Lo statuto della rappresentazione


Con Lucia Corrain, introduzione alla seconda edizione di Louis Marin, Della rappresentazione, a cura di L. Corrain, Mimesis, Milano, 2013.


Louis Marin

Voulant atteindre et saisir le ‘sens’ de la peinture, sans jeter sur elle les filets du langage, mais dans son émergence originarie, dans une virginale primitivité d’avant tout regard, toute pensée, tout langage, c’est renoncer à voir, c’est renoncer au sens même, c’est tomber dans le malheur de l’insensé.
Louis Marin, De l’entretien, 1997, p. 78.

0. Scegliere Marin

Viene qui proposta una riedizione riveduta e ampliata della raccolta di saggi di Louis Marin pubblicata per la prima volta in Italia nel 2001: maître à penser della cultura francese e americana, teorico e ricercatore che ha segnato profondamente gli studi sulla rappresentazione visiva, in costante e appassionato contatto con l’Italia, Marin è indubbiamente una personalità d’eccezione1.
In un arco di tempo pressoché ventennale, dagli anni settanta fino alla fine degli anni ottanta, a chiunque partecipasse alla ricerca semiotica italiana capitava frequentemente d’ascoltare una conferenza o una lezione universitaria di Louis Marin, allora directeur d’études all’Ècole des Hautes Ètudes en Sciences Sociales. Figura dal fiero naso diritto, il volto circoscritto da una corta barba bianca, coinvolgeva il pubblico con il timbro affabile della sua voce, con la sua oratoria appassionata, in grado di suscitare meraviglia, addirittura stupore davanti a dettagli poco evidenti di un testo o di un dipinto; abilissimo nel rendere ogni minima sfumatura, nel dare la parola alla muta superficie di un dipinto, di un ciclo d’affreschi2. Senza cadere in errore, potrebbe a ragione essere inserito nella nobile tradizione francese del xvii secolo: quella che ha creato un genere specifico, difficile e che richiede molteplici talenti, quale quello della descrizione dei dipinti3.
I suoi studi si distinguono per l’originalità e il rigore dei temi trattati. I contenuti delle sue comunicazioni prima e dei suoi scritti poi, sono stati – e continuano a esserlo – di stimolo per i tanti studiosi di semiotica delle arti che hanno avuto il piacere di conoscerlo e pongono al centro dei propri interessi la rappresentazione visiva.
Anche solo scorrendo i titoli dell’imponente mole di scritti lasciati da Marin – più di trecento articoli e una ventina di libri, qui riuniti in una bibliografia aggiornata –4, ci si rende conto della vastità dei suoi interessi. Dalle problematiche teoriche – come quelle sull’enunciazione e sul segno – all’autobiografia; dalla regalità e la politica barocca al sublime e alla mistica; dalla pittura “classica” – in particolare Poussin e Philippe de Champaigne5 – a quella contemporanea – Klee, Pollock, Stella, Jasper Johns, Cremonini -; dagli aspetti legati alla attività culinaria e alla corporalità, fino alle favole di Esopo e Perrault, senza trascurare il teatro, il cinema, la fotografia. Il tutto sorretto da una metodologia spesso implicita nel suo saper fare descrittivo, in grado di mettere in relazione, attraverso l’individuazione di costanti espressive e isomorfismi di contenuto, aspetti molto diversi della semiosfera6.
Data la vastità degli interessi di Marin, per “confezionare” un’antologia dei suoi scritti, molte erano le alternative e le scelte possibili. Quella qui presentata privilegia il rapporto tra semiotica e filosofia: una delle sue prime e prioritarie preoccupazioni, rintracciabile, con differente gradualità, in pressoché tutta la sua produzione. Lo sguardo di Marin, infatti, si caratterizza per la presenza di due fuochi, per una visione di tipo “ellittico”. Non nel senso di “omissione di qualcosa” che il contesto richiederebbe, come potrebbe far pensare l’ellissi. Al contrario, il suo sguardo è ellittico perché non è mai caratterizzato da fissità e monocularità; esso è sempre il risultato di un continuo e costante accomodamento fra due fuochi: un rapporto dialogico tra filosofia dell’arte e teoria e pratica semiotica. La singolarità di ogni testo pittorico e le problematiche di senso che ne emergono sono minuziosamente analizzate, ma anche inquadrate in un’intertestualità più ampia e sorretta da principi e ragioni più generali.
Già da questa raccolta emerge il ritratto di un intellettuale di grande ricchezza di sapere, per il quale la ricerca diventa una forma di vita. A cui si deve aggiungere l’originalità e l’eleganza di uno sguardo che imprime la sua inedita marca nell’appropriarsi degli oggetti e dei testi (Quéré 1994). Componenti, queste, che caratterizzano il suo fare, dove il continuo ritorno su temi già trattati, il riprenderli per ampliarli, metterli in tensione e in rima fra loro, introdurli in un diverso e imprevisto contesto problematico, non è mai pura ridondanza, ma sempre un modo per approfondire esaustivamente gli oggetti di analisi. La ripresa reiterata dell’Autoritratto del Louvre di Nicholas Poussin – per fare un esempio – scopre le potenzialità del testo, a partire dalla componente meta-pittorica della cornice, per passare poi al ruolo del pittore che dipinge se stesso, alla relazione con altri autoritratti e con l’autobiografia, e tanto altro ancora. In questo senso va dunque interpretata la scrittura di Marin: lenta, certo, ma in grado di portare, attraverso sincopi e sospensioni, a un’intimità con il suo pensiero e con l’oggetto teorico in esame. Una scrittura, in buona sostanza, che ha il potere di catturare e coinvolgere il lettore.

1. Il formante semiotico

Nella ricerca di Marin, filosofia e semiotica procedono in parallelo; ripercorrendo i suoi scritti – dagli Etudes sémiologiques del 1971 fino al postumo Sémiotique du corps del 2002 – si constata che è soprattutto il paradigma semiotico ad avere un ruolo fondamentale nella formazione e nello svolgimento del suo pensiero. Anche solo dagli articoli qui riuniti, è possibile ricostruire un background teorico formato dai fondatori della disciplina: Peirce, Hjelmslev, Barthes, Jakobson, Greimas, Benveniste.
In Marin, di pertinenza semiotica è l’intero dispositivo teorico e la panoplia della strumentazione impiegata nelle sue accurate descrizioni discorsive. Sul piano del metodo, ad esempio, emerge l’esigenza di reperire le equivalenze strutturali, come qui testimonia la recensione del libro Arte del descrivere di Svetlana Alpers (1984), dove, pur nell’apprezzamento del lavoro, Marin non trascura di segnalare la mancanza di una precisa definizione semiotica della coppia descrizione vs narrazione; problema, questo a cui Marin dedica molte delle sue riflessioni7. E ancora, ricorre ai dispositivi di modalizzazione, del quadrato semiotico, della narratività e dell’enunciazione con le operazioni di debrayage e embrayage; esplora i fenomeni metatestuali e di riflessività del segno; definisce il ruolo dell’icona tra l’indice e il simbolo, dando vita a quella che si può considerare una semantica non referenziale della rappresentazione visiva.
Per Marin, infatti, la pittura “continua a essere rappresentazione, ma acquisisce i poteri di un segno” in quanto comprensiva della propria pragmatica, cioè dell’implicazione indessicale delle proprie condizioni di comunicazione. L’immagine è dunque anche presentazione e non solo rappresentazione. È significativo che nella parola semantica converga la definizione enunciativa di Émile Benveniste e quella eraclitea di Jean Bollack e Heinz Wisman: “Solo la parola ‘semantica’ fa emergere in quello che non dice e in ciò che non nasconde, in un luogo irriducibile alla doppia negazione, le significazioni virtuali” (1995, p. 15)8.
Un altro ambito della produzione di Marin riguarda la semiotica e la storia della filosofia del segno. In un articolo dell’Encyclopedia of Semiotics riprende l’insieme delle sue ricerche sulla critica della rappresentazione nella Logica di Port Royal, interessandosi al segno linguistico e visivo – come il ritratto e l’autoritratto – su cui si fonderanno i suoi successivi studi, fino all’ultimo libro sul grande pittore “giansenista” Philippe de Champaigne. Anche lo studio della teoria segnica nei Pensieri di Pascal9, – la questione del ritratto e la critica della rappresentazione e la retorica, la forza del discorso – è una costante nell’interazione e traduzione tra i testi visivi e gli scritti della cultura classica francese. È Lyotard (1975) a fissare per primo con acutezza il ruolo sacramentale del segno nella formazione dell’attività successiva di Marin, definendolo “sémioticien de gran talent“, per il quale “le signe est l’hostie et l’inverse. Un’ipotesi che ha un valore euristico nello studio dell’immagine e nella descrizione dei suoi effetti. La simbolica politica della monarchia assoluta in Occidente, ad esempio, avrebbe trasposto il segno eucaristico nel discorso visivo del potere. Le medaglie regali sarebbero quindi una sorta d’ostia “blasfema”, segni dal significato stornato, destinati a svolgimenti narrativi, “storici” ed encomiastici (Ricoeur., 2000).

2. L’enunciazione e le sue istanze

Il movimento decisivo che ha fatto di Marin il maggior semiologo dell’arte è l’estrapolazione e la ri-figurazione del concetto e del meccanismo di enunciazione. A partire dall’analisi di Benveniste (1971a) sui tempi verbali, e tenendo sempre in debita considerazione le ricerche linguistiche e stilistiche che ne conseguono10, Marin non estende al visivo le nozioni proprie della lingua, bensì ripensa il paradigma dell’enunciazione nell’ambito di una semantica della rappresentazione intesa come meccanismo di senso soggiacente alle differenti realizzazioni espressive. Alla radice del termine /Enunciazione/ c’è nun-, un visibile gesto d’assenso che si ritrova, ad esempio, in verbi come /an-nuire/.
Marin, dunque, integra la visione semiotica degli anni settanta, troppo legata alla teoria “oggettale” dell’informazione, con una componente essenziale come quella dell’iscrizione della soggettività e dell’intersoggettività nel testo stesso della rappresentazione. Inoltre, estende la svolta “soggettale” di Benveniste e ne verifica con analisi puntuali (sia negli autoritratti sia nelle autobiografie, in particolare quella di Stendhal) la pertinenza e la relativa traducibilità in testi appartenenti ad altri sistemi semiotici. Nella continua e sistematica messa a punto di questi aspetti incontra e sviluppa le ricerche di alcuni studiosi – come Schapiro (1973) e Uspenskij (1973) – che hanno visto la relazione tra frontalità e profilo come strategia deittica, presentativa della rappresentazione, aprendo contemporaneamente la ricerca della semiotica a venire11.
La deissi, nel lavoro di Marin, si fa “apodeissi”. Un esempio comparativo con l’attualità degli studi warburghiani può mostrare l’efficacia euristica del metodo “semantico” di Marin. Nel noto saggio dedicato a “Il Dejeuner sur l’herbe di Manet” – sottotitolato “la funzione prefigurante delle divinità pagane elementari per l’evoluzione del sentimento moderno della natura”12 – Aby Warburg mostra – attraverso “l’illogica abbondanza della creazione artistica italiana (sic!)” -, contro ogni pretesa di rottura modernista, le connessioni formali e sostanziali che si manifestano nell’opera del pittore francese con la tradizione. Warburg apre il suo lavoro affermando che “lo stesso Manet […] si era richiamato all’esempio di Giorgione13 per sostenere che la rappresentazione all’aperto di uomini vestiti e di donne ignude non era un motivo rivoluzionario”. E aggiunge che lo stesso Manet lo avrebbe impiegato non tanto “per liberarsi dalle catene del virtuosismo accademico [e andare] verso la luce”, quanto in qualità “fidato amministratore dell’eredità della tradizione” (1929, p. 40). Ma la genealogia da cui discende questa tradizione è nota, tanto che già Warburg indica sia “il modello antico” sia “il mediatore italiano con una esattezza quale di rado è riuscita alla scienza dell’arte” (ib., p. 41). Il Giudizio di Paride di Raffaello – artista che invece Manet non cita mai – deriva da un antico sarcofago che, ancora oggi, è murato nella facciata di Villa Medici a Roma. L’opera di Raffaello, conosciuta solo tramite l’incisione di Marcantonio Raimondi presenta, infatti, una chiara derivazione dal sarcofago in quanto, nell’angolo destro in basso, appaiono “sdraiate nude tre semidivinità legate alla terra che, nella loro collocazione reciproca, rappresentano in silhouette i movimenti dei partecipanti alla colazione sull’erba” (ib., p. 41).
Marin, con la sua postura sistematica e anacronistica, probabilmente non si sarebbe allineato all’impostazione evoluzionista di Warburg, per il quale riscontrare in Le Dejeuner sur l’herbe il parziale motivo degli antichi sarcofagi romani equivarrebbe alla “oggettività propria ai postulati di un osso intramascellare”. E neppure avrebbe accettato il postulato storicista che “solo coloro che condividevano l’eredità spirituale del passato erano in grado di trovare uno stile carico di nuovi valori espressivi” (ib., p. 45). Da parte sua invece avrebbe pienamente condiviso la radicale mutazione di senso determinata dalla “rielaborazione delle antiche forme e [dal] loro trascinante potere di persuasione“. Marin – con Warburg prima e con Schapiro poi – avrebbe pienamente sottoscritto la trasformazione dell’enunciazione: le figure reinterpretate da Manet guardano verso l’osservatore: dispongono il loro sguardo “rivolto in fuori verso lo spettatore“; non levano gli occhi adoranti al mondo ultraterreno, bensì verso “uno spettatore immaginario che va cercato in terra e non in cielo”.
Una mutazione già intrapresa da Raffaello e registrata da Marcantonio Raimondi nella direzione della bellezza plastica e dell’idillio pastorale. Ma nel Déjeuner sur l’erbe, oltre al personaggio femminile, anche “l’uomo accanto alla ninfa francese (sic!) guarda con occhi saldamente energici fuori dal quadro” (ib., p. 43). Per Marin, più che una “sfumatura” iconologica questo spostamento dell’istanza enunciante costituisce un principio strutturale: una trasformazione discorsiva rilevante quanto la combinazione dei “motivemi”, degli elementi lessicalizzabili nella composizione figurativa. Come rivela il collega di Marin, Hubert Damish, questa “invenzione” – meglio questo debrayage dell’enunciazione – risemantizza l’intero modello del Giudizio di Paride. Anche senza aderire all’idea che lo sguardo in macchina provochi l’assenza del personaggio femminile, nella sequenza narrata, certamente “lo spettatore è l’anello essenziale della catena che collega il sarcofago ellenistico, il Giudizio di Paride inciso da Raimondi, e il Dejeuner sur l’herbe” (Damish 1995, p. 74). La restituzione dello sguardo spettatoriale è tutt’altro che indifferente e non impedisce l’identificazione con il personaggio rappresentato. La figura femminile del Déjeuner con lo sguardo fisso su chi guarda – come anche l’Olympia dipinta da Manet due anni dopo – incarna una bellezza moderna, offerta e disponibile, che solo Warburg e altri dopo di lui, potevano trovare ninfale.
Il ricorso all’esempio warburghiano sottolinea e radica nel passato l’importanza delll’enunciazione, che per Marin non è mai applicazione apodittica di modelli canonici a un testo qualsiasi, ma dimostrazione articolata della polisemia dei punti di vista visivi e della polifonia di quelli linguistici. Anche se spesso la dimostrazione si è incentrata sulla rete antropomorfa dei gesti o degli sguardi, in quanto tracciati visibili che reggono l’enunciato del quadro, le applicazioni alle figure di cornice risultano altrettanto efficaci. Così come l’estensione del punto di vista alla dominante del potere, che permette una lettura intrigante delle rappresentazioni della regalità seicentesca in Francia14.
Marin, attraverso lo studio e l’individuazione delle complesse strategie di iscrizione della soggettività e i sofisticati meccanismi intersoggettivi, non solo dà inizio a tutto un nuovo campo di studi, prima pressoché inesistente15, ma mira ancora più lontano e compie un passo ulteriore. Ripensa il piano filosofico che presuppone e sostiene la teoria enunciazionale. Per lui, infatti, “tutto il sistema semiotico della lingua precipita nella semiotica dell’enunciazione”.
Una teoria, quella dell’enunciazione, che percorre come un filo rosso gran parte della sua produzione e di cui si può individuare l’incipit, per quanto concerne la pittura, in un fondamentale articolo del 1975. In questo caso, l’analisi del cartone di Le Brun raffigurante l’incontro tra il re di Francia e quello di Spagna consente concretamente di mettere a punto il sistema di “traduzione” da un sistema all’altro, dimostrando che la pittura può, con mezzi propri, talvolta anche molto raffinati, esprimere la soggettività e l’intersoggettività; esattamente come accade nella lingua con il sistema deittico. Marin, sulla scorta di Benveniste, si propone di individuare negli enunciati iconici la fondamentale distinzione fra le due principali modalità discorsive: “storia” e “discorso”.

È evidente che esiste sempre un narratore, anche quando la sua enunciazione si segnali come soppressione, cancellazione o dissimulazione delle sue marche nell’enunciato. Benveniste spiega che il piano storico dell’enunciazione si delinea come enunciazione nell’escludere ogni forma “linguistica” autobiografica, “io”, “tu”, “qui”, “ora”; e, nell’ambito temporale, il “presente”, per ricorrere alla forma della terza persona e ai tre tempi che caratterizzano il passato: l’aoristo, l’imperfetto e il piuccheperfetto. Qual è, allora, il piano specifico di enunciazione del quadro narrativo? E qual è la sua istanza? Qual è la situazione narrativa in cui l’atto narrativo ha luogo? Si percepisce qui il carattere radicale della questione posta dallo spostamento dal “modello” linguistico all’opera pittorica, dal momento che, nel testo scritto, l’analisi ha come oggetto l’espressione del tempo nella sua struttura formale e materiale. Ci sono verbi, pronomi nel linguaggio della pittura? Include marche temporali? Può un quadro, nella sua immanenza esprimere il passato? Il problema si complica, inoltre, [per il fatto] che non si tratta solo di racconti, bensì di racconti storici, che hanno pretesa di verità, che presentano avvenimenti accaduti veramente nel passato (Marin 1980b, p. 144).

Una delle chiavi di accesso all’enunciazione pittorica è costituita dai deittici. Ma nel caso di un quadro di storia, come quello preso in esame dallo studioso francese, essi saranno sottoposti alla “cancellazione”, o, più precisamente, alla “denegazione” di ogni riferimento relativo alle coordinate della soggettività, spazialità e temporalità proprie della situazione di enunciazione/ricezione. La messa in discorso e il modo di narrare in pittura riguardano soprattutto lo spazio e il tempo. E poiché la pittura non dispone di un supporto isomorfo al tempo raccontato (come invece la scrittura), essa potrà far ricorso alla temporalità solo mediante il dispositivo che le è proprio: la spazialità. Attraverso la spazialità, dunque, è possibile rintracciare la grammatica del sistema deittico che, per Marin, viene ad esempio veicolato dalla prospettiva legittima. Uno strumento tecnico governato da rigorose leggi ottico-geometriche, con il quale si viene a stabilire una coincidenza fra l’occhio “produttore” e lo sguardo “osservatore”. D’altra parte, è solo a partire da quel preciso punto di vista che l’enunciatore può imporre una lettura univoca dell’enunciato, anche perché tale punto viene a simulare la sua posizione nell’enunciato stesso, luogo che l’osservatore è obbligato a occupare. Il punto di vista prospettico è l’equivalente dell’io-qui-ora; ma, nel quadro di storia, tale punto viene denegato, in quanto:

la presenza dell’avvenimento nel suo istante di rappresentazione, nel suo enunciato, si impone allo spettatore nel suo divenire autonomo al posto del processo di produzione rappresentativa: “in luogo di…” o “al posto di…”, ovvero per spostamento del suo punto di origine. L’enunciazione si oggettiva nell’enunciato, il processo di produzione della narrazione nel prodotto del racconto: oggettivazione attraverso la quale […], il racconto diventa storia (Ib., p. 164).

Un’oggettivazione che anche la particolare postura dei personaggi del cartone analizzato da Marin tende a rimarcare. La scena, infatti, sembra narrarsi da sola, anche perché gli attori del racconto, disposti in fregio, sono pressoché tutti in una posizione di profilo che tende a escludere la comunicazione con il fuori quadro e ad annullare l’altra direzionalità, propria della prospettiva: quella convergente nel punto di vista.
Rispetto a certi sviluppi successivi in cui si mette l’accento sulle formazioni discorsive a spese della base semio-narrativa, occorre distinguere chiaramente tra il “punto di vista” come configurazione discorsiva e come strumento descrittivo. Il primo caso riguarda il trattamento del sapere – acquisizione o rinuncia – al momento della “messa in discorso”; il secondo individua, tra le virtualità delle strutture semiotiche, i diversi dispositivi che vengono a offrirsi. Il dispositivo della struttura attanziale (soggetto/antisoggetto, destinante/destinatario, ecc.), ad esempio, permette di proporre percorsi visivi diversi secondo gli attanti, con le acquisizioni o le perdite di modalità che ne conseguono. L’istanza dell’enunciazione, al momento di linearizzare i diversi programmi, trasceglie alcuni elementi della struttura piuttosto che altri. Selezionare tra le diverse combinazioni permette allora la discorsivizzazione, a partire da un osservatore specifico e dai suoi processi cognitivi, cui può seguire o meno un’alternanza dei vari punti di vista. I temi ricorrenti sono particolarmente esposti a questo genere di variazione discorsiva.
Sempre in fatto di prospettiva, e sempre sulla scorta dell’importante scritto di Marin – integrato con il contributo di Greimas e Courtés (1986) – Omar Calabrese (1985) va ben oltre la questione se sia corretto o meno applicare le procedure dell’enunciazione alla pittura e preferisce porsi la domanda se “le teorie dell’enunciazione non siano pertinenti a presunte o reali teorie della pittura in quanto attività comunicativa”. Questo interrogativo lo porta a concludere che “la teoria dell’enunciazione non è applicabile alla pittura, ma è una vera e propria teoria della pittura; [e] che la prospettiva lineare non solo è un dispositivo tecnico, logico e filosofico, ma è una teoria della comunicazione” (id., p. 37). È in questa direzione che convergono le ricerche più interessanti della storia dell’arte successiva (Baxandall 2000; Belting 1990).
Se è vero che il polo dell’attività linguistica attualizzante l’enunciazione è un processo proiettivo presente nell’enunciato, il quale si manifesta con la denegazione del punto di vista, questo genera a sua volta effetti illusori contemporaneamente opposti e sincretici: l’illusione referenziale e l’illusione enunciazionale. Più precisamente, conduce alla realizzazione di un discorso “oggettivo”, stabilendo meccanismi di costruzione del testo apparentemente estranei al soggetto dell’enunciazione. L’io produttore, però, lascia inevitabilmente nel testo marche del suo passaggio, perché non è possible che l’oggettività possa manifestarsi se non a partire da un punto di vista: quello prospettico e quello in cui, appunto, enunciatore e enunciatario vengono a coincidere. La referenza viene così a essere semplicemente un simulacro della “verità” del mondo naturale.
In questo senso, la prospettiva è una sorta di atto “schizofrenico” rispetto al duopolio soggettività/oggettività, che fra l’altro ha l’intrinseca conseguenza, sul piano dell’oggettività, di far “dimenticare” il supporto materiale del quadro che si trova completamente “assorbito” nel quadro come piano trasparente.

3. Motivi della raccolta

La raccolta di saggi qui presentata è articolata in tre parti. La prima, dal titolo “Il gesto teorico”, propone un articolo dedicato alla questione della persona e del tempo nel discorso: un problema teorico riguardante l’enunciazione che, come si è visto, costituisce l’orizzonte di riferimento di grandissima parte degli scritti del nostro autore. La seconda, “Le forme del visibile”, riunisce gli articoli relativi ai problemi del vedere, soprattutto oltre quanto viene effettivamente rappresentato. La terza sezione, intitolata “I limiti della pittura”, tratta le problematiche della metapittura, della metarappresentazione, della ricezione e della “irrapresentabilità”.
Il denso articolo Note critiche sull’enunciazione: la questione del presente nel discorso indaga, a partire da Benveniste (1985), la questione dell'”io” e del presente nel discorso, con un lungo excursus su Aristotele, Platone, Sant’Agostino, Freud e altri ancora. Il saggio, che a prima vista può apparire come una speculazione essenzialmente filosofica, rivela in realtà un altro intento: quello di suggerire un approccio corretto ai testi letterari e visivi. Quell’io che nel discorso parlato è l’inserzione del locutore in un momento sempre nuovo del tempo e in una testura sempre diversa di circostanze; quell’ora, quel presente che si definisce fra passato e futuro, come vengono espressi nei testi che, per loro costituzione, denegano la situazione enunciativa?
Nelle proposte di ricerca del saggio La mappa della città e il suo ritratto, dopo aver dimostrato che la pianta è la rappresentazione della produzione di un discorso sulla città, più precisamente di un’enunciazione a due dimensioni, l’una transitiva, in quanto rappresenta qualcosa, l’altra riflessiva, poiché rappresenta presentando qualcosa, Marin si interroga sul modo in cui una mappa si costituisce enunciando l’enunciazione di un discorso sulla città. La scelta di fondo della mappa riguarda il ricorso alla descrizione, nella quale il debrayage enunciativo fa vedere l’oggetto descritto da tutti i punti di vista, senza avvalersi di uno di essi in particolare, producendo, dunque, uno sguardo sinottico che include un ordine stabile dei luoghi in una distribuzione di rapporti di coesistenza. Ma la mappa è contemporaneamente anche una narrazione, dal momento che è la reificazione del racconto: è la somma di tutti i percorsi (o itinerari) possibili di un potenziale viaggiatore. Due modalità che nella pianta di una città possono interagire grazie alla presenza di connettori del racconto e della descrizione – come, ad esempio, le scritte, i toponimi, le “legende”, le “vedute”, le “icone” -, ma anche in base al ricorso a delegati dell’enunciazione concretamente raffigurati, che contemplano la città dal luogo stesso in cui lo spettatore la vede: un vero e proprio prodotto del dispositivo enunciativo. In questo modo, la città viene ritratta nella mappa secondo modalità veridittive che annullano la presenza di un soggetto produttore e, al tempo stesso, in ragione delle norme prescrittive e istruttive capaci di veicolare contenuti relativi al potere, diventa una “veduta” che non si limita a manifestare la pura e semplice verità. È questo il caso della mappa di Parigi di Gomboust – trattata nel saggio La cornice della rappresentazione e alcune sue figure -, in cui le due immagini di bordo con le vedute da Montmartre e della Galleria del Louvre, propongono, a chi ne farà uso, un percorso privilegiato: dal nord fino al centro, ovvero dal nord fino al luogo del re.
I due contributi, rispettivamente dedicati alla recensione del libro di Svetlana Alpers (Elogio dell’apparenza) e a un articolo sul trompe-l’œil di Charpentrat, (Rappresentazione e simulacro), sono inseriti in questa raccolta nonostante appartengano a un genere diverso dal saggio di analisi testuale in quanto affrontano aspetti della rappresentazione.
Parlando del volume della Alpers, l’Arte del descrivere, Marin valorizza l’opposizione strutturale fra l’arte italiana e quella olandese del xvii secolo, dimostrando che proprio attraverso la messa in sistema oppositivo dei due differenti modi di fare pittura possono essere tracciati nuovi percorsi di analisi per l’arte in generale. In particolare, Marin raccoglie l’invito suggerito dall’arte olandese – fondata su una teoria della visione derivata dalla camera ottica – del ritorno alla “superficie”. Se l’arte olandese del secolo d’oro può fornire un nuovo modello di lavoro, è proprio perché viene contrastivamente accostata a quella italiana, scalfendo così le principali metodologie critiche che hanno insegnato a guardare quelle immagini pittoriche nel loro rapporto con la tradizione italiana. È così che si fa strada la caratteristica principale della pittura olandese, non narrativa, non albertiana, non finestra sul mondo, ma “superficie” che registra e riproduce la “superficie” del mondo. Una pittura che vede nel dispositivo della camera oscura la “deantropomorfizzazione” della visione, ovvero il fatto che la superficie del mondo si identifica, attraverso l’immagine, con la superficie retinica, dove il mondo produce da sé la propria immagine senza bisogno di una cornice. La camera ottica, dunque, condivide con il modo nordico alcune caratteristiche; nello specifico, il potente effetto di realtà basato sulla frammentarietà e sull’immediatezza che sembra far sì che la natura possa riprodursi senza l’intervento dell’essere umano. Marin vede in questo ricorso alla superficie, nell’impiego da parte della pittura nordica di un piano non albertiano, non narrativo, un modo che potrebbe essere preso in considerazione per qualsiasi immagine pittorica. Un livello, quello della superficie, evidente ma spesso rimosso, dimenticato, la cui presa in carico impone alla descrizione un costante affinamento che va ben oltre il paradigma filosofico del convenzionalismo, dove ogni cosa è “nel suo nome e nella sua figura”. Guardare la superficie con uno sguardo ravvicinato significa anche vedere “cose” che perdono le parole che le designano e le definiscono. Come descrivere, nell’Arte della pittura di Veermer, quel particolare che da lontano appare come la mano del pittore, ma che da vicino è un fascio di pure sfumature di luce senza una precisa identità?
Scardinando l’ordine proposto dall’antologia, ma rimanendo, come nel precedente contributo, all’interno della forma recensione, l’articolo Rappresentazione e simulacro pone al centro della riflessione la rappresentazione in trompe-l’œil. Dopo aver passato in rassegna diversi tipi di inganno dell’occhio, Marin si interroga sulle ragioni che fanno di un trompe-l’œil un trompe-l’œil. La pura e semplice mimesi, il riflesso del mondo sulla superficie del quadro, rendere presente uno o più oggetti o cose assenti, trovano nella prospettiva la struttura formale della rappresentazione, ma a condizione che venga denegato il soggetto teorico che la produce. Il trompe-l’œil, al contrario, non viene sentito come imitazione o riflesso, in quanto non rinvia a nient’altro che a se stesso: annullando la distanza tra il modello e la sua copia, cioè sospendendo la relazione referenziale, esso intrappola l’occhio in un’apparizione che genera stupore e cancella ogni effetto di contemplazione e di teoria in nome di un effetto di presenza. Diversamente dalla mimesi, dove lo spazio rappresentato all’interno della cornice è un cubo con una faccia aperta, una finestra dischiusa, e nello stesso tempo, uno specchio che riflette il mondo, il dettaglio, o l’intero quadro in trompe-l’œil, è l’equivalente del cubo e della finestra chiusi, dello specchio oscurato. Uno spazio che espelle da sé fino a raggiungere la superficie della tela, gli oggetti che un soggetto vorrebbe rappresentarvi. Ma il trompe-l’œil è altro ancora, specie nei grandi affreschi che decorano le superfici dei luoghi regali o religiosi: è strumento del potere politico o religioso. E lo diventa “perché il principe o il teologo si installano nel luogo del simulacro, assoggettando per suo tramite il soggetto della rappresentazione, e il potere che essa gli conferisce e che lo costituisce”. Marin individua l’esempio emblematico di questo tipo di rappresentazione nella scala degli Ambasciatori a Versailles– dipinta da Le Brun – dove, per un solo e fugace istante, in una sorta di allucinazione, l’osservatore che sale le scale sa di essere visto, osservato, commentato nella sua attività di guardante-guardato, permettendo così il dispiegarsi del potere del sovrano dal quale si sta recando16.
Nel contributo Mimesi e descrizione – come già accennato – si affronta il rapporto fra parola e immagine. Il significato di rappresentazione è duplice: da un lato, significa sostituire un elemento presente con uno assente, dove la sostituzione è sempre regolata da un’economia mimetica; dall’altro, significa esibire, mostrare, presentificare una presenza. Rappresentare, dunque, è presentarsi nell’atto di rappresentare qualcosa, è autopresentazione costitutiva di un’identità. E qui, relativamente alla descrizione di un testo visivo, sorge un problema, perché la relazione parola/immagine per Marin non deve assolutamente essere intesa in maniera “semplice”, trasparente, nella logica che le parole dicono le cose. Riferendosi alla Vanità di Philippe de Champaigne, infatti, egli fa notare come il quadro sia la fedele rappresentazione di tre oggetti, la messa in visione della lista dei nomi che li indicano (tulipano, teschio, clessidra). Una nominazione delle cose, però, che trascura un “niente” dell’immagine: lo sfondo, ossia l’elemento in grado di far emergere proprio quelle tre figure, un “niente” che è una rimanenza, un’eccedenza rispetto al potere di nominazione stesso. Lo sfondo è per Marin un “marcatore di virtualità”, e per renderne conto la descrizione deve “spaziare attraverso l’intero campo della mimetica pittorica […] per rinvenirvi le tracce e le gli effetti delle forze che vi operano e di cui essa è spesso la potente negazione”. Solo così la descrizione è in grado di rendere tutti gli effetti, anche quelli patemici, che l’immagine riversa sul corpo dell’osservatore. In questo avvicinarsi a una descrizione sempre più “esaustiva”, rivestono un ruolo fondamentale gli stessi testi già scritti, che intrattengono con l’immagine un rapporto di intertestualità. E qui l’ampiezza delle conoscenze di Marin riserva spesso sorprese significative, costruendo relazioni inattese (cfr. Pezzini 1998).
In Figure della ricezione nella rappresentazione pittorica moderna Marin si sofferma sulla pragmatica del rapporto tra la rappresentazione come segno e chi la riceve, la vede, la interpreta, la legge; sul modo, cioè, in cui un testo visivo iscrive al suo interno la struttura ricettiva dello spettatore. Una prima figura – o come lo stesso Marin la definisce, “una configurazione essenziale delle marche e delle marcature della presentazione della rappresentazione pittorica moderna” – è la cornice. Si tratta di un elemento che possiede uno statuto di esistenza indipendente da quanto rappresentato, poiché è la condizione semiotica di visibilità del quadro, che ne regola la percezione garantendone il passaggio dalla visione alla contemplazione estetica. Riguardo, invece, al contenuto della pittura, una delle figure della ricezione è il “commentatore”: ossia la metafigura dell’atto di ricezione, dell’articolazione fra la struttura di contenuto e quella di ricezione. Per spiegarne il ruolo e le funzioni, già teorizzate da Leon Battista Alberti, Marin ricorre a due arazzi di Le Brun, considerati paradigmatici per la semiotica della rappresentazione pittorica. Il primo arazzo, quello dell’Incontro del re di Francia con il re di Spagna ai Pirenei, pur essendo – come si è visto più sopra – un’evidente denegazione dell’atto enunciativo, contiene parallelamente aspetti che guidano verso un corretto atteggiamento dell’osservatore. In esso, infatti, è raffigurato il “commentatore”, che incarna il suo ruolo in due diversi personaggi: nella figura del fratello del re francese, riconoscibile e nominabile, che guarda, senza alcuna passione, lo spettatore fuori della scena, e in quella di spalle a sinistra, anonima, che addita il centro della narrazione. Due figure che istituiscono l’osservatore come tale, informandolo che deve partecipare solo attraverso la passione dell’admiratio, quella dello straordinario e del meraviglioso, ma priva di segni corporei; una maniera per far vedere e leggere in parallelo un discorso politico e storico mirante a dimostrare la superiorità della monarchia francese. Anche nell’arazzo raffigurante L’entrata del re a Dunkerque, dove il re da un’altura comanda alle sue truppe di attaccare la città, il singolare gioco di sguardi e di posture dispiega la corretta modalità passionale che deve tenere lo spettatore. Il re, simultaneamente centro dinamico della storia in movimento e “commentatore” del proprio racconto, con un gesto deittico indica la città da attaccare e con lo sguardo osserva fuori dalla scena lo spettatore, esattamente come il fratello del re, posto all’estrema sinistra, il quale reitera il suo sguardo verso il fuori quadro. Sull’albero in primo piano, ma a destra, un contadino nell’atto di togliersi il cappello guarda la scena con l’espressione passionale dell’ammirazione, che include stima, venerazione, rapimento e stupore.
Il saggio si concentra poi sulla Manna di Poussin: in questo quadro Marin – anche sulla scorta della lettera commento che Poussin invia al suo committente Chantelou – individua nel gruppo di sette figure in primo piano una metarappresentazione in grado di consentire una corretta lettura del quadro. Una sorta di istruzione per il lettore, il quale trova nella prima delle sette figure poste a sinistra il modello di comportamento da imitare per la corretta ricezione del dipinto: una figura emergente, anche perché l’unica rappresentata in piedi, con il palmo della mano aperto, leggermente sbilanciata indietro e nell’atto di ammirare la meraviglia della carità “capovolta” (una figlia che nutre la madre), che funziona come un esplicito invito a guardare con la medesima ammirazione il racconto complessivo, la messa in scena di quell’esempio di carità divina che è la caduta della manna.
Nell’articolo Ai margini della pittura: vedere la voce, viene affrontata un’altra tematica ricorrente negli scritti di Marin: i limiti della rappresentazione. Esistono forme di rappresentazione in cui la sostanza dell’espressione costituisce un limite alla stessa rappresentazione: la pittura, nella dimensione temporale; la parola e la musica, in quella spaziale; ecc. Questo limite, secondo lo studioso, costituirebbe per il pittore uno stimolo verso nuove sfide tecniche ed estetiche, capaci di portare a risultati inediti, da raggiungere attraverso una rinnovata manipolazione del sistema espressivo. In questo contesto si inserisce anche il problema della voce; più precisamente, il modo in cui, in una rappresentazione visiva, la voce può mostrarsi allo sguardo e può essere percepita dall’occhio. Per far ascoltare questa voce dal silenzio di un testo visivo, Marin ricorre a un piccolo corpus di opere nelle quali l’immagine si accompagna alla scrittura. Come, ad esempio, nel piccolo dipinto di Paul Klee, Ad marginem, dove semplici consonanti e vocali, combinandosi fra loro all’interno di un presupposto dinamismo, si animano per “far sentire” le “parole” di una lingua che appartiene solo a Klee e che l’osservatore può “ascoltare” percorrendo con lo sguardo i margini della superficie. Parole compiute nel quadro Et in Arcadia ego di Poussin, dove invece la voce si fa “sentire” all’ascolto dell’occhio attraverso il pastore che sta diligentemente compitando, con tanto di bocca socchiusa, lettera per lettera, l’iscrizione sul fronte del sarcofago.
L’articolo La cornice della rappresentazione e alcune sue figure ha come presupposto un preciso assunto teorico di Marin. Nonostante la sua preferenza per l’espressione visiva del passato, egli spesso ha tentato di far interagire la pittura “moderna” con quella contemporanea, ritenendo che i due diversi momenti storici siano accomunati da analoghe problematiche, anche se risolte in maniera diversa. Al “silenzio” della prima corrisponderebbe la “voce” della seconda, in quanto la pittura moderna avrebbe “nascosto” alla coscienza critica i problemi che incontrava e risolveva nella pratica, mentre in molti casi la pittura contemporanea farebbe emergere come “soggetto” proprio la sperimentazione e i problemi teorici. Le due tipologie – secondo Marin – entrerebbero così in un rapporto biunivoco stimolante, nel quale la pittura moderna, in un’ottica storica più tradizionale, tende a offrire spunti interpretativi a quella contemporanea; ma, a sua volta, anche la pittura contemporanea può dare origine a più articolate possibilità di comprensione, osservazione e interpretazione di quella moderna, in un’ottica più inedita e decisamente meno accademica17.
Un rapporto, questo, presente nel saggio dedicato alla cornice della rappresentazione, nel quale lo studio del cadre, all’intero di una linea di continuità, è indagato a partire da Poussin per arrivare a Frank Stella e dove l’Autoritratto del pittore francese viene messo in relazione con Le guet-apens di Leonardo Cremonini, vero e proprio commento pittorico e teorico del primo, e con Gran Cairo di Stella, rappresentazione di una piramide o di un pozzo realizzata con l’esclusivo impiego di “cornici”. In questo gioco di scambi tra passato e contemporaneità, Marin non dimentica di definire il ruolo dell’inquadratura. In quanto parergon necessario, la cornice rende autonoma l’opera, che diventa così presenza esclusiva, oggetto di contemplazione, proprio grazie al fatto che la bordura si configura nella qualità di deittico, di dimostrativo iconico di “questo”, nonostante il più delle volte la sua concreta presenza passi sotto silenzio. In quanto elemento di separazione fra il reale e la finzione rappresentativa, la cornice è sia tratto enunciativo che metapittorico. È uno dei modi attraverso i quali la pittura può dire il mondo allo spettatore e parlare di sé, esprimersi, appunto, in termini di metapittura.
Il saggio Rotture, interruzioni, sincopi nella rappresentazione pittorica riguarda tutto ciò che in pittura mette in discussione e rompe la “trasparenza” della superficie dipinta per lasciare spazio all'”opacità”. Rivisitando, in quest’ottica, alcuni testi già affrontati in più serrate analisi, Marin individua diverse forme in cui, attraverso sincopi o interruzioni, il supporto pittorico manifesta la sua opacità. Opere che nella maggior parte dei casi si avvalgono di una rigorosa costruzione prospettica; vale a dire lo strumento tecnico in grado di fare della superficie diafana un luogo virtuale, illusoriamente profondo, uno spazio assunto come vuoto. Solo così, attraverso le linee e i colori sarà possibile aprirvi quel varco che sfonda verso l’infinito. Dipinti nei quali l’effetto di profondità è interrotto da un effetto di piano, portando, sebbene in una piccola parte, alla dichiarazione di pittura come superficie, oppure nelle parti di dipinti in trompe-l’œil, dove la profondità entra in una sorta di corto circuito con l’aggetto, chiamando direttamente in causa lo spazio dell’enunciazione. Lo strumento enunciativo permette naturalmente una caratterizzazione articolata della riflessione riguardante la soggettività iscritta nel corpo parlante e “segnante”, esplorabile attraverso quella retina esterna che sono i testi. Resta però capire il desiderio e il piacere di spiegare: per Marin è necessaria una “critica erotica”, ma che sappia contemporaneamente mantenersi euristica.
Al termine della presentazione dei contenuti di questo volume, e ancora nell’ottica del ruolo che la semiotica ha svolto nella formazione del pensiero di Louis Marin, è doveroso constatare come lo studioso francese, oltre ad aver accolto e fatto fruttare positivamente e con grande originalità molti concetti della semiotica, ne abbia parallelamente escluso altri. La stessa possibilità di un metalinguaggio viene messa in discussione; e forse proprio per questa ragione Marin non ha raccolto i suggerimenti di un’analisi semiotica del visivo articolata in termini di livelli: topologici, eidetici e cromatici (Greimas 1984; Corrain 1999). Un tipo di indagine che permette di interrogare il testo nelle sue componenti astratte, nella direzione della ricerca di un senso più profondo non soltanto limitato alla figurazione antropomorfa linguisticamente nominabile. In un articolo dedicato alla Tempesta di Giorgione, Marin (1981b) prende chiaramente posizione rispetto alla lettura plastica, senza tuttavia dichiararsi completamente contrario, sostenendo che questa non riveste grande portata euristica, specie laddove l’opera di pittura – nello specifico la tavola di Giorgione – presenta attori che guardano. In questo caso, spiega, il problema principale è far vedere uno sguardo “attraverso una figura riconoscibile e denominabile […] con testa, occhi, viso”. Al contrario, forse proprio una articolata lettura plastica potrebbe essere di grande aiuto nell’interpretazione di uno dei quadri più enigmatici della storia dell’arte.
Unica eccezione nella sua complessiva produzione scritta è la lettura penetrante di Pollock (Marin 1982a), nella quale forse proprio per il “soggetto” del quadro, più che per adesione a un paradigma teorico, è stato obbligatoriamente costretto a tenere in debita considerazione il piano plastico della pittura.

In conclusione

Fino a qui si è parlato di filosofia e semiotica, di Louis Marin come storico della filosofia, del linguaggio e dei segni. Ma in quale corrente filosofica si può iscrivere Marin? Forse all’ermeneutica? È quel che sottintende Paul Ricoeur, il quale in un dibattito con Algirdas-Julien Greimas dedicato a semiotica ed ermeneutica parla di lui come di una personalità legata alle due discipline (Marsciani 2000). È in questa direzione che portano le prove di Marin? Se così fosse, il suo fare conoscitivo non si identificherebbe di certo con la subtilitas applicandi richiesta da Gadamer. La debole qualità dell’analisi ermeneutica delle immagini messa a punto da Gadamer (1986) non deve averlo tentato, soprattutto perché non è di applicazione che si tratta. Se c’è postura ermeneutica questa sembra più vicina a Ricoeur, per il quale l’analisi semiotica usa il proprio linguaggio per spiegare meglio e, dunque, per meglio comprendere ciò che è già pre-compreso. Ma nel saper fare di Marin, nella fecondità del suo approccio, c’è qualcosa di più. Oltre a disimplicare da testi non linguistici le enunciazioni e le proposizioni teoriche e filosofiche che lo articolano, Marin può fare lo stesso con i testi propriamente filosofici.
Dagli studi di Marin emerge anche un chiaro invito rivolto alla semiotica del visivo. Invito al quale dovrebbe attentamente guardare tutta quella parte della disciplina che rivendica la necessità di individuare lo specifico di questo dominio, accusando in particolare la semiotica strutturalista generativa di aver costruito un modello per l’analisi dei testi visivi che ha come riferimento esclusivo la lingua e di essersi limitata all’individuazione delle equivalenze di funzionamento tra i due sistemi. Ebbene, questa semiotica può constatare come nelle analisi testuali di Marin emerga con grande forza la necessità di individuare lo specifico del visivo, rimanendo all’interno dello stesso visivo, senza ricorrere ad altri sistemi di spiegazione. Di ciò è testimonianza il volume Des pouvoirs de l’image (1993), redatto poco prima della morte, nel quale Marin afferma che il senso dell’immagine deve essere necessariamente colto a partire dai testi, nell’individuazione dei suoi effetti che devono essere letti “nei segnali del loro esercizio sui corpi dei guardanti, interpretandoli nei testi in cui questi segnali sono scritti, nei discorsi che li registrano, li raccontano, li trasmettono e li amplificano fino a captare qualche cosa della forza che li ha prodotti” (ib., p. 15). Il che, ovviamente, non significa affatto trasposizione dal verbale al visivo, bensì rivendicazione a tutto campo della specificità del visivo nell’articolazione dei significanti.
Pur tuttavia, nonostante la fecondità dell’approccio e la seduzione della sua personalità, non è facile riflettersi nello specchio che Marin ci porge. E non solo per la profondità dei suoi interessi semiotici, linguistici, storici e filosofici, per la capacità di comprendere – in tutti i sensi – Poussin e Pollock, Caravaggio e Klee, Le Brun e Cristho, Philippe de Champaigne e Stella. Lo specchio di Marin, infatti, non è il luogo del riflesso di una personalità o di un metodo; è piuttosto la frontiera verso un mondo altro, impre-veduto. Un mondo da scoprire con lui, che ci segue come guida.
Ma a più di vent’anni dalla scomparsa, il lavoro di Louis Marin ha visto un’adeguata ricezione? Focalizzando lo sguardo all’ambito italiano la risposta non può che limitarsi a registrare due occorrenze: nel 2009, l’introduzione che apre la sua raccolta di saggi dal titolo Des pouvoirs de l’image viene pubblicata in un reader dedicato alle Teorie dell’immagine18, e solamente nel 2012 è tradotto il volume Opacità della pittura. Per contro, le più contemporanee ricerche sull’immagine, precisamente il filone di ricerca che, pur nelle sue articolate diversità, va sotto il nome di “svolta iconica”, presenta forme salienti di risonanza con il portato teorico dello studioso francese.
Nell’ultimo decennio del secolo scorso, un ricercatore tedesco, Gottfried Boehm, e uno americano, William J. Thomas Mitchell, sincronicamente approdano a risultati analoghi: in una contemporaneità dominata dall’egemonia delle immagini, pongono al centro dell’attenzione l’autonomia semantica e il valore euristico delle stesse immagini19. In particolare per Boehm, a partire da una ideale tabula rasa di tutti i paradigmi interpretativi precedenti (iconologico, semiotico, ecc.), l’obiettivo di fondo della “svolta iconica” è quello di individuare un sapere adeguato alla “potenza dell’iconico”, cioè alla decodifica delle immagini, le quali possiedono una “logica propria, una logica che pertiene a esse soltanto”, intendendo con ciò “una coerente produzione di senso attraverso mezzi propriamente figurativi (bilderischen), […] non predicativa [che] non si realizza nel linguaggio, ma nella percezione” (Boehm 2004, p. 105). Già da questo breve stralcio, si avverte il riverbero di una delle preoccupazioni teoriche di Marin: quella di individuare i meccanismi di funzionamento del visivo anche a partire dal visivo stesso20. Inoltre, sempre per Boehm l’immagine va vista nella sua configurazione e composizione interna; la sua lettura e interpretazione non deve essere affidata in alcun modo alla dimensione dell’extra-figurativo. È evidente il riferimento a quell’arte dell’osservazione che è la fenomenologia: “il potere delle immagini significa: il fait voir, apre gli occhi, fa segno” (ib., p. 110). Tuttavia per questo studioso: “il logos non domina più la potenza dell’immagine, ma ammette la propria dipendenza” (ib., pag. 117). Un’asserzione da cui sicuramente Marin avrebbe preso le distanze: per lui, infatti, la critica del linguaggio non si fonda sulla supremazia ontologica dell’immagine, perché tutta la sua ricerca è orientata verso la caratterizzazione minuziosa dei diversi modi di transduzione del logos e dell’immagine; ascoltatore/lettore della parola e osservatore dell’immagine sono in un rapporto di presupposizione, cooperativo e/o conflittuale che implementa le competenze e le azioni reciproche. In un’intervista (ib., 1990, p. 66), sulle relazioni tra storia dell’arte e psicanalisi, Marin ad esempio, spiega che non si tratta di applicare modelli precostituiti, ma di mostrare come l’opera esibisca riflessivamente e opacamente nel suo “infratesto” il lavoro di figurabilità, analogamente al modello del lavoro del sogno: “se l’oggetto della storia dell’arte dovesse essere una teoria dell’individuo estetico, la scienza dell’arte […] dovrebbe essere fondata solo sugli indizi, le tracce, i sintomi: è questo il dominio della semiologia dell’arte”. E aggiunge che distingue “il discorso della critica d’arte – discorso diretto, dell’immediato, della reazione e dell’umore – dal discorso della storia dell’arte, semiotico perché interroga l’opera produttrice di sensazioni e di affetti, l’opera come macchina produttrice di affetti. Non si tratta di scartare i problemi della psicologia, che è solo uno dei grandi compiti della storia dell’arte, o della scienza dell’arte, la quale deve essere molto più vasta di qualunque teoria della ricezione, della committenza o della psicologia”.
Ancora nell’ambito del visivo, Marin non avrebbe condiviso il postulato post-iconologico secondo cui solo l’immagine, a differenza del linguaggio puramente predicativo e logicamente binario, sarebbe “molteplice, ambigua, sensibile e polisemica“. Per lo studioso francese anche la lingua, nei suoi diversi livelli di organizzazione – lessicale, grammaticale, retorica, discorsiva – può esserlo e ci sono immagini come i diagrammi che non sono né “polisemici” né “ambigui”. D’altra parte, la raffinata teoria “semantica” dell’enunciazione di Marin, – che come si è visto trova in Benveniste l’incipit – tesa a registrare l’iscrizione delle molteplici istanze personali e impersonali, soggettive e intersoggettive proprie del testo iconico, va ben oltre la teoria della deissi di Boehm (1995, pp. 208-209) e, in particolare, oltre il principio piuttosto naturalistico che “la genesi del senso” sta nel “far rivivere nell’oggetto creato l’atto stesso che in esso si fonda” (2004, pag. 120).
L’altro studioso all’origine della svolta iconica, Mitchell, apre un suo contributo del 2008 registrando una situazione radicalmente mutata da quell’aurorale inizio degli anni novanta, in cui nozioni come “cultura visuale” e “nuova storia dell’arte” erano a mala pena sussurrate. Per Mitchell: “la nuova storia dell’arte (che ad ogni modo si ispira alla semiotica) non è più una novità”, dal momento che “lo studio interdisciplinare dei media verbali e visuali è diventato una caratteristica centrale degli studi umanistici” (2007, p. 5). Ma proprio per il ruolo che Mitchell riconosce alla semiotica21 – e alla teoria dei simboli di Nelson Goodman22 – è utile mettere in relazione e in tensione la sua nozione di metapicture con quella molto più articolata della riflessività così come è stata formulata da Marin. Per Mitchell (ib., p. 12) le metapicture “si presentano ogniqualvolta un’immagine appare all’interno di un’altra”. Anche senza approfondire la gerarchia di livelli di senso che implica per la semiotica il suffisso meta-, è bene ripercorrere qui il lavoro che Marin dedica all’Autoritratto di Poussin: il gioco di quadri rovesciati alle spalle dell’autoritratto del pittore e il dipinto, sulla sinistra, in cui si vede una figura di donna tagliata a braccia protese, lo porta non solo a una interpretazione in termini di teoria e pratica della pittura, ma anche alla creazione di omologie strutturali con opere di arte contemporanea23. Sul piano teorico e metodologico – come l’esempio dell’Autoritratto di Poussin dimostra – la semiotica con la riflessività ha messo a punto non solo uno strumento descrittivo, ma anche di spiegazione: il quadro diventa un oggetto teoricamente riflessivo e si integra comparativamente ad altri testi visivi, e non24. Se per Mitchell (2009) il problema è che le immagini non solo “significano” – nel senso limitato della rappresentazione – ma “vogliono”, bisognerebbe ricordare che per Marin, e per la semiotica, il dispositivo iconico prevede attori enunciazionali che interpellano e modificano la competenza dell’osservatore: lo portano a conoscere e desiderare, forse, persino a piangere25.
Anche con queste brevi considerazioni, è facile constatare che le relazioni tra l’Icon Turn e gli studi di Marin non sono di poco conto; anzi talvolta sono addirittura tangibili26. Ed è, in ogni caso, curioso che questi studiosi (forse nell’ipotetico tentativo di partire ex novo nella formulazione della Bildwissenschaft), mettano a punto nozioni già ampiamente definite, addirittura interdefinite dalla semiotica. E soprattutto che nella ripresa degli studi sull’immagine, condotti a vario titolo come ikonische WendePictorial TurnVisual Culture Studies, iconologia critica, ecc., gli studi di Marin non abbiano un ruolo, quando invece dovrebbero essere considerati un importante precedente teorico. Dopo l’Iconic Turn, la semiotica di Marin?


Note

  1. Nato a Grenoble nel 1932, consegue la laurea in filosofia nel 1952; durante gli anni della successiva formazione a Parigi è in contatto Pierre Bourdieu, Michel Deguy, Jacques Derrida: amicizie che segnano la strada verso una filosofia non ortodossa. La sua carriera universitaria, però, inizia più tardi, avendo privilegiato dapprima altri percorsi di scoperta. Durante il suo mandato come consigliere culturale in Turchia – dal 1961 al 1964 – conosce Algirdas-Julien Greimas (docente di lingua e grammatica francese all’Università di Ankara), con il quale inizia una lunga e stimolante amicizia intellettuale. In un successivo soggiorno a Londra entra in contatto con Anthony Blunt e con gli storici e teorici dell’arte del Warburg Institute, gettando così il seme di un altro interesse destinato a diventare asse portante della sua ricerca: quello della storia dell’arte. Nel 1967, a Parigi, entra a far parte del Groupe de recherches sémio-linguistiques, fondato e diretto da Greimas, all’interno del quale prendono corpo le principali ricerche di semiotica strutturale degli anni settanta del Novecento, destinate a dominare nell’ambito delle scienze umane di quel periodo. Marin è parte attiva di questo gruppo: la linguistica, che approfondisce proprio grazie a Greimas, costituisce una delle matrici del suo lavoro, fino a diventare, con la linguistica dell’enunciazione, uno dei suoi principali modelli di riferimento. La sua carriera universitaria inizia nel 1969, quando succede a Roland Barthes all’École Pratique des Hautes Études di Parigi e dall’anno seguente, iniziano i suoi continui andirivieni tra Parigi e gli Stati Uniti: insegna prima a San Diego, poi a Baltimora e alla Johns Hopkins, a Montreal; sedi accademiche prestigiose dove incontra e costruisce relazioni durature fra l’altro con Michel de Certeau, Jean-François Lyotard, Jean Baudrillard, Michel Serres, Jean-Luc Nancy, Michael Fried. Finalmente, nell’anno accademico 1975-1976 viene nominato all’École des Hautes Études en Sciences Sociales. Nel tempo rinvigorisce anche il rapporto con l’Italia: già dal 1968 accompagna Greimas a Urbino. In questa città universitaria, grazie all’iniziativa di Carlo Bo, Giuseppe Paioni e Paolo Fabbri, nasce il Centro Internazionale di Semiotica e Linguistica, che durante l’estate offre convegni e seminari di importanti studiosi che hanno così l’occasione di proporre ricerche semiotiche di stringente attualità; Urbino, in quel periodo, diventa un eccezionale luogo di scambio e di amicizia, che registra numerose presenze di Marin. Si può anche dire che l’Italia, come attestano i numerosi lavori dedicati ad artisti italiani, consoliderà la sua passione per l’arte. torna al rimando a questa nota
  2. Nel 1992, in occasione della dipartita di Marin, nell'”Entretien”, uscito su Liber, Jacques Derrida in dialogo con Pierre Bourdieu, scrive: “je n’ai connu personne dont l’intelligence fût d’elle-même aussi lumineuse et généreuse à la fois, immédiatement claire, brillante, gaia, toujours prête à communiquer l’enthousiasme de la découverte et à donner l’impression du premier matin : l’éveil, la vigilance émerveillée, aussitôt donnée en partage”, ora in http://www.louismarin.fr/spip.php?article10torna al rimando a questa nota
  3. Il riferimento è ai grandi critici del XVII secolo francese, in particolare a Félibien (1619-1695), del quale Entretiens sur les vies et les ouvrages des plus excellents peintres anciens et modernes (Parigi 1666) è l’opera più importante e più nota; e Roger de Piles (1635-1709) Conversations sur la connaissance de la peinture (1677); Abrégé de la vie des peintres (1699); Idée du peintre parfait(1699). torna al rimando a questa nota
  4. Dal 2009, un gruppo di allievi (Alain Cantillon, Giovanni Careri, Pierre Antoine Fabre, Françoise Marin, Cléo Pace) ha fondato l’Association Louis Marin, la cui finalità è quella di mantenere viva la circolazione e la diffusione dell’opera dello studioso francese e di incoraggiare nuove ricerche a partire dai suoi studi. Il sito dell’Associazione (http://www.louismarin.fr/), oltre alla bibliografia completa degli scritti di Marin, pubblica una serie di contributi di difficile reperimento. torna al rimando a questa nota
  5. A questi due artisti Marin ha dedicato due libri usciti postumi, nel 1995, Philippe de Champaigne ou la présence cachée e Sublime Poussin; ma incentrati sulla pittura sono Détruire la peinture del 1977 e Opacité de la peinture : essais sur la représentation au Quattrocento del 1989, pubblicato in lingua italiana nel 2012. torna al rimando a questa nota
  6. È il caso, ad esempio, del volume Utopiques : jeux d’espace (1973), nel quale, partendo dal rigoroso studio dell’Utopia di Tommaso Moro, Marin estende l’analisi ad altre rappresentazioni dell’utopia: da una pianta di città del XVII secolo a un frammento di Jorge Luis Borges, dalla città cosmica di Xénakis fino alla “degenerazione utopica” di Disneyland. torna al rimando a questa nota
  7. L’argomento è ampiamente trattato nel volume Le récit est un piège (1978). Cfr. a questo proposito anche le considerazioni di Pezzini 1992. torna al rimando a questa nota
  8. A conferma del continuo ritorno su oggetti e argomenti, valga come esempio il libro postumo dedicato a Philippe de Champaigne del 1995 che è il risultato di una ricerca già intrapresa in Études sémiologiques nel lontano 1971. torna al rimando a questa nota
  9. Nella complessiva produzione di Marin, i Pensieri di Pascal e la Logique de Port Royal vanno ricordati come studi che rivestono un ruolo decisivo e che, insieme all’opera di Philippe de Champaigne, sono alla base della sua originale riflessione sulla rappresentazione, nonché sulla teoria del segno nel XVII secolo. torna al rimando a questa nota
  10. Oltre a tutto il lavoro di Greimas, l’importante ricerca della Banfield (1982) sul discorso indiretto libero.torna al rimando a questa nota
  11. A questo proposito va ricordato soprattutto l’importante studio di Françoise Frontisi-Ducroux (1995) sul problema delle apostrofi nella produzione vascolare greca, che vede negli studi di Marin un significativo punto di riferimento. torna al rimando a questa nota
  12. Nel 1929, Warburg detta gli appunti su Manet alla sua collaboratrice Gertrud Bing, basandosi sull’articolo di Gustav Pauli pubblicato nel 1908: è questo, infatti, il primo contributo che inquadra le “sopravvivenze” antiche nell’arte del pittore francese, che Warburg porta a pieno compimento; cfr. anche Gombrich 1970 e Didi-Huberman 2002, per citare solo due della miriade di studi italiani e stranieri dedicati allo studioso tedesco. torna al rimando a questa nota
  13. Quando Warburg detta i suoi appunti, il Concerto campestre (1509 circa, Paris, Musée du Louvre) era attribuito a Giorgione; ora invece la maggior parte dei critici lo assegna a Tiziano. torna al rimando a questa nota
  14. Problematica che si è concretizzata soprattutto nel libro Le portrait du roi (1981a). Marin, infatti, è uno dei primi studiosi a comprendere l’importanza e la complessità del ritratto, sia in letteratura – attraverso i discorsi di elogio e l’autobiografia – sia in pittura, dove la perspicacia e l’ingegnosità delle sue vedute culminano nel ritratto del re. In Le portrait du roi, analizza magistralmente come il potere trovi la sua piena legittimità solo nella messa in scena dei segni simbolici che esso produce e nei quali si incarna come potere teologico-politico. torna al rimando a questa nota
  15. È il caso di Stoichita (1998), il quale mette a frutto molte aperture di Marin nel contesto delle teorie che la pittura sarebbe in grado di esplicitare attraverso i suoi specifici mezzi; cfr. anche Fabbri 1998.torna al rimando a questa nota
  16. Per una casistica del trompe-l’œil, anche nella contemporaneità, cfr. Calabrese 2011. torna al rimando a questa nota
  17. Riguardo a questo aspetto, gli studi di teoria dell’arte e dell’immagine più recenti parlano di anacronismo individuando le relazioni che attraversano la cultura visiva in un rapporto di passato e presente, cfr., Damisch 1995 e con bibliografia precedente Didi-Hubermann 2000. torna al rimando a questa nota
  18. Curata da Andrea Pinotti e Andrea Somaini e pubblicata per le edizioni Cortina. torna al rimando a questa nota
  19. Il 1994 è l’anno in cui Boehm pubblica l’articolo “Il ritorno delle immagini”, in cui parla di una ikonische Wendung e Mitchell il libro Picture Theory, dove un capitolo è intitolato “Pictorial Turn”. I due contributi costituiscono l’atto fondativo dell’Icon Turn, della svolta iconica, che nel tempo ha visto una progressiva estensione ad altri ambiti di ricerca (sociologico, antropologico, storico, estetico, ecc.) fino a quell’estesa area denominata Visual Studies, all’interno della quale più in generale viene indagata la dimensione visiva della cultura. torna al rimando a questa nota
  20. Per dirla con un altro studioso, Lotman, è il testo la fonte più rilevante per comprendere il suo contesto. torna al rimando a questa nota
  21. Nei testi di Mitchell, i riferimenti alla semiotica sono presenti in più occasioni; nella raccolta in italiano curata da Michele Cometa, ad esempio, non mancano citazioni di Saussure. torna al rimando a questa nota
  22. Cfr. Fabbri, 2010. torna al rimando a questa nota
  23. Mitchell (2007, p. 12) articola in concetto di metapicture implicando anche la riflessività di diversi media: la pittura che “annida” la scultura, il cinema, la pittura, ecc. Per quando riguarda invece la configurazione del “quadro nel quadro” oltre a Marin, si veda anche Arasse 1993 e Stoichita 1993; due studiosi che rientrano pienamente nel percorso di Marin: entrambi sono stati in contatto con lui, entrambi hanno portato avanti studi che sono in dialogo con i suoi. Gli autori della svolta iconica, però, non ricordano nemmeno questi due studiosi, mentre ricorre frequentemente il lavoro di Georges Didi-Huberman, che di Marin può essere considerato allievo. torna al rimando a questa nota
  24. Basta qui pensare, ad esempio, ai rapporti fra impressionismo pittorico, musicale e letterario. torna al rimando a questa nota
  25. Il rifeimento è a un volume di James Elkins – altro autore americano da annoverare nella svolta iconica – dall’emblematico titolo. torna al rimando a questa nota
  26. Per una più articolata indagine sui rapporti tra semiotica strutturale e Icon Turn, cfr. Mengoni 2012. torna al rimando a questa nota

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