Jacques Le Goff: eresie cinesi


Da: AlfaDomenica, pubblicato il 6 aprile 2014.
www.alfabeta2.it/2014/04/06/jacques-le-goff/


 

“… dove zàffiri celesti
e palmizi e cicogne su una zampa non chiudono
l’atroce vista al povero
Nestoriano smarrito”
(E. Montale, Iride)

La storia, si sa, è nemica della memoria: vuol renderne ragione oggettiva e dar torto ai ricordi soggettivi. Come il personale sorriso con cui ricordo Jacques le Goff, che non è più tra noi. Quel sorriso che, per l’immenso storico, è stato, forse, “una creazione del Medioevo”. Lunga durata che giungeva, per lui, fino alla Rivoluzione francese.
Ricordo: eravamo insieme in Cina, nel 1993, con una missione italo-francese organizzata con intenti d’antropologia “reciproca”. Storici, etnografi, linguisti, semiologi, giornalisti, scienziati come Le Goff, U. Eco, A. Danchin (Istituto Pasteur), F. Colombo, A. Rey (Le Petit Robert), A. Le Pichon e molti altri. Avremmo dovuto incontrare i colleghi cinesi per capire la trasformazione irresistibile che avrebbe condotto la Cina postcomunista al ruolo mondiale di superpotenza. Il nostro percorso era rigidamente preconfezionato e alcuni cinesi portavano ancora il costume maoista – con la traccia di una stella staccata dal berretto. Un mese di tempo, da Hong Kong fino al confine russo (Urunqi), dal Fiume delle Perle al paese degli Iuguri, poi a Pechino, visitando molte ignote università – senza incontrare un solo studente, e molti celebri luoghi – diversamente esposti dalle lingue biforcute dell’interprete ufficiale e da un complice gesuita francofono. Percorrevamo la Via della Seta, con gli stessi treni di Corto Maltese, tra enormi cartelli che disegnavano i grattacieli di città a venire; poi lungo il deserto del Gobi, seguiti con ostinazione dalla Grande Muraglia – la traccia archeologica della Torre di Babele (Kafka). Fino all’oasi di Turfan, nell’antico Turkestan cinese, tra viali di vigneti, biliardi in strada e moschee di terra; presso le rovine della città d’Idiqutšahn e di Qara-qočo (o Chotscho).
Ricordo che qui, dopo una visita collettiva alle grotte buddhiste e zoroastriane, dove si trovarono documenti importanti della tradizione manichea, Jacques Le Goff si sedette – dopo una memorabile reprimenda ai guardiani che tolsero la macchina fotografica all’adorata moglie polacca, Hanna. Imponente e grave, a gambe incrociate, sotto la stele dal sigillo imperiale che accordava nel 752 tolleranza di culto ai manichei e ai cristiani nestoriani (nestorini, per Marco Polo). Erudito e gioviale, ci introdusse, viaggiatori occidentali e accompagnatori orientali, alle intricate eresie dei primi secoli cristiani. L’aulica premessa retorica dell’Accademia francese soggiogò i colleghi cinesi per il suo stile “mandarino”; ne assicurò l’attenzione e forse la venerazione. Ricordo a tratti che il manicheismo fu religione di stato degli Iuguri fino al 13° secolo; che sacerdoti manichei si trovavano fino all’8° secolo alla corte dell’impero di Mezzo; che Mani, gnostico e convinto di essere il Paracleto dell’apostolo Giovanni, fosse pittore e miniatore dei propri libri sacri; e che proprio lui, il grande binarista, morì, forse, tagliato in due. Che Agostino di Ippona, dapprima tentato dal manicheismo, se ne discostò, per la soddisfazione dei semiologi come Eco che avrebbero studiato il De Trinitate. Ricordo che l’eretico Nestorio non aveva del tutto torto quando pensava con Paolo di Tarso che il Cristo – “luminoso” per Mani – era il grande mediatore tra due nature, umana e divina, separate e incompossibili. E che forse fu un monaco nestoriano ad insegnare a Maometto la dottrina cristiana, con gli effetti che sappiamo. Poco incline alla trascendenza, almeno quanto gli amici cinesi, ascoltavo avidamente i racconti eresiarchi, testi insuperati di letteratura fantastica.
I trampoli su cui annaspa la memoria si allungano, notoriamente, negli anni. Spero, o almeno credo, di ricordare correttamente, se non veracemente, l’odore di tabacco di cui era impregnata la macchina fotografica di Hanna Le Goff quando la ripresi col marito accanto a un leone sinuoso, in un viale di statue conspecifiche. Ricordo che allora dissentivo con Le Goff sulla necessità di inventare prima e di conservare poi, quel Purgatorio di cui aveva ricostruito l’archeologia immaginaria. Mi rassegnavo facilmente all’idea che lo preoccupava: che il Purgatorio, mediatore tra Inferno e Paradiso, “durasse una sola stagione”. Insofferente all’abuso tautologico della dialettica, mi sentivo più vicino ai “giardini di luce” (A. Maalouf) del sincretismo manicheo, alla radicalità catara dei principi opposti, contro i trasformismi e gli inciuci delle patrie, storicistiche assiologie. Ormizd il Bene o Ariman il Male: il più è del Maligno. Lo stesso laico binarismo con cui il cattolico Le Goff avrebbe poi respinto i tentativi della Chiesa romana di iscrivere le radici giudeo-cristiane nella Costituzione europea.
Ricordo allora, nell’ombra delle grotte di Turfan, le raffigurazioni degli eletti manichei con vesti bianche e mani tese ai frutti colorati sugli alberi. In attesa di lieti banchetti e della successiva digestione che avrebbe liberato le particelle luminose contenute nelle essenze cromatiche del mondo; per ricongiungerle alla perduta luce di un’utopia felice, altissima e remota. Si, è così che ricordo, sorridendo, Jacques Le Goff.

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