Intravisioni e Traveggole


Da: Poetiche. Rivista di Letteratura, Mucchi Editore, Modena, vol. 17, n. 43 (2 2015), pp. 241-248.


La prima riflessione è rivolta a quale atteggiamento critico bisogna avere rispetto a Balestrini. Mi sto domandando se sia corretto quello della “distanza critica”, e mi chiedo che tipo di distanza critica prendere. Per ragioni personali ci conosciamo ormai da tanto tempo, siamo amici da tanto tempo, e c’è con lui un problema ormai di “prossimità critica”. Suggerirei però che forse abbiamo esagerato nella dimensione della “distanza critica”, e che forse un po’ più di “prossimità critica” sia necessaria. Se mi permettete di usare una parola della terminologia informatica, ci vorrebbe un po’ più di “attachment”, che mi sembra una buona regola della futura critica.
Dopo questa osservazione generale, ho portato con me una poesia di Balestrini. L’ho portata per due motivi molto semplici: il primo è che mi era dedicata, infatti il titolo è Paolo che ci facciamo con le parole; il secondo è che Nanni si era dimenticato di averla scritta, e mi ha detto “In che periodo la mettiamo della mia opera?”; gli ho detto “Siccome la poesia è del 1999, mettila nel terzo volume”. Ma volevo fare due osservazioni: da una parte l’idea che lui lavora con degli schemi; dall’altra parte quello della soggettività e dell’oggettività, che mi sembra un tema utile da mettere a fuoco.
Questa poesia è composta da dieci quartine, ma non vi aspettate delle rime per verso, aspettatevi delle rime per raggruppamenti. Guardate le prime: «le parole che cercano / le parole che non trovano / le parole che arrivavano / le parole che tornano indietro». Andate a guardare la fine, l’ultima quartina: «le parole che tornano indietro / le parole che arrivavano / le parole che non trovano / le parole che cercano». Avete esattamente una rima inversa, una rima che non poggia sul verso ma sulla quartina: è l’intera quartina rovesciata che funziona. Mi pare una banalità, ma dà l’idea, la misura schematica di questa poesia. Va sottolineato anche un altro punto: alla fine delle prime cinque, cioè giusto a metà, avete «le parole ripetute mille volte », poi subito dopo avete «sempre uguali e sempre diverse». Avete una specie di cicli, in cui in qualche modo il verso cambia. Quindi non sono soltanto i primi quattro e gli ultimi quattro versi, ma sono i primi venti versi e i secondi venti versi che si invertono nella posizione centrale. Questa costruzione è una costruzione molto forte.
Provate a guardare l’ultimo verso prima che troviate l’inversione «le parole che tornano indietro »: è un verso molto interessante perché si chiude con «le parole inaspettate che non speravamo più». È interessante perché è il solo verso non scritto in terza persona, il solo verso in cui l’enunciazione dice “noi” e si associa, guarda caso, a qualcosa che ha a che fare con l’emozione, cioè con la speranza. Chiude dicendo “noi”, ed è la prima e unica volta che il pronome “noi” assume il valore di una soggettività collettiva, mentre gli altri versi sono tutti in terza persona. Vedete: si tratta di oggettività completa, e la soggettività si affaccia quando si associa alla speranza. Credo che valga la pena di tenerne conto. È una lettura un po’ rapida, certo, la mia, ma credo che valga la pena di riflettere su questo.
Innanzitutto volevo citare Kurt Schwitters: «il materiale originario della poesia non è la parola ma la lettera». Io trovo questa affermazione molto importante, perché bisogna tenere conto della distinzione che viene fatta. Cominciamo da una domanda seria. Non si risponde a domande ontologiche sulla poesia, del tipo “che cosa è la poesia?”. Si risponde soltanto alla domanda “quando c’è poesia?”, perché al “cosa” non c’è risposta, invece bisogna vedere di volta in volta se la poesia c’è. Allora io mi pongo il problema di cosa dice la poesia. La prima risposta sta sulla punta di ogni lingua: “la poesia dice quello che dice dicendolo”. La questione è: “Come fa?”. Questo è il punto: “come dice quello che dice dicendolo?”. Io direi che potremmo precisare, dopo una attenta osservazione dell’opera di Nanni Balestrini: “La poesia dice quel che vede, vedendolo” (come ha detto poco fa Curi molto chiaramente). È la sorte comune delle avanguardie del ‘900. Dopo la scossa prosodica del verso libero, dopo il sussulto grafico di Mallarmé (il colpo di dadi), la rivoluzione tipografica del Futuristi e dei Dadaisti, la poesia si è trovata a un trivio: esplorare la via della sonorità musicale; battere il territorio dell’immagine; oppure – come fa Balestrini – affrontare l’originalità semiotica della scrittura. Quindi: o la musica, o l’immagine, o la scrittura musico-immagine.
Ogni segno è arbitrario, ma i caratteri della scrittura fonetica tendono naturalmente a diventare degli ideogrammi (per esempio le abbreviazioni, le sigle). Cito una frase di Saussure: «il vocabolo scritto si mescola col suono così intimamente da usurparne il ruolo»; è enunciabile visivamente, ma non è pronunciabile. Non bisogna confondere i suoni con le lettere. La lingua non preesiste alla scrittura, la quale ha delle forme e delle forze espressive proprie, che strutturano le lingue naturali. I segni scritti sono sincretici, integrano gli aspetti manuali, visivi e orali della comunicazione. Per quello esiste la grafologia, perché c’è il gesto dell’azione. L’attività tipografica non è una annotazione fonetica, ma è una trascrizione visiva. L’opera di Balestrini si inserisce in quella che potremmo chiamare – con una parola che amava molto Deleuze – evoluzione “a-parallela” tra la lingua mobile evolutiva e il codice della scrittura, che è molto stabile. A questo punto credo che questo sia uno dei grandi problemi. Nanni si lamenta sempre della scrittura fonetica, cioè di quella che tenta di trascrivere i suoni, e dice: «Ma pensa come sono fortunati i cinesi, come erano fortunati gli egiziani», cioè quei popoli che avevano una ricchezza espressiva straordinaria, mentre noi abbiamo questa terribile povertà della trascrizione fonetica fenicia, fortissima nella comunicazione e debolissima nella ricchezza espressiva. Nanni vuol mettere in moto la lettera per creare dei composti non veduti, farle notare parole inaudite, che sono impronunciabili. La sua è una attività libera di un grammatologo (l’idea della grammatologia di cui tutti parlano – Derrida e compagnia), che si esprime per logogrammi, per icone grafiche agenti e ricombinanti.
Per alcuni disegnare è sciogliere la linea della scrittura e riannodarla altrimenti; per altri, invece, è necessario tagliare e incollare, staccare e giustapporre. W.S. Borroughs, lo scrittore, e Brian Gysin, il pittore, consideravano il cut-up un «metodo impersonale dell’ispirazione», cioè tagliare delle frasi era per loro una maniera impersonale dell’ispirazione non intesa come soggettività. Sono questi ritagli che improvvisamente fanno uscire dal linguaggio, dalla parola, dei suggerimenti inaspettati, inattesi. Naturalmente un metodo che vale per la letteratura, per il cinema, per la musica è una riappropriazione soggettiva con un metodo oggettivante. Lo possiamo fare tutti, tutte le persone possono tagliare; l’ha detto già Tristan Tzara: «La poesia è per tutti». Borroughs diceva «cut the word lines and you will hear their voices», ovvero «tagliate le parole e sentirete la loro voce quando le avete tagliate». Credo che Nanni abbia seguito in modo originale e diverso questa indicazione.
Infatti Balestrini ha esteso linguaggi quotidiani, metalinguaggi, strutture unitarie, mass media. Come chiamare questa estensione? Io propongo “eterografia”, per oppormi ad “autografo” e alle lingue seriali che sono “omografe”. In questo modo Nanni si è liberato di un’altra cosa: del libro. È molto buffo, perché Nanni ha fatto tantissimi libri ma la sua pratica vuole liberarsi dei libri. Ha cominciato distaccando delle fette testuali, ma rispettando nella giustapposizione successiva l’orientamento orizzontale delle linea, però a un certo punto ha rivoltato le righe. Poi, per esempio, ha mantenuto la tonalità cromatica: di solito ha preso il bianco e nero, come è il libro, il non-colore del bianco e del nero, il corpo caratteriale delle lettere, e così facendo ha sfondato la norma della pagina. Però ha mantenuto – e questo lo ha detto ancora Curi giustamente – una leggibilità, cioè una semantica, quella che Roman Jakobson chiamava una “semantica smorzata”, perché ha un suo significato, ma smorzato. Vuol dire che c’è una intensità che può essere aumentata o smorzata, e l’elemento dell’intensità è quello che noi identifichiamo con il piacere, il godimento, ecc. Io trovo che in Nanni esso sia “smorzato”, più che assente.
Le lettere tipografiche hanno un corpo: quando si parla di tipografia si dice gli occhi, le orecchie, le spalle, le braccia, si dice persino le code (come quelle della Q, che possono terminare a cappi, a ganci, a falci, a speroni), cioè nella tipografia c’è un corpo tipografico. Nanni ha lavorato su questo corpo della tipografia, facendo di tutto, perché ha avvicinati i carattere, in una carneficina di amputazioni, di decapitazioni, che poi ha ricombinato in campi visivi: larghi, stretti dritti, curvi, piatti, spessi, spezzati, continui, paralleli, divaricati, grassi, ascendenti, discendenti rastremati, mussati, ecc. Una glossografia, come si dice una glossolalia, che tiene al centro un corpo antisoggettivo e assembla plaghe e flussi di una indiscernibilità “fonottica”, non fonetica ma ottica e fonica. Una lettera che da “monade” diventa “nomade”, il carattere da fisso si fa mutante: le aste e le grazie vengono riscritte con una “in-giustezza” felice.
Tuttavia, per la nostra percezione sequenziale e simultanea delle lettere, i testi di Balestrini mantengono una qualità di testo-tessuto: le linee qualche volta conservano l’organizzazione dell’ordito, le lettere continuano a tremare, a volte i caratteri ci spiazzano l’occhio, ecc. Alcune tavole conservano però una metrica visiva. Noi pensiamo sempre che la metrica sia fonetica, questa è “fonottica”, è visiva, una prosodia grafica, fatta di filze, stringhe e lasse inquadrate da linee-cornici. Dal brusio visivo emergono delle tensioni e dei trasalimenti qualche volta piacevoli, emergono delle parole semi-leggibili, dei luoghi comuni, dei neologismi improvvisati – come in una commedia di Beckett. Sono delle parole-serrature in cerca di chiavi. Insomma una specie di invito ad una crittografia: voi andate a guardare cercando dentro di capire se c’è qualcosa che va capito meglio, qualcosa che lui in qualche modo vorrebbe farvi scoprire, come quando dice “parole inaspettate che non speravamo più”. Ecco questo è l’invito.
In altre tavole, invece, le frasi distaccate si perdono in flussi trasversali o multi-direzionali, con dei contorni frastagliati da rientri e spaziature che finiscono – come dice Deleuze – «in un fiotto ininterrotto che rode le sue rive ma prende la velocità dal mezzo» . Infatti la prima cosa che facciamo con l’immagine è guardare in mezzo. Non è un caleidoscopio, che è un termine che mantiene una estetica nell’etimologia (“kalos”), ma una specie di insalata verbo-visiva che mescola i caratteri tipografici dove intravediamo, forse anche sentiamo, il brusio scopico di una piccola babele. Una babele che è – questo lo dico per Nanni – l’idea di fondo di una società senza classi, una babele linguistica, verbale, ottica e politica.


Si trascrive l’intervento orale di Paolo Fabbri, che si era avvalso della proiezione di tavole verbovisive di Balestrini. Per le tavole cui fa riferimento il relatore è utile la consultazione del volume Nanni Balestrini, “Con gli occhi del linguaggio”, Milano, DeriveApprodi, 2006, che ospita in apertura il saggio di Paolo Fabbri “Eterografie di Nanni Balestrini” (pp. 9-14). torna al rimando a questa nota

Print Friendly, PDF & Email

Lascia un commento