Demolizioni/Ricostruzioni


Da: Engramma, n. 131, dicembre 2015 (online).


 

“le rovine lasciate (…) non sono mai state completamente distrutte, ma restano al loro posto, quasi a gridare che sono state conservate come monito per le generazioni future”
(Giovanni Crisostomo)

1. Delenda Palmyra

In tempo di guerra la Storia non fa troppe storie e lascia molte scorie. Il Califfato pan-islamico salafita e jihdaista ha investito Palmira ed ha lasciato un segno rovinoso sui monumenti della città, tra i meglio preservati, con Efeso e Pompei, dell’antichità greco-romana. Le immagini ricorsive di distruzioni urbane e di esecuzioni capitali hanno invaso la mediasfera e si sono aggiunte all’agenda dei nostri spaventi. Dissipato il fumo delle esplosioni che hanno parzialmente distrutto i templi di Baalshamin e quello di Bel, non si è dissolta la caligine di una guerra politica e confessionale la cui prima vittima è la verità. Nonostante l’overdose spettacolare di crolli e di truculente uccisioni, non è facile orientarsi nei cantieri del senso tra omissioni politiche ed eufemismi religiosamente corretti. Con gli occhi velati dal lutto culturale (un “crimine intollerabile contro la civiltà”, I. Bokova, Unesco) è arduo vagliare le affermazioni dogmatiche, le intimidazioni tattiche, le citazioni e le provocazioni. Riceviamo le immagini iconoclaste di musei devastati (Mossul) e le minacce rivolte a luoghi come Hatra e Nimrud, al museo del Saladino di Damasco, alle porte di Ninive o al leone di Palmira (Matthiae). Insieme a dichiarazioni d’intenti non sempre compatibili. Il comandante dell’ISIS, Laith al-Saudi, annunciava per radio la sorte riservata a Palmira: “Per quel che riguarda la città storica, la preserveremo. Ciò che faremo invece sarà polverizzare le statue dei miscredenti che hanno pregato lì”. Rieccheggiando le parole del Mullah Omar dopo la distruzione talibana dei Buddha di Bamyan, già sfacciati dagli Abbassidi: “Sono soltanto sassi!”. Ma allora perché distruggerli, quand’è fiorente il mercato dell’archeologia che i governi europei tentano invano di regolare?! A meno che l’iconoclastia delle copie e non degli originali sia sufficiente per l’efficacia semiotica della comunicazione.
Le rovine di Palmira sono diventate intanto il set fotogenico di esecuzioni di massa, luogo cerimoniale di giudizio, dove giovanissimi adepti sacrificano nemici “apostati” o si espongono corpi suppliziati, come quello del conservatore dei monumenti di Palmira. Tragiche pantomime per fare il pieno di forze mistiche e attrarre i volontari di un riarmo politico e confessionale? Fatti terribili a cui non si può rispondere con frasi fatte.
Delenda Palmira? Non sarebbe la prima volta. Il tempio di Bel aveva già subito la devastazione dei soldati romani di Aureliano e l’iconoclasmo dei bizantini prima e degli arabi poi.

2.1. Vandali o Iconoclasti

Nel generale inquinamento delle news si moltiplicano le dichiarazioni di assurdità e le accuse di follia. Guardiani e vestali della ragione – cha ebbe il suo Tempio ai tempi rivoluzionari del Terrore – reagiscono con indignazione allo sfregio e al dispregio della tradizione culturale e del Cultural Heritage. Opponendo il Cogito – che si enuncia alla prima persona del singolare! – al Credo – che è alla prima del plurale e soprattutto dimenticando che la nozione di un valore eucumenico di alcuni beni storici ed artistici è recente e non del tutto condivisa. E’ giocoforza constatare inoltre che la protezione di questi beni funge da bersaglio per un’ affermazione provocante di sovranità qual è quella dell’ISIS. (“La world heritage è un’ambulanza che segue un esercito e tenta di precederlo”, Gamboni).
Un conflitto spietato che mira a redistribuire un’eco-sistema politico e religioso dà luogo ad un surrriscaldamento semantico, passionale e culturale. Meglio evitare quindi le tirate edificanti del “dialogo delle culture,” teologia civile che fa da contrappunto alle guerre cosiddette umanitarie. Un dialogo con se stessi, a conferma della massima per cui l’etnocentrismo è il più diffuso degli atteggiamenti. Per contro, in queste condizioni estreme possiamo scovare qualche impensato delle nostre concezioni del mondo. Se non si nascondono i problemi sotto tappeti di bombe “intelligenti” e si trasformano le affermazioni perentorie in domande sulle zone d’ombra degli “illuminismi”. E’ legittimo chiedersi se addebitare al religioso i problemi politici a cui non si sanno o non si vogliono dare soluzione politiche: come i Talibani nel caso dei Buddha di Bamyan, gli adepti dell’Isis rispondono infatti con la distruzione simbolica al rifiuto del riconoscimento istituzionale. E giusto domandarsi se le riserve fossili del Medio Oriente siano state difese più e meglio dei monumenti e dei musei da chi crede più ai pozzi petroliferi che ai giacimenti culturali.
Inoltrandoci nella “flora dei sensi vaghi”, premettiamo che gli iconoclasti del tempio di Bel – che disapprovo in toto, senza lacrime agli occhi – non sono Vandali. Il vandalo nell’accezione contemporanea è il deprecabile protagonista di saturnali diurni e sabba notturni contro il patrimonio monumentale e naturale, l’arte e la storia. Ma cosa accade in tempo di guerra, quando la spada taglia gli attachment del legame sociale? La distruzione non è danno collaterale ma il prodotto centrale del conflitto armato, soprattutto al momento del collasso di uno dei contendenti. “Predare” deriva da “prendere” e la preda è una presa di guerra: non mancano gli sciacalli e le iene quando l’uomo diventa lupo per l’uomo. Ma se un museo contiene arte di regime, se i reperti archeologici sono presentati -con restauri talora vandalici- come documenti d’una memoria nazionale imposta dal potere, che farà il cd. vandalo che combatte quel regime? Comincerà con l’iconoclastia dalle statue pubbliche e proseguirà con quelle dei musei!
L’iconoclasta, non il vandalo, è uno stratega esperto nei simboli propri e in quelli dell’avversario. Se rade al suolo parte del tempio di Bel è per colpire il nemico – colonialista, crociato e via dicendo- nella zona intensa dei suoi valori e per provocarlo sul proprio terreno. Ma anche per affermarsi come il più intransigente ed credibile rispetto ad altri gruppi politici della jihadosfera, concorrenti nella raccolta di fondi, nel reperimento di appoggi e nel reclutare adepti: come i kamikaze, armi letali e officianti di culti mortali più che di riti confessionali. Nell’antico teatro di Palmira si sono svolte rappresentazioni atroci di esecuzioni collettive, mentre il museo archeologico è impiegato come tribunale e prigione.
In ogni guerra i contendenti si scambiano le armi, così come Amleto e Laerte la spada avvelenata. E le conoscenze: il “fondamentalista islamico” – frase ormai fatta – si è fatto competente nella grammatica dei simboli occidentali. Fuori dall’esotismo a buon mercato, siamo certi di poter dire lo stesso?
Ad un calcolo di sinistra efficacia sembra dimostrato che per l’opinione pubblica occidentale, toccata nel vivo, le immagini dell’attentato al tempio di Bel non siano uno svago nomade nei media, depliants d’un’agenzia viaggi. Anche per il turista, che non sapeva di essere un iconolatra, il monumento trova una risemantizzazione e una rivalorizzazione che va ben oltre lo stadio narcisistico del bisogno di comunicazione.

2.2. Il Militante e la Rovina

Il “soldato dell’Isis” non è solo un combattente – che può essere mercenario – ma il credente in un sistema di segni religiosi, politici e normativi. Una gerarchia semiotica fondata su un monoteismo rigoroso a cui la connessione di trascendenza e verità dà le caratteristiche di una contro-religione (Assman). Il fascino indubitabile di questa rigida sintassi religiosa opera come una conversione e si oppone alle assimilazioni culturali. Lo zelota, pur con la sua violenza e la miope fedeltà, non ha credenze ingenue: “i fervidi credenti non sono tonti” (Latour). Cerca una differenza di significato e la trova nell’opposizione, nell’alterco con l’altro; vede il concorrente e l’avversario unicamente come nemico. L’overdose di verità lo dispone all’utopia e lo chiude all’esperienza (è la differenza tra il Militante e l’Attivista). La demolizione del passato pagano di Roma preannuncia al fanatico la costruzione di una comunità a venire; il kamizaze diventa martire di un mondo puro e futuro. Vivere e morire diventano le citazioni non adulterate dei testi sacri. O le riaffermazioni di una fede che si sente in pericolo?
Per questo P. Veyne ha insistito invece sulla religione aperta e sincretica di Palmira, ibrida Venezia delle sabbie, nei primi secoli della nostra era; sul suo multilinguismo, sulle lunghe liste dei suoi traducibili dei; contro le religioni missionarie e trans-etiche dell’unico dio.
Può sembrare paradossale che i militanti dell’Isis, giungano dai loro santuari militari, non per lo scempio d’un tempio intatto – com’era il caso della moschea di Babri in Ayodhya, da parte di militanti hindu – ma per ridurre in macerie delle rovine (Augé). Le quali non sono relitti reietti, ruderi senza memoria, ma “semiofori” densi di significato e d’ammonimento, monumenti che la cultura occidentale vorrebbe universali. La rovina infatti “non è l’informe ma un’altra forma significativa, intelligibile ed autonoma” (Simmel), come le mutilazioni delle statue. Per “il sacro incanto che le circonda”, “i luoghi che sfuggono alla vita agiscono su di noi come l’ambito di una vita” (Simmel). Di conseguenza… “la degradazione prematura d’un monumento da sempre l’impressione d’un intervento brutale, arbitrario, vano, e quindi sgradevole, anche se è provocato dalla natura e non dall’uomo” (Simmel). Le rovine contemporanee, difese dall’Unesco, non hanno più la connotazione romantica di un memento mori individuale (Chateaubriand si definiva “un edificio caduto… un palazzo crollato e ricostruito con le sue rovine”) o la stimmung di una caducità della cultura davanti agli entropici poteri della natura. Sottratte al ciclo della creazione e distruzione, le rovine, feticci a cui rendiamo culto, sono luoghi intenzionali e perenni, scelti in un passato rispetto al altri tempi possibili e mantenuti in un determinato stato del loro declino (Riegl). (La sola consunzione a cui sono esposte è quella del consumo culturale e turistico). Per M. Augé non sono un passato storico ma un falso luogo, irrigidito nel tempo. Tuttavia proprio il modo di abbattere e risollevare (anastilosi e “cata-stilosi”) che scompagina e reimpagina la memoria — non lascia intatto il suo oggetto, né gli investimenti di valore. Al di là dell’abbandono e della cura, è all’opera la divergenza trasformativa delle assiologie.

3. Palmyrenicus maior

Manar Hammad è architetto e archeologo, ma soprattutto un semiologo, amico di oggetti interpretabili. Non si serve di passpartout teorici e di esemplificazioni: entra nel concreto e nel vivo del suo corpus. Legge con lenta cura l’enunciato architettonico del tempio sinistrato secondo le forme significative – le isotopie – e le pratiche rituali che mettevano in comunità gli uomini e gli dei. Una topologia e una liturgia che ci testimoniano un’autentica “arte del collettivo”. Dimostra come la costruzione del Tempio abbia riposizionato l’intera città di Tadmor-Palmra. Accompagna l’analisi dei luoghi e dei percorsi con le ipotesi ricostruttive che i semiologi chiamano catalisi. Non si limita però a riconoscere la stratificazione del Tempio: religiosa – la compagine semita ed ellenica del pantheon – politica e militare. Spiega in modo persuasivo come la spianata del tempio sia scampata per ragioni di salienza architettonica e pregnanza culturale all’attuale demolizione. Ricorda, nella sua introduzione, che il Tempio di Bel era stato trasformato per secoli in grande moschea e che l’attuale compagine urbanistica della città è il risultato degli “sventramenti” condotti manu militari dal protettorato francese nel 1929. Isolando il Tempio e radendo al suolo il “tessuto minore e interstiziale” si trasformò Palmira nella “Tracia di Roma nel deserto della Siria”. Un trauma tuttora vivo nella memoria che testimonia la modalità “vandalica” dei restauri che ha conosciuto la città di Roma nel periodo delle demolizioni littorie. Gli abitanti di Palmira ne hanno tratto da allora conoscenza e tornaconto, ma sarebbe troppo da contare sui militanti dell’ISIS.
Ricostruendo semioticamente il Tempio di Bel, Manar Hammad ci restituisce, con scientifico distacco, il dolore di un arto fantasma, un’amputazione segnata nel museo immaginario di molti, se non di tutti. (D’altronde cosa saremmo senza il soccorso di quel che non esiste più?) Rintracciando e districando il tessuto urbano dell’antica Tadmor, Hammad segna in calco la parte abbattuta del tempio e la scampa dall’oblio. “Quando un edificio non esiste più il luogo su cui sorgeva conserva nelle mappe mentali delle persone la stessa capacità di provocare il ricordo di certe immagini”, scrive M. Carruthers sui pellegrinaggi a Gerusalemme dove il reale è attività della memoria. L’oblio è una variante del ricordo – prenderne coscienza è già rammentare – e non si ottiene con la rimozione violenta ma con la ricollocazione in un nuovo racconto, in un’altra scena. Grazie ad Hammad, Palmirenicus maior, riconosciamo la relativa futilità delle politiche di distruzione, anche se la spada di Damocle continua a minacciare il filo d’Arianna indispensabile nel labirinto siriano.
Obliterare lascia contrassegni. Necessari per comprendere le sorgenti del fanatismo e dell’odio nell’iconoclastia nelle culture attualmente in confronto e in conflitto. E per autorizzare la speranza, se non la fiducia, che additarne i congegni ne riduca almeno la sanguinosa efficacia. Civiltà è coesistenza delle culture a rischio di uniformità e disincanto. Comprendere e implementare questa esigenza, anche tragica, di differenza è il più sentito omaggio al memorabile Tempio di Bel e a Palmira.


Bibliografia

J. Assman, Non avrai altro dio, Il Mulino, Bologna, 2007 (2000).

M. Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino, 2004 (2003).

M. Barbanera, Metamorfosi delle rovine, Electa, Milano, 2013.

M. Carruthers, Machina memorialis, Ed. della Normale, Pisa, 2006 (1998).

P. Fabbri, “Intraducibilità di una fede a un’altra”, in Elogio di Babele, Meltemi, Roma, 2003.

P. Fabbri, “Iconoclastia”, “Kamikaze”, “Vandali”, in Segni del Tempo, Meltemi, Roma, 2004.

D. Gamboni, “Image to Destroy, Indestructible Image”, in Iconoclash: Beyond the Image Wars in Science, Religion, and Art, a cura di B. Latour, P. Weibel, Cambridge, Mass. et Londra, MIT Press, 2002.

M. Hammad, Palmyre : transformations urbaines, Geuthner, Paris, 2010.

B. Latour, “Che cos’è Iconoclash?”, in AA.VV., Teorie dell’immagine, R. Cortina, Milano, 2009.

P. Mattiae, Distruzioni saccheggi e rinascite, Electa, Milano, 2015.

A. Riegl, Il culto moderno dei monumenti, Abscondita, Milano, 2011 (1903).

S. Settis, Futuro del “classico”, Einaudi, Torino, 2004.

G. Simmel, “La Rovina”, in Saggi sul paesaggio, Armando, Roma, 2006 (1907).

J. Starobinski, La scoperta della libertà, Skira, Fabbri, Milano, 1965 (1964).

P. Veyne, Palmyre, L’irremplaçable trésor, Albin Michel, Paris, 2015.

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