, “alle spalle dei bambini”, quasi sempre aborti, avvitamenti, rappezzamenti o stupide volgarizzazioni. Per comprendere, in questa impostazione, il ruolo della stratificazione bisogna pensare alla distinzione tra materia e sostanza, e pensare una sostanza dell’espressione e una sostanza del contenuto. Per Deleuze non si tratta di compiere un’analisi linguistica, e non si tratta di un’opposizione tra parole e cose. La semiotica deleuziana, allora, non è una disciplina che studia i segni indipendentemente dal reale: è una disciplina che studia non la materia, non l’espressione pura dei segni, bensì l’articolazione tra la forma (il diagramma del reale, l’organizzazione dell’esperienza) e la sostanza in quanto materia predestinata alla formazione. Per Deleuze, come per Hjelmslev, la materia non è un insieme caotico di elementi e di tratti; ma è un qualcosa che diventa sostanza solo in quanto formata. Pensiamo per esempio al rumore: il rumore è materia che può diventare sostanza a seconda dei diversi modi di formazione a cui è soggetto; esso è materia in modo, per così dire, astratto, ma è sostanza ora del linguaggio ora della musica; il medesimo rumore (la medesima materia) è al tempo stesso una diversa sostanza a seconda se si rende pertinente la formazione linguistica o quella musicale. Così, il passaggio da materia a sostanza diventa un problema di azione di istanze: una istanza materiale che trasceglie nella materia generale alcuni tratti – cioè un piano di consistenza, un diagramma -, che preleva sulla complessità caotica della materia un certo numero di elementi che restano sostanziali.
è necessario dunque postulare un’istanza che preleva da punti di vista, di interessi e di effetti diversi sulla materia, alcune caratteristiche che la trasformano. Si veda il caso della sostanza linguistica: è possibile operare attraverso la percezione, catalogando il rumore a livello uditivo, o catalogandolo a livello emissivo. Si ha una idea articolata del suono, oppure acustica, prelevando i tratti a livello ricettivo. Si hanno due modi di istanza rispetto alla sonorità, una ricettiva e l’altra emissiva. La materia sonora presuppone allora delle istanze che la trasformano in sostanza: e questo è il minimo epistemologico che bisogna postulare.
La seconda postulazione di Deleuze è la distinzione tra forma dell’espressione e forma del contenuto, analoga alla distinzione tra sostanza dell’espressione e sostanza del contenuto. Relegando di lato ogni semiologia, ogni linguisticismo, Deleuze introduce la sostanza all’interno non solo dell’espressione delle cose (immagine, linguaggio ecc.), ma introduce la problematica della relazione forma/sostanza anche sui contenuti; la semantica è una forma organizzativa del contenuto che opera sulla sostanza, cioè sulle nostre relazioni culturali, fisiche, percettive, affettive, concettuali. Così, ci si libera del privilegio secondo il quale la linguistica codifica in maniera decisiva tutte le esperienze semiotiche; se c’è una forma dell’espressione e una forma del contenuto, è evidente che la forma espressiva è un diagramma simile che può attraversare differenti tipi di sostanza. Può dunque esserci una sintatticità che si trova nel linguaggio, ma anche una sintatticità nel cinema, nella pittura e così via.
Ecco perché Deleuze, e non a caso, fa una gigantesca tipologia dei regimi segnici visivi, in Bacon ad esempio, o delirando Peirce nella ricerca sul cinema, dove distingue articolandole le immagini-percezioni (dicisegno, reuma, gramma o engramma), le immagini-affetto (icona, qualisegno, dividuale), le immagini-pulsione (sintomo, feticcio) le immagini-azione (sinsegno, binomio, impronta, indice, vettore), le immagini-trasformazione (figura), le immagini-mentale (marca, simbolo, opsegno, suonsegno), modificando così il concetto di primarietà, secondarietà e terzietà in Peirce.
Deleuze riteneva che era possibile costruire sistemi interdefiniti, al di là della fuga nomadica. Non a caso, alcune di queste articolazioni – vettorialità, scalarità, icona, indice etc. – erano rintracciabili anche negli studi su Spinoza, dove non si fa altro che trasferire le categorizzazioni sui regimi segnici relativi al cinema nei testo filosofico, ma dove altresì diviene significativo comprendere il cinema solo dopo aver compreso Spinoza e Peirce. Così, non è possibile comprendere Deleuze se non si leggono contemporaneamente gli studi su Spinoza e quelli sul cinema quelli su Proust e quelli su Bacon: Deleuze non fa altro che tradurre, e tradire, le categorie estratte da un testo in altri testi, e così incessantemente; non è possibile parlare, poniamo, di Deleuze e il cinema se non si leggono i suoi studi su Spinoza, così come non si comprenderà la storia della filosofia secondo Deleuze senza considerare il modo in cui egli tratta la pittura e il cinema, la letteratura e la musica.
Studiare Deleuze è possibile solo con un’idea di doppia articolazione. Non c’è alcun valore intrinseco, ma tutti i valori sono in traduzione fra almeno due facce, fra due strati, fra due elementi. Deleuze stesso offre un esempio di doppia articolazione tra la forma dell’espressione e la forma del contenuto nel secondo capitolo del suo Foucault. Per Deleuze esiste una forma espressiva, che si chiama prigione, e una forma del contenuto, che si chiama delinquenza; la criminalità è comprensibile da una forma espressiva, da un diagramma che la organizza, traducibile però anche in altre forme espressive, oltre la prigione: il monastero, la fabbrica, il manicomio, la scuola, ecc. che hanno la funzione di organizzare una “forma del contenuto” che si chiama appunto criminalità, ovvero la marginalità. Foucault va riletto, secondo Deleuze, in quanto organizzatore di una forma diagrammatica che a sua volta ha la funzione di organizzare i tipi di illegalismi di una data epoca.
Non si tratta quindi di parole e di cose distinte, ma di un’organizzazione dell’esperienza in diagrammi: la prigione nella sua fisicità, ma anche i regolamenti interni a essa, e tutti organizzano la criminalità. Ecco perché non c’è opposizione tra cose e parole: il solo problema sono gli oggetti; gli oggetti sono centrali nell’analisi, in quanto sono simultaneamente costruiti da pezzi di parole, di gesti, di affetti, di concetti etc.. Tutto ciò forma un piano di materia organizzato in un certo modo. Da questo punto di vista il riferimento di Deleuze a Foucault è fondamentale.
Dice Foucault nell’Archeologia del sapere: “Vogliamo davvero sbarazzarci delle cose”, ma, potremmo aggiungere, vogliamo al contempo liberarci delle parole. In questo libro Foucault supera esplicitamente la dicotomia posta altrove, per esempio nella Storia della follia. Non si tratta più, sostiene adesso Foucault, di fare una storia del referente (la follia realmente vissuta) alla quale magari accompagnare una storia delle parole (il discorso sulla follia. Adesso il problema è quello del regime di oggetti che sta intorno alla follia, oggetti che – come il caso della prigione-espressione e della criminalità-contenuto – sono contemporaneamente parte del reale e parte del discorso. Gli oggetti sono la sostanza comprensibile dalla forma. Dicendo “oggetti”, sia Foucault che Deleuze vogliono dire sostanze formate. Scrive Foucault: “Gli oggetti sono al tempo stesso reali e discorsivi. Contro la semiotica linguistica, che darebbe il senso di un termine alla struttura semantica della parola prigione in una epoca, ci sono delle pratiche discorsive costitutive di oggetti, in cui i discorsi coinvolgono delle proairetiche, cioè eventi-azioni”. Siamo quindi contro la semiologia, che studia i discorsi e i segni separatamente, e per la semiotica, che studia l’articolazione delle forme e delle sostanze dell’espressione e dei contenuti.
Questa ipotesi secondo la quale esistono contenuti formati precedenti alla distinzione tra parole e cose appare importante anche nel lavoro sul discorso filosofico (ma anche del discorso letterario, estetico, cinematografico etc.). Si tratta, dice Deleuze, di tornare a una “noologia prefilosofica”, ossia alla possibilità di avere immagini di pensiero che precedono la loro manifestazione segnica concreta. In altri termini, ci può essere filosofia in Spinoza come in Bacon, in Nietzsche come in Proust, a prescindere dalla sostanza e dalla dell’espressione che ognuno di essi usa per praticarla in concreto.
Per fare un esempio celebre di una immagine di pensiero praticata da deleuze, ricorderei l’idea secondo la quale l’erba non cresce a partire dalla punta o dalla radici ma dal centro. Dietro questa immagine, in apparenza incongrua, c’è un modo particolare di pensare lo sviluppo delle cose; è l’idea dell’Aion stoico, in cui la crescita del passato e del futuro si fa a partire dal presente. L’idea di Deleuze è che il concetto di Aion in qualche modo deriverebbe da una esperienza del modo di veder crescere l’erba; nel senso che il concetto di Aion sarebbe in isomorfismo con la forma organizzativa del contenuto dell’immagine di pensiero dell’erba che cresce dal centro. L’erba che cresce dal centro e il passato e il futuro che si dispiegano a partire dal presente sono due modi diversi di rendere concretamente la medesima forma di pensiero. è possibile pensare il tempo o dalla radice (passato), o dal punto in cui si trasforma in futuro, oppure dal centro in cui noi ci poniamo, pensando simultaneamente passato e futuro.
Così, in generale, l’attività letteraria di Deleuze è proprio quella di cercare di riconoscere dentro la letteratura le immagini di pensiero che fondano la filosofia, ossia quell’insieme di affetti-segni che permettono, con un enorme lavoro di selezione, di costruire quella cosa improbabile e sempre instabile che è il concetto. Il concetto è il momento instabile in cui si operano delle selezioni soggette ad accesa lotta.
Al di là del grande lavoro sulla letteratura, perché la passione deleuziana per l’immagine? L’immagine serve a Deleuze a provare la possibilità di una semiotica – scienza descrittiva della realtà, realtà degli oggetti, non delle cose – applicandola a un campo in cui la linguistica non ha peso. Deleuze qui incontra la semiotica di Peirce, incontro molto diverso da quello che per esempio ha avuto Eco. Eco legge Peirce in modo aristotelico: c’è un segno, poi ce n’è un altro e sui passa dall’uno all’altro attraverso vari tipi di attività inferenziali: induzione, deduzione e abduzione. Ma che cosa inquieta invece Deleuze studiando Peirce? Non tanto i rinvii tra segno e segno, perché per Peirce i segni sono monoplani, cioè segni unici, mentre per Deleuze sono almeno doppiamente articolati. Certo, ogni significato si fa nel passaggio tra segno e segno, tra oggetto e oggetto quindi. Deleuze ne fa una tipologia complessa: regimi presignificanti, significanti, postsignificanti, controsignificanti; tipologie di trasformazione di segno (analogiche, simboliche, strategiche, mimetiche, diagrammatiche); componenti circolari rizomatiche (generative, trasformazionali, diagrammatiche, macchiniche). C’è insomma in Deleuze una produzione concettuale e insieme semiotica assolutamente ridondante, che pone però straordinari effetti di senso; una sperimentazione concettuale che è insieme sperimentazione testuale.
Ma che cosa intende Deleuze per sperimentazione concettuale quando parla di immagine? Cito: “La forza di Peirce quando inventò la semiotica fu di concepire i segni a partire dalle immagini e dalle loro combinazioni e non in funzione delle loro determinazioni linguistiche”. In altri termini, il problema che Deleuze ritrova in Peirce è quello di parlare di immagini senza passare per la forma delle parole; di studiare le immagini a prescindere o, per così dire, prima della loro determinazione lessicale. Come costruire una semiotica dell’immagine che non passi attraverso l’indicazione lessicografica? è per questo che Deleuze fa saltare la contrapposizione tra digitale e analogico, tra immagini che si basano su una somiglianza con le cose (analogiche) e immagini che si fondano su codici culturali predeterminati (digitali). A questo proposito Deleuze nota tre tipi di codici: una combinazione intrinseca di elementi astratti; un’idea di codice che produce messaggi in qualche modo isomorfi al codice che li ha prodotto; una modifica dei tratti di reale in funzione della loro riproduzione.
Il computer, ad esempio, costringe a modificare la scrittura di ciascuno per adeguarla alla sua scrittura vincolante: la codifica produce una somiglianza per poter codificare. In questo caso, non siamo di fronte a un’opposizione digitale/analogico: a forza di digitale, il codice ha prodotto una analogia con la realtà stessa.
Alcune analogie sono figurative, altre no, sostiene Deleuze; una mappa diagrammatica, rispetto a una città, è altamente codificata e astratta, ma anche le somiglia. Il diagramma è un luogo di codificazione analogica, è un codice che somiglia. Davanti alla forza concettuale del filosofo che prende in mano concetti malfatti, la filosofia produttivamente può trasformare la differenza concettuale e la ridefinisce nei propri termini.
In conclusione, abbiamo il tentativo deleuziano di ridefinire la tipologia di Peirce. Come sappiamo, i segni sono definiti da Peirce nella loro dipendenza da tre grandi categorie: primarietà, secondarietà e terziarietà. Deleuze trasforma, forzandoli leggermente, i concetti di Peirce: la primarietà diventa percezione, la secondarietà azione-affezione, la terziarietà in concetto. Ecco quindi: percetto, affetto, concetto. Ciò gli consente di riformulare la propria problematica, aggiungendo altri livelli; da cui: un’immagine-percezione, un’immagine-affezione, un’immagine-pulsione, un’immagine-azione, un’immagine-riflessione e un’immagine-relazione. Peirce viene riscritto su base filosofica dal dispositivo deleuziano, che ne risulta a sua volta amplificato. Dal suo canto, Deleuze se ne serve per una storia concettuale del cinema; ma d’altra parte il cinema gli restituisce spunti teorici che la filosofia tradizionale, o la semiotica stessa, non offre.
Il discorso libero indiretto, mutuato dall’opera di Pasolini, è una ossessione fissa di Deleuze nel transitare tra gli ambiti disciplinari. Infatti è il cinema a suggerirgli che non si tratta solo di pensare all’immagine, ma al punto di vista sull’immagine; in tal modo l’immagine è sottoposta a principi di enunciazione, non comparabili al linguaggio ma in qualche modo specifici. C’è una sorta di pronominalizzazione dell’immagine, che nulla a che fare con quella linguistica se non per un generale isomorfismo profondo.
Deleuze coglie un’idea curiosa di Pasolini (che non a caso era un filologo): quella del discorso indiretto libero, nel quale rintraccia l’indecidibilità del punto di vista sulla soggettività. Il discorso indiretto libero si ha per esempio quando dico: “Paolo e Franco sboccarono nella pianura. Oh come era bella!”. Dobbiamo chiederci: chi parla nella seconda frase? Paolo e Franco? l’autore in terza persona? Non si sa. Nel linguaggio accade dunque che esistano delle istanze, provvisoriamente chiamate “discorso indiretto libero”, che sembrano stilistiche, ma che sono combinazioni di organizzazioni di punti di vista in cui non è decidibile se sia in prima, seconda o terza persona. Scherzando su Ferlinghetti, Deleuze diceva: la quarta persona del singolare. Dall’interno del discorso filosofico deleuziano, si riaffaccia la inassegnabilità della soggettività produttrice del discorso filosofico. Il discorso filosofico spesso è un discorso indiretto libero, in cui nello stesso tempo il soggetto enuncia, ma non a partire da una soggettività costituita, e neanche da un’impersonalità definita, ma da una posizione indiretta libera.
Questa pratica del discorso indiretto e libero è la modalità con cui parla la filosofia, al quale la semiotica ha dato un lume non di poco conto.

Print Friendly, PDF & Email

Lascia un commento