Introduzione a Dell’imperfezione di A.J. Greimas


Da: Algirdas Julien Greimas, Dell’imperfezione, Sellerio Editore, Palermo, 1988 (De l’imperfection, P. Fanlac, Paris, 1987). Trad. it. di Gianfranco Marrone.


Un tratto distacca, tra gli altri, la ricerca di Edipo da quella del Graal: le maniere della conoscenza. Il re tebano comincia col porsi un quesito senza risposta, i cavalieri inglesi hanno ricevuto il responso fin dall’inizio, ma senza riconoscerlo: allora cercano domande.
Ora, la quête del bello non è edipica, non le manca l’esperienza abbagliante delle risposte, ma le domande pertinenti. In un’epoca come nessun’altra di estetizzazione generale dei comportamenti e di crisi endemica del filosofema estetico, A. J. Greimas, semiologo e linguista, ha optato per l’estesico, cioè per la componente affettiva e sensibile dell’esperienza quotidiana. Si è posto fuori dalla legittimità di un corpo disciplinare che difende (e dipende da) un corpus testuale di referenza. Anziché nutrirsi di una dieta unilaterale di categorie e di esempi, ha cercato di dis-implicare dalle opere (racconti e poemi contemporanei, ballate folkloriche, serrature dogon e vestiti europei) e dall’operare (shopping e processioni di maschere africane, cerimonie giapponesi del tè e danze di dervisci), se non le regole, almeno i criteri o le massime del. l’esperire estetico. È un altro accesso, laterale ad un invaso teorico con molte porte in trompe-l’oeil dove non sono mancati occhi pesti ed· ecchimosi per chi ha tentato di risolverne i rompicapo.
Per questo la semiotica ha dovuto alterarsi: mobilitare nuovi utensili, praticare un ‘gaio’ saper fare di simulacri teorici. Nel breve saggio sull’imperfezione, in un comune intento di “ricerca straordinaria”, è depositato lo spirito di corpo del gruppo di semio-linguistica e del seminario di Semantica generale con cui, nell’anno 1985-86; A. J. Greimas ha concluso il suo insegnamento sui sistemi e i processi della significazione all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, Parigi.

1.1. Tra acquisizioni e ripensamentt troviamo spiegata una panoplia di costrutti interdefiniti e l’impiego di condivise descrizioni ad hoc; una teoria che è un cantiere in costruzione e regole spesso implicite di adeguatezza ai linguaggi-oggetto. Alla conoscenza delle strutture semanticbe e narrative dell’Enunciato si assomma la dimensione discorsiva attraverso le strategie dell’Enunciazione (débrayages e embrayages) e le tattiche dei punti di vista. La doppia modulazione dei predicati, in via aspettuale e modale, introduce, accanto alle scansioni e ai livelli dell’azione, ad un ripensamento del cognitivo che include, costitutivamente, il ‘piano’ timico e passionale; una volta posta la dimensione dell’essere e del fare, si impone quella, negletta e irrecusabile, del valore.
Greimas sa tuttavia che «le forme generali traggono la loro vitalità dalla minuzia dei particolari» (Blake) e che la teoria è scolastica se non fa conoscenza e «non si dà il caso». La lettura dei testi (poemi e frammenti narrativi di Tournier, Calvino, Rilke, Tanizaki e Cortázar) è alla ribalta nel suo teatro d’operazioni (la frattura) e precede deliberatamente la riflessione più generale (le scappatoie). L’originalità del trattamento – scelta e disposizione – viene, ci sembra, da alcune posture di epistemologia e di metodo: (i) dalla constatata ‘insubordinazione’ dell’universo dei valori estetici all’assiomatica: gusto e disgusto, bello e brutto non si lasciano irretire da una rete equilibrata di assi semantici (c’è un bello del brutto e un gusto del disgusto); il bello è sovrappiù di senso a partire dall’insignificanza1; (ii) le meta-categorie del gusto (classicismo, barocco, ecc.), elaborate come connotatori culturali, sono inadeguate a cogliere l’esperienza abbacinante del soggetto – intensa e indicibile –, lo stato e il processo di grazia di cui i testi trascelti offrono il simulacro.
Le analisi di alcuni livelli dei testi prendono una valenza sperimentale; il tesoro della letteratura si muta in retina esterna per scrutare l’incanto «esaltante e atroce» di un’illuminazione profana. Incanto in tutti i significati (arresto e attrazione) e di tutti i sensi; infrazione della continuità quotidiana dell’esperienza; intravisione, nell’immanenza stessa del·mondo (reale o fittizio) di un altro senso. In quest’istante assoluto – tutt’uno o nonnullo (di non so che o di altroché) – il Soggetto e l’Oggetto si ridispongono in un nuovo spazio transizionale di sapere e di sapore; è un sentire altro, insostenibile e irripetibile, di cui sta o resta soltanto la reversibile nostalgia o il respiro della speranza; lutto o entusiasmo, ventaglio di cartoline illustrate o repertorio di meraviglie. Poiché il senso – per Greimas come per Hjelmslev – si testualizza a mezzo di significanti diversi per taglia o per formato, i livelli linguistici sono ispezionati con minuzia. Le analisi sono lessicali (vedi abbaglio, guizzo, Wirklichkeit), grammaticali (vedi l’impersonale o il verbo di azione), discorsive (vedi la costituzione e la dissoluzione del punto di vista). L’esito va oltre gli scrupoli di esaustività e punta verso la caratterizzazione emotiva ed epistemica, attraverso una ripresa degli aspetti e delle figure. Greimas accenna ad una grammatica degli aspetti (perfettivo e imperfettivo, incoativo, durativo, terminativo, iterativo) che scandisce il tempo interno al processo di significazione e detta il ritmo della sua patemizzazione. Ma, soprattutto, offre un accesso alla dimensione figurale del discorso.
Va premesso che per Greimas lingue (naturali) e mondo (naturale) non sono separati ma, al contrario, intrecciati come un monogramma. Si tratta, per lui, di macrosemiotiche in cui le categorie del significante mondano sono quelle stesse che costituiscono il piano di contenuto dei linguaggi (statico/dinamico, aperto/chiuso, massiccio/puntiforme, ecc.); luoghi di manifestazione di ‘figure’ (nell’accezione gestaltica) soggiacenti al piano dei segni linguistici e non. I segni possono dunque essere risolti in composti o svolti in sequenze figurali; le figure si dispongono a livelli diversi di astrazione (vedi l’esempio della visione, ma anche dell’olfatto) e si articolano sintagmaticamente in vari modi di dipendenza. Questi tratti figurali interni al segno (per un etnolinguista come D. Hymes un verbo algonchino è già un piccolo poema ‘imagiste’2) sono suscettibili di collegare i segni (linguistici e non) in nessi e costellazioni indipendentemente dagli operatori sintattici. È quanto accade in particolare nel discorso poetico che parla per segni e per figure a diversi gradi di densità e di derivazione. È il funzionamento ‘iconico’ della poesia che nel gioco delle rime fonetiche e figurali costruisce uno spazio di anafore e di contrasti, di figure e di sostanze che fungono da contrappunto e da bordone, da antifona e da intensificazione del discorso ‘di superficie’.

1.2. Greimas si rifà alla sintesi filosofica di Merleau-Ponty sulla percezione3 e ne allarga l’interrogazione speculativa sul sensibile. Contro l’intellettualismo (e la sua versione attuale, il cognitivismo) la semiotica di Greimas ripensa i sensi nei loro campi e nelle loro traduzioni (colori e suoni, tatto e parola, ecc.) prima di passare attraverso la rappresentazione concettuale. Là dove la parola manca il segno, l’estetica serve ad additare l’esperienza non tetica della percezione. Esperienza – nel senso quasi narrativo di attraversamento e di prova – è «totalità aperta a sintesi indeterminate»: il Soggetto e 1’Oggetto in questo «mondo dell’On» sono originariamente in statu nascenti: posti e non dati, in una reversione costante di agire e di patire; pieghe – non buchi – nella sostanza del mondo, sempre pronte a farsi e disfarsi4. Merleau-Ponty ha descritto in termini quasi sacramentali questa esperienza («il sentire è alla lettera comunione e coesistenza») e Greimas ci offre la forma figurale di questa riflessione. Il soggetto estetico penetra in vario modo nell’aria colorata che sta alla base dell’arcobaleno della percezione quale Merleau-Ponty la ricostruisce, condizione trascendentale della facoltà sensibile. Per l’esplorazione estetica Greimas recepisce e discrimina le batterie dei sensi, ne ripercorre fenomenologicamente la stratificazione (filogenetica?); annovera (se non enumera) le traduzioni estesiche. Ci sembra che, diversamente da Merleau-Ponty, avvalori l’«aptico» contro l’ottico, metta l’accento sull’olfatto e sul tatto piuttosto che sul più intellettuale dei sensi: la vista. Sul tatto in particolare: per la sua qualità di percezione gestaltica e di immaginazione materiale (intimità e densità, compattezza e testura…); per la sua valenza sensuale (sensuale è il sensibile che culmina nel tangibile). E soprattutto perché nel tatto coincide la parabola della passione e dell’azione, dell’autoposizione e dell’autoaffermazione, come dell’intimità intersoggettiva. Nel contatto siamo prossimi al punto di co-naturalità in cui il soggetto emerge al mondo.
Lo stesso potremmo dire della sinestesia, che alla percezione attuale assomma altri sensi (o la virtualità di sensi realizzati a livello immaginario). Ci pare che per Greimas (come per Dufrenne, ad esempio5) il soggetto sinestesico – come quello tattile – tenda a fondersi nell’oggetto, a tornare nei paraggi dell’originario: tattilità e sinestesia sono il ciglio sensibile da cui tentare il salto che, dalla percezione (che inaugura la conoscenza), si accosta ad un sentire articolato sull’affettività profonda.
Spetta all’estetico di riannodare il patto originario del sensibile e del senziente, da cui affiora, a filo della percezione, il pensiero. Non c’è alcun privilegio estetico del sentire, ma è qui che si interroga l’unità «trans-sensibile» prima della disparazione dei sensi. Nel ‘primitivo’ sentire si mantiene e si modula la ricca totalità simbolica e sinergetica dei sensi (gli occhi, ad esempio, toccano in Calvino, come il profumo in Rilke). Dall’esperienza ‘patica’ – dove Eden e Babele sono presentiti nell’ombra del sentire – sprigionano il Soggetto e l’Oggetto. Il giudizio estetico cessa di essere un surrogato o un verdetto per farsi la intima «comunicazione di un soggetto finito con un essere opaco da cui emerge ma in cui resta inserito»6. In termini semiotici diremo che da questa istanza transizionale (S+O) oggettiva si debrayano simultaneamente l’Enunciato e l’istanza dell’Enunciazione. Momento di grazia e/o di destino, animato silenzio, fitte e folate di «atroce» beatitudine.
I testi sono trascelti da Greimas in ragione di una doppia dimostrazione. Da un lato, il modo di relazione (attivo/passivo) tra Soggetto e Oggetto, da Tournier a Tanizaki, cambia di segno andando verso una progressiva passivazione del Soggetto e una crescente salienza delle cose. Per contro, quanto all’enunciazione, agli estremi si collocano il Robinson di Tournier, con la sua ‘classica’ separazione tra il mondo e il pur turbato soggetto, e il lettore di Cortázar, dove è il testo, oggetto di una nuova volontà di apparenza e di realtà, che assorbe per sacrificarlo il lettore empirico7.

1.3. Battere il richiamo estesico per l’apprensione estetica parrà a taluni una tarda ricetta settecentesca, sensista e precritica, una diversione dall’attualità della ricerca. In effetti, alcune maniere semiotiche di ‘dire 1’ineffabile’ hanno molto da spartire con le analisi classiche di un Burke sui patemi sensibili del sublime. Ma, in Greimas, non si tratta di un ‘sublime numerico’, quello della sproporzione e della profusione (si pensi all’analisi del ‘colosso’ fatta da Derrida8), e neppure dei tratti risaputi e comuni (impatto eccessivo, folgorazione e tempestività, entusiasmo, ecc.)9. È invece lo sviluppo dei processi, dei ritmi, e l’articolazione di una sintassi sensibile che riprende, a partire dalla semiotica, il filo che trama lo storia del sublime.
Articolando le modulazioni aspettuali e tensive, Greimas dà uno sviluppo inedito alle intuizioni di Longino e di Burke sui ritmi dell’esperienza ‘primultima’ (Jankelevich) destinati a sciogliere e riannodare altrimenti le durate del quotidiano. «L’allungamento dei tempi estremi distende e rilassa l’aspra concisione del sublime», così Longino; e quanto a Burke è difficile esagerare il ruolo che egli attribuisce al ritmo nei processi di appercezione (subitaneità, intermittenza, successione uniforme, ecc.). In particolare sono i tratti di ‘costrizione’ e di ‘rilassamento’ i radicali estesici (levigatezza e dolcezza, ad esempio, per Burke, sono forme di rilassamento) degli stati passionali esperiti da chi prova l’evento estetico. In Tournier e Calvino, come in Burke e Greimas, si insiste ad esempio sui processi sensibili di passaggio: entro la stessa categoria o per sinestesia. Proprio la brusca sincope nel succedersi violento tra categorie (quali, ad esempio, la luce e l’ombra) induce la scossa, il moto convulsivo, il trasalimento che schiude il pathos del sublime.
Al sapere estetico della tradizione filosofica (i registri della levigatezza e della fragilità, le articolazioni della dolcezza in liscio/morbido, l’insistenza sinestetica) la semiotica aggiunge una sintassi delle operazioni sensibili con i loro vincoli di dipendenza e di reazione, di correlazione e incassatura (si veda la lettura della cerimonia del tè) e i loro ritmi specifici (si veda la successione del sollevamento e dell’abbassamento che scandisce i moti delle cose: dagli oggetti dell’isola in Tournier fino al metronomo in Rilke). Ma la semiotica aggiunge anche, rispetto alla filosofia tradizionale, una para-estesia delle variazioni in profondità dei livelli percettivi: si pensi alla ‘spettroscopia’ della luce e delle tenebre in Tanizaki.

2.1. Nella sezione finale sulle «scappatoie» Greimas suggerisce qualche espediente per ri-dire l’irriducibile, l’interdetto altroché. Ma con quali stratagemmi ritrovare l’effetto di senso (in tutte le accezioni del termine: corpo, significato, orientamento) che si era dischiuso nel repentino salto dell’isotopia, nella doppia (astratta e figurativa) lettura sensoriale? Con Baudelaire («metasemiologo») Greimas opta, nell’esercizio delle finzioni, per introdurre la dissimmetria e l’imperfezione. Frantumando l’ereditaria integrità delle cose, sregolando i ritmi dell’esperienza ‘banale’ è possibile riprodurre il simulacro fusionale del Soggetto/Oggetto (annichilire il soggetto, intensificare la frenesia del mondo)? Sapere raffinato del dandy o sapore fondamentale delle piccole cose gli paiono pegno bastante ad infittire la funzionalità, stornare la presa banalizzata del quotidiano (risemantizzare oggetti e relazioni tra soggetti…), dis-attendere, come fa la poesia, i ritmi e le durate mal fatte10, per capire ciò che noi stessi abbiamo reso incomprensibile. Contro l’asimbolia generalizzata e l’odierna anestesia del mondo, un’estetica non preclusa ritroverebbe una semiotica del valore. L’imperfezione è un congegno di ‘pancalia’ in grado di reincantare l’esistenza oltre il teatro delle abitudini e la livrea delle sostanze; con la deregolazione di ogni senso – al di là dei gusti (individuali e collettivi) e delle supposte originalità – i segni saprebbero farsi gesti e l’agire mutarsi in fare. Il soggetto estetico, tagliato fuori dalla ‘provata’ iperestesia, diviso tra nostalgia (felicità d’esser tristi) e speranza, si impegna così a intendere e rinvenire «più luce».
Al lettore non sfugge il paralogismo: disattendere l’atteso si muta, nel tempo, nella logora attesa dell’inatteso: gli atti d’eccezione che compiamo durante un’eclisse diventano abitudini da nottambulo. È a questa posta però che Greimas ha deciso di giocare. Contro i ciarlatani dell’ineffabile abbozza il gesto mesmerico che schiude uno spiraglio nel canale dei sensi, senza aprire la porta di servizio del delirio (si vedano le allusioni a Michaux); entrare nel gioco filosofale in cui «il ciarpame del vivere, mediante distillazione alchemica di un attimo – l”esperienza reale’ – viene trasformato in qualche cosa di prezioso e di eterno»11; puntare a quell’esperienza che rende tutta l’esistenza precedente simile a un plagio, a quella verità davanti cui ogni verità oggettiva è peggiore d’ogni prevenuta menzogna.

L’autore de L’Imperfezione crede più di altri all’efficacia simbolica, alla sua capacità di trasformazione cognitiva e passionale. Il tratto essenziale di un’opera è di essere costitutiva per qualcuno; anche se nell’estetica c’è un esperire ludico e disinteressato, la manipolazione del gioco è, per il lettore, venire irretito dalle regole che lo fanno ‘stare al gioco’. «Colui che così prova è lui stesso messo alla prova», dice Gadamer12. Il gioco artistico inizia il lettore; ne trasmuta l’identità; lo include nella sua realtà e definisce realtà tutto quanto è così trasmutato. Assistervi è atto di dedizione e la coscienza è un compito da realizzare come risposta alla ‘vocazione’ dell’opera, alla sua ingiunzione e promessa. La risposta non è la stessa; come prova il sottrarsi di Robinson al «momento di innocenza» (Tournier), il rifiuto del parco eccessivo (Rilke) o delle tenebre luminose (Tanizaki), l’aggraziato ritrarsi dello sguardo di Palomar (Calvino). Esemplare è per contro la parabola del lettore in Cortázar, nella piccola striscia di Moebius che è Continuità dei parchi. Giustamente Greimas parla, a questo proposito, di cerimoniale tragico e di catarsi. Il lettore enunciante vi è trasjormato nel lettore vittima dell’enunciato. Moto di linguaggio paradossale e antimimetico, che immette il lettore (il suo simulacro) in un altro spazio e tempo, festivi se non sacri, ove subirà il sacrificio con tragica dedizione. Nel tempo sospeso dell’enunciato (si veda la penetrante analisi dei tempi verbali) al lettore messo a morte è chiesto più che un momento di passivo, estatico ‘fuor di sé’; si esige da lui un atto positivo di sublime entusiasmo13. Nel disinteresse estetico non c’è distacco. Il lettore, dimentico di sé, ritrova la più profonda continuità passionale con un altro se stesso; incontra il proprio destino d’affetto che si dà senza remissione e a cui è tenuto a rimettersi. In questo effetto-destino il testo ci raggiunge e ci tocca nel nostro ‘spirito di corpo’ (passione della carne e dell’animo). Non si tratta di mera meraviglia: apertura ad un mondo che esiste senza perché (es ist so) per un soggetto turbato e separato dalle modalità del potere e del volere. La ‘pancalia’ va di pari tempo e passo con l’«istante assoluto in cui (il lettore) è insieme oblio di sé e mediazione con se medesimo» (Gadamer). Se non la padronanza di sé, c’è certamente una ‘potenza’, un’intensità dell’intreccio inscindibile dell’essere fuori di sé e dell’essere ‘in presa’ ed assistere. Questo istante non è segnacolo di alcuna trascendenza, come Greimas sembra talora credere. L’immanente può trascendersi nell’immanenza e l’imperfetto nell’imperfezione.
Il fatto che il soggetto cosciente non possa ripetere questo esperire, segnato dalla speranza e dalla nostalgia, non implica alcun garante esterno del mondo dei valori, ma pone il quesito: come riprodurre i moti di (trans)ascendenza e di (trans)discendenza e farne tracimare gli effetti nel quotidiano?

2.2. Prima di gravare la ‘presa’ estetica dell’onere utopico d’infrazione alle regole condivise della società e della soggettività, va approfondita la ‘natura’ di questo sensus communis e del suo effetto-soggetto.
Il sentimento del bello – piacere che precede ogni ‘interessato’ desiderio – è per il semiologo, come per il filosofo, una sintesi sentimentale che raccoglie e trascende la diversità sensibile di un giudizio d’acchito passionale: pura facoltà di euforia e disforia, di piacere e pena. Questa illuminazione profana, non mediata dagli intrighi della conoscenza, è un principio di animazione, aspetto incoativo d’una mente libera da ogni manque; è il destarsi e il (pre)destinarsi di una protensività; un valere prima di ogni investimento di valore. Il sensus communis dell’estetica è index sui, diremmo con Lyotard14, autoaffermazione pura; cenestesia trascendentale, premessa a ogni moto di rime e di ritmi. È agogia, nel senso musicale del termine, spunto di trasformazione dei paradigmi in sintassi, cioè, direbbe Brøndal, di ritmo15. Greimas segnala acutamente i due movimenti di arsis e thesis, di battere e levare, quali sono figurati nei testi in esame, da Tournier a Calvino. L’incontro sensibile con le forme e le sostanze del mondo nel loro doppio gioco «poetico» è l’occasione per una sintesi sincronica ed una animazione felice; una eufonia, insomma, tra le facoltà (nel senso kantiano) condivisibili in linea di principio per ogni soggetto. Questo evento «originario» di congruenza sensibile e sentimentale precede le determinazioni percettive; a maggior ragione le sintesi concettuali in cui e per cui si costituisce l’io teoretico. Questa luce radiosa, situata fuori dalla nostra occhiuta cecità, è irriconoscibile e incommensurabile per la soggettività costituita. Non può darsi e dirsi un soggetto estetico compiuto allo stesso modo dei soggetti etico e teoretico. La conoscenza che opera le sintesi storiche e culturali manca, necessariamente, lo sconcertante concerto delle facoltà; il gesto della conoscenza sutura il fenomeno estetico che vuol conoscere. Il sensus communis del bello non è mai determinato perché il passaggio tra questo ‘ante-io’ (segnato dal piacere di una sintesi fluttuante della facoltà e marcato dall’agogia, dallo spunto di una protensione) e 1’Io non può farsi allo stesso modo e una volta per tutte. Tocca alla semiotica descrivere le forme del trasecolare e del trascolorare di questa emergenza originaria; comprendere ciò che l’atto di capire rende incomprensibile; ricordare dello stato nascente del soggetto e del mondo quanto – pur immemoriale e misconosciuto – resterà come traccia di un altro ritmo, di un altro panico o euforia, irraggiungibile e irrevocabile. Se non c’è garanzia di regole o di massime per riprodurlo, il momento estetico potrà almeno creare una (con-)fidenza intra e inter-soggettiva sempre·disponibile, sembra indicare Greimas, quale linea d’ombra per resistere alle evidenze del gusto.
Se dal punto di vista del Soggetto passiamo ora a quello dell’Oggetto, mi sembra che l’estetica serniotica prenda le sue distanze – o almeno i suoi comodi – rispetto ad una fenomenologia della imposizione dell’oggetto al soggetto e rispetto allo schema trascendentale, metafisicamente stabile, della ragione kantiana. Qui, ancora, l”esperimento-reale’ di Cortázar è più di una parabola. Da una parte la diversità delle ‘prese estetiche’ lascia intravedere, al di là dello spazio, l’estensione; d’altra parte, al di là del tempo, l’aspettualità: cioè la physis in cui l’essere è intessuto ed iscritto (la «terra», direbbe Heidegger). Qui si ritrova la ‘agogia’ che mette in moto i mondi storico-destinali (del sapere e del gusto); qui si ad-opera una vertità che non è corrispondenza tra le cose e le proposizioni garantite da una soggettività costituita, ma un accadere. «Accedere alle cose stesse non significa aver da fare con esse come oggetti, ma incontrarle in un gioco del naufragio del linguaggio nel quale l’esserci esperisce anzitutto la propria mortalità»16. È la lezione della temporalità e della peribilità che, insieme al momento di grazia e di destino, ci intima il testo artistico.
Le scappatoie che Greimas propone per riaccostare le figure inafferrabili dell’immediato e dell’originario non sono i barlumi di una filosofia dell’autocoscienza o dell’oggettività, ma i barbagli di una Erlebnis che prende la finitezza e la morte come consigliere. Di qui forse, la novità di stile di questo autore abitualmente ponderoso: ne L’Imperfezione parla per parabole e frammenta l’esposizione; gli interstizi valgono quanto le localizzazioni, l’attenzione al significante indica una preponderanza dell’inespresso: non dell’indicibile, ma di quanto resta da dire.
L’ipotesi, e lo stile che le si addice, merita assenso e un unico riserbo. Le diverse scritture, riunite come piccoli miti in rapporto di trasformazione, privilegiano il legame compositivo del Soggetto dell’Oggetto. A leggere tra le righe del·mondo viene demandato il naufrago Robinson o la fanciulla al piano, nella loro affollata ma centrale solitudine. Si trascura o si sottace l’interazione con altri attori testuali (la donna dai denti anneriti che accende con la sua candela le tenebre in Tanizaki; la donna che lascia e poi sottrae la vista del suo seno a Palomar; il ruolo risibile e atroce del cocu nel ménage à trois in cui si impania il sofisticato lettore di Cortázar). Non imputiamo a Greimas una robinsonnade de’ l’ésthetique constituente; la sua discussione è più incompleta che imperfetta, e, come scriveva Burke, «concediamo alla simpatia quel che neghiamo alla discrezione». Vorrei solo render più difficile dimenticare le ovvietà che passo a dichiarare: l’oggetto si dà o si impone alla intersezione dell’agire e delle passioni degli uomini.

Il libro, in chiusura, non esige complicità o abiure, chiede «più luce». Quella meridiana, della conoscenza e l’altra, che «per la sua accessiva intensità si cangia in una sorta di oscurità» (Burke)17. La nostra cultura che si dice postmetafisica (rinuncia alle fondazioni ultime, alleggerimento dell’ontologia, indefinizione della relazione soggetto/oggetto, ecc.) non rinuncia a ricostruire la continuità dell’esperienza (quotidiana e no). La luce speculativa non illumina i fondamenti scientifici, bensì i possibili esiti di un orientamento. Contro Achille e la sua veloce compulsione a inferire e concludere, la Tartaruga fa valere l’eccezione e il ritardo: interpola, temporeggia, ripropone. Così, sul problema dell’estetico, è inutile precipitare: «non è sempre necessario che la verità prenda corpo; basta aleggi attorno come spirito e provochi una sorta d’accordo, come quando il suono delle campane fluttua amico nell’atmosfera» (Heidegger ).
Credo che un poco di quest’accordo rintocchi nel seminario che ha concluso l’insegnamento di Greimas e nello spirito di corpo con cui l’autore ha cercato – imperfettamente – di ‘dire l’indicibile’ delle passioni del corpo e dell’anima.


Note

  1. Cfr. R. Thom, Parabole e catastrofi, intetvista su matematica scienza e filosofia, a cura di Giulio Giorello e Simona Marini, Milano, I1 Saggiatore, 1980. torna al rimando a questa nota
  2. D. Hymes, In vain I tried to tell you, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1984. torna al rimando a questa nota
  3. M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Paris, Gallimard, 1945 [trad. it. Milano, Il Saggiatore, 1965]. torna al rimando a questa nota
  4. Contro la riduzione empirista la fenomenologia vede nel corpo «uno strano oggetto che usa le sue parti come simbolica generale». I sensi sarebbero altrettanti Io naturali. Ogni sensazione comporterebbe una sorta di sogno e di spersonalizzazione per il soggetto attaccato al mondo, mentre la realtà delle cose sarebbe definita dalla sua capacità di sottrarsi alla percezione. torna al rimando a questa nota
  5. M. Dufrenne, L’oeil et l’oreille, Paris, l’Hexagone, 1987. torna al rimando a questa nota
  6. Merleau-Ponty, op. cit. torna al rimando a questa nota
  7. Chi abbia inclinazioni filosofiche troverà pertinenti alcune citazioni antiquarie: nel sublime «lo scrittore che sta raccontando l’azione di un personaggio si lascia trascinare fino a sostituirsi a lui» (Longino). torna al rimando a questa nota
  8. J. Derrida, La vérité en peinture, Paris, Flammarion, 1978. torna al rimando a questa nota
  9. J. F. Lyotard, L’enthousiasme, Paris, Galilée, 1986; «Sensus communis», Le Cahier (du Collège International de Philosophie), n. 3, 1987. torna al rimando a questa nota
  10. Si vedano le ricerche di ritmanalisi di Gaston Bachelard. torna al rimando a questa nota
  11. V. Nabokov, Il dono, Milano, Mondadori, 1966. torna al rimando a questa nota
  12. H. G. Gadamer, Verità e metodo, Milano, Bompiani, 1974. torna al rimando a questa nota
  13. E. Fink, cit. in Gadamer, op. cit. torna al rimando a questa nota
  14. J. F. Lyotard, op. cit. torna al rimando a questa nota
  15. V. Brøndal, numero monografico di Langages, n. 86, juin 1987. torna al rimando a questa nota
  16. G. Vattimo, La fine della modernità, Milano, Garzanti, 1984. torna al rimando a questa nota
  17. Nozione, per Burke stesso, di scrupolosa «esattezza filosofica». torna al rimando a questa nota
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