Da: Catalogo della mostra Parole da vedere, Galleria Di Maggio, Milano, 7 Maggio 2006.
Il materiale originario della poesia non è la parola, ma la lettera
(K. Schwitters)
Grammatologie
Alla domanda: “cosa dice la poesia?” la prima risposta sta sulla punta d’ogni lingua: “la poesia dice quel che dice, dicendolo”. E dopo un’attenta osservazione dell’opera di Nanni Balestrini, possiamo precisare: “La poesia dice quel che vede, vedendolo”.
È la sorte comune delle avanguardie del ‘9001. Dopo la scossa prosodica del verso libero, dopo il sussulto grafico di Mallarmé (“Jamais un coup de dès…”) e la rivoluzione tipografica dei Futuristi e dei Dadaisti, la poesia si è trovata ad un trivio: esplorare le vie della sonorità musicale o battere il territorio dell’immagine. Oppure, come Balestrini, affrontare l’originalità semiotica della scrittura.
Ogni segno è arbitrario, ma i caratteri della scrittura fonetica tendono naturalmente a diventare ideogrammi, come le abbreviazioni o le sigle. “Il vocabolo scritto si mescola col suono così intimamente da usurparne il ruolo” (Saussure). È enunciabile visivamente, ma non pronunciabile. Non vanno confusi infatti i numeri con le cifre, i nomi con le firme e neppure i suoni con le lettere. La lingua non preesiste alla scrittura, la quale ha forme e forze espressive proprie che strutturano le lingue naturali. I segni scritti sono sincretici: integrano gli aspetti manuali, visivi e orali della comunicazione. L’attività tipografica non è semplice notazione fonetica, è trascrizione visiva.
L’opera di Balestrini si inserisce in questa evoluzione “a-parallela” tra la lingua, mobile ed evolutiva, e il codice stabile della scrittura: vuol mettere in moto la lettera per creare composti mai veduti e farle notare parole inaudite e impronunciabili. La sua è l’attività libera di un grammatologo che si esprime per logogrammi, icone grafiche agenti e ricombinanti. Un procedimento inverso a quello che R. Queneau – pittore e poeta – riconosceva in J. Mirò: estrarre dall’immagine figurativa gli elementi semplici, i “miroglifici”, da combinare in un nuovo testo visivo.
Eterografie
L’attività poetica di Balestrini inverte ironicamente il noto incipit di Montale “Non recidere forbice…”. Il suo intento è proprio incidere il corpo del testo, poi della lettera, in un percorso che lo ha portato gradualmente ad uscire da quel modello del libro a cui è legata la sua lunga esperienza editoriale.
Per alcuni disegnare è sciogliere la linea della scrittura per riannodarla altrimenti, per altri è necessario tagliare e incollare, staccare e giustapporre. Per W. S. Borroughs, scrittore (e per Bryon Gysin, pittore), la pratica del cut-up era un “metodo impersonale di ispirazione”, applicabile alla letteratura, al cinema e alla musica, e un modo di appropriazione soggettiva della tradizione artistica: “la poesia è per tutti” (Tzara). Da Borroughs (“cut the word lines and you will hear their voices”) a J. Kossuth, la forbice generalizza questo procedimento ad ogni scrittura. Balestrini lo ha esteso ai linguaggi quotidiani e metalinguistici, alle scritte cubitali e alle immagini qualsiasi dei mass-media. L’Eterografia di Balestrini – chiamiamola così per opporla all’autografo autoriale e all’allografia dei linguaggi seriali – si è disimplicata progressivamente dal formato-feticcio del libro. Ha cominciato distaccando le filze testuali ma rispettando, nella giustapposizione successiva, l’orientamento orizzontale delle righe; ha mantenuto la tonalità cromatica, il non colore del bianco e del nero e il corpo caratteriale delle lettere. Così facendo ha sfondato la norma della pagina, – l’ha squadernata – ma ha mantenuto un fondo di leggibilità possibile, quella che R. Jakobson chiamava una “semantica smorzata”. Ma la libera attività di Balestrini – diversa dal lavoro e dalla creatività – ha aperto uno spazio virtuale che trova un nuovo senso nel momento elettronico della scrittura a cui egli ha prestato la sua attenzione fin dal 1963.
Pur senza feticismi tecnologici – per Nanni le procedure letterarie riguardano “come” e non “con che” si scrive – è certo che il “word processor” permette una scrittura volatile e lieve, più simile all’oralità che all’orto(tipo)grafia. Attraverso l’uso sistematico delle sue potenzialità, il nuovo oggetto di scrittura ci offre tutta l’indeterminatezza e l’apertura dei segni tipografici. La post-tipografia digitale – che avrebbe fatto la delizia dei paroliberi futuristi – mette a disposizione gamme imprevedute di caratteri fonetici e ideografici e nuove convenzioni in fieri: le emoticone, i colori che segnalano collegamenti ipertestuali e così via.
Nel corso della sua attività, i composti ricombinati di Balestrini hanno preso altre morfologie e cromatismi, altre forze e processi; hanno rimescolato i vettori delle strisce e la posizione delle lettere.
I caratteri hanno un corpo: occhi ed orecchie, spalle e braccia e persino code (quelle della Q maiuscola possono terminare a cappi e a ganci, a falci, svolazzi e speroni!). Balestrini li ha sottoposti ad una decimazione e una carneficina di amputazioni e decapitazioni per ricombinarne poi i tratti visivi – larghi e stretti, diritti e curvi, piatti o spessi, spezzati o continui, paralleli o divaricati, grassi e sottili, ascendenti e discendenti, rastremati o smussati. Una Glossografia – come si dice glossolalia – che ne accentua il tono antisoggettivo e assembla plaghe e flussi di indiscernibilità fonottica. La lettera da monade diventa nomade e il carattere da fisso si fa mutante: aste e grazie vengono riscritte con in-giustezza felice.
Tuttavia, per la nostra percezione sequenziale e simultanea delle lettere, i testi di Balestrini mantengono la qualità propria del testo-tessuto. Talora le linee conservano la struttura dell’ordito e le lettere continuano a tramare, a volte invece i caratteri ci spiazzano l’occhio distribuendosi a patchwork. Alcune tavole conservano infatti una metrica visiva, una prosodia grafica fatta di filze, stringhe e lasse inquadrate da linee-cornici. Dal brusio visivo, percorso di tensioni e trasalimenti, emergono parole semi-leggibili, luoghi comuni o neologismi improvvisati, come in una commedia di Beckett. Parole serratura in cerca di chiavi, invito alla crittografia?
In altre tavole invece, le frasi distaccate si perdono in flussi trasversali o multi-direzionali dai contorni frastagliati da rientri e spaziature e finiscono in “un fiotto ininterrotto che erode le sue rive e prende velocità dal mezzo” (Deleuze)2. Non è un caleidoscopio – termine che mantiene l’estetica nella sua etimologia: “kalòs” – ma una un’insalata verbo-visiva che mescola i caratteri tipografici e dove intravediamo, e forse udiamo, il brusio scopico d’una piccola babele.
I Pilastri e le Mappe
Cosa mancava a questo tavole fonottiche di Balestrini per uscire dallo sperimentalismo delle avanguardie – dall'”ortografia libera espressiva” dei futuristi ai “ritratti tipografici” di Hausmann – e di meritare invece il nome di rizoma? In primo luogo la dimensione pubblica, che fin da Marinetti riconduce la scoperta eccentrica di Mallarmé nell’ambito del discorso collettivo. Balestrini infatti non si limita al taglia-incolla sulla tela o sulla carta dei testi politici e mediatici – pagine di giornale o depliant turistici, scelti a proposito o con calcolato arbitrio; o alla piegatura deliberata o improvvisata degli involucri plastici colorati dei grandi magazzini e supermercati.
Dal 1993, data della sua partecipazione alla 44° Biennale di Venezia con la Torre di Icaro, Balestrini ha preso a costruire e a collocare in pubblico dei monoliti geometrici, chioschi che hanno lastre tipografiche per facce, istoriate e graffite di ideogrammi e logogrammi. Torri, obelischi, parallelogrammi in bilico, colonne grafiche, pilastri le cui scanalature sono per l’appunto, “pile”, cioè righe destinate alla proiezione di “poemi” di grande formato. Costruzioni predisposte ad interventi di scrittura pubblica e alla creazione di composti collettivi di enunciazione.
Successivamente, Balestrini ha intrapreso una libera attività di cartografo che risponde con coerenza alle obbiezioni che si è posto nel prosieguo delle sue esperienze di ricerca. Ricordiamo a questo proposito che, nella sua critica a Borroughs, Deleuze esortava a “far carte e non foto o disegni”. E metteva in guardia contro i “tecno-narcisismi”, cioè le “astuzie tipografiche o lessicali che conservano un’idea di libro il quale rappresenta la totalità del mondo invece di connettersi ad esso”. Per il grande “platonico della molteplicità”, l’uscita dalle strettoie dei sensi unici richiede di non fermarsi alla potatura dei rami dell’albero logico che informa la significazione. (Persino la radicalità tipografica del più “futuriano” dei russi, Krucenych, lasciava intravedere sotto la dispersione delle vocali il testo del “Credo” in russo!). Dislocare e disseminare non basta: gli elementi più parcellari possono diventare i sottomultipli di nuove unità integrali. L’albero del senso può sempre mantenere, nonostante il più accanito bricolage, un disegno ideologico univoco e complessivo.
Balestrini allora ha intrapreso quindi ad operare a suo modo sui segni del testo cartografico, rompendone la decalcomania, cioè la relazione proiettiva col territorio. Dai paesaggi di lettere sulla pagina è passato ai linguaggi geografici delle carte: i ritagli e le riprese generano nuove mappe rizomatiche, a entrate multiple, connesse su tutte le dimensioni, con molteplici linee di fuga. Mappe di terre immaginarie, smontabili, rovesciabili e suscettibili di modificazioni continue. I territori, già striati dai parametri geodesici, si piegano alle nuove distanze di spazi impreveduti; i toponimi vengono ritagliati e rimescolati e così il codice cromatico – piane, montagne, acque. Sono le carte esatte d’una utopia prossima e immanente, cioè d’una eterotopia da costruire, per Deleuze, “come opera d’arte ma anche come un’azione politica o una meditazione”.
Ad esempio, la forma che lascia intravedere una strana penisola – l’Italia? – sembra il risultato di una fissione ottica e fa pensare, diversamente dall’immagine rovesciata di Fabro, alla raffigurazione di forze politiche di dilatazione e secessione, a cambiamenti nell’orientamento topologico, nella lunghezza d’onda e nella magnetizzazione dei Poli.
Amanuensi
La libera attività di Nanni Balestrini va ben oltre l’esposizione delle sue eterografie: comprende azioni teatrali, balletti, happening, radiodrammi, sceneggiature cinematografiche, poesie sonore con voci recitanti e strumenti: dall’operapoesia al rap. Accantonate le esperienze della poesia visiva, Balestrini si presenta come un intercessore tra differenti flussi semiotici e diversi sensi. Chiede ai duri d’occhi di prestare gli orecchi e viceversa.
Per quanto riguarda la sua pratica di “lisciaggio retroattivo” della scrittura e della topologia della molteplicità delle sue mappe, possiamo chiederci come potremmo abitare quegli spazi e pronunciare quelle scritte. Dobbiamo allora ricordare che, per la tradizione retorica e quella materialista (Democrito e Protagora erano entrambi di Abdera!), il testo è un complesso di lettere, così come il mondo è un composto d’atomi. E che oggi anche la vita è scritta come molteplicità di frasi fatte con l’alfabeto della genetica.
Quanto alle tavole di Balestrini, suggerisco di cedere alla tentazione tattile di appoggiarvi le mani e lasciarle scorrere. Convertirne la grafia dall’ottico all’aptico e ascoltarne, da amanuensi, il messaggio dove sembra scritta, in un’ignota lingua per ciechi, una promessa di guarigione.
Note
- F. T. Marinetti, “Distruzione della sintassi, Immaginazione senza fili. Parole in libertà”, 11, maggio, 1913, v. Futurist typography and the liberated text, ed. A. Bastram, British Library, London, 2005. Sull’anarchia della pagina, contro la sua “flasque et insipide chair, se multipliant à l’aide des microbes typographiques”, v. T. Tzara, “chaque page doit exploser, […] par l’enthousiasme des principes, ou par la façon d’etre imprimée” (1918), v. J. Brun, “Typographie”, in DADA. Catalogue de l’Exposition, direction de L. Le Bon, Paris, 2005-6.
- G. Deleuze e F. Guattari, “Introduction: Rhizome”, Mille Plateaux, Minuit, Paris, 1980.