“La morte non avrà signoria”: domande per Umberto Eco


Da: E/C. Rivista dell’Associazione Italiana Studi semiotici, 2016.
Uscito in spagnolo in Ñ, supplemento di Clarín di Buenos Aires, 26 febbraio 2016.
Ora anche in Semiotica, De Gruyter Mouton, Volume 2016, Issue 211 (Jul 2016), pp. 5-8.


 

« L’héritage vient avec ce qui l’excède. S’il garde la vie, c’est comme oeuvre à faire, ouverture vers l’avenir »
J. Derrida

La notizia della scomparsa di Umberto Eco ha occupato tutto il mediascape della globalizzazione. La prova che il grande scrittore e semiologo, aveva saputo trasformare, con la sua opera, i propri lettori in un pubblico e il suo nome d’autore in un logo. Una carriera caratterizzata da un’attività incessante, da un invidiabile fiuto culturale e di una machiavellica fortuna che ho provato a ricostruire in “Eco quiproquo”, introduzione ad un libro sulla Fenomenologia di Umberto Eco: che racconta i suoi brillanti inizi e avvia agli sviluppi che lo ha visto come il motore mobilissimo della cultura italiana e internazionale. E riporta la mappa planetaria delle sue lauree honoris causa.
Per chi lo conosce come collega scomodo ed amico fidato, la fama mondiale di scrittore erudito e accademico titolato semplifica i tratti della personalità molteplice di Umberto Eco, che è stato filosofo del linguaggio e semiologo della cultura; studioso di estetica (medioevale e contemporanea) e di letteratura (da Joyce alle avanguardie); analista di linguaggi di massa (Steve Canyon, Flash Gordon, James Bond e la neotelevisione); periodista culturale e politico sui maggiori quotidiani e settimanali italiani direttore di case editrici (Bompiani, Milano), di collane editoriali specialistiche e per largo pubblico e di riviste (Versus, Quindici, Alfabeta); traduttore (di R. Queneau e di G. de Nerval) e tradotto in centinaia di lingue (sua è la formula: “la lingua dell’Europa è la traduzione”); esperto bibliofilo (possessore di 50.000 volumi), lettore onnivoro, raccontatore impenitente di barzellette di diverso tenore e suonatore appena sufficiente di flauto. Prova provata che un uomo di grande sapere sa essere un bon vivant (G. Deleuze pensava che ogni rivoluzionario dovrebbe esserlo!). A ulteriore riprova il suo humour permanente e sornione che non intacca ironicamente i principi per rovesciare valori ma trae le risibili conseguenze dei luoghi comuni culturali e politici.
Ad onta delle anamnesi affrettate e e delle tautologie di stampa, Eco era, con N. Chomski, l’intellettuale più riconosciuto del pianeta, al punto di ritenere, come Borges, di aver ricevuto il Nobel e di essersene dimenticato. E di respingere con sufficienza la proposta di diventare ministro italiano della Cultura.
La morte ha due significati non sempre complementari. La conclusione irreversibile d’una esistenza singolare e la interruzione di un progetto di vita che spetta eventualmente ad altri proseguire (in questo caso, scriveva Dylan Thomas, “la morte non avrà signoria”). Quali sono allora i progetti interrotti di Umberto Eco, che per tutto l’arco della sua vita ha proceduto per molte vie, con induzione e divinazione come direbbe Saussure? Filosofia? Semiotica? Letteratura? Tutti progetti difficili da riprendere e condurre in un’epoca liquida, revisionista, implosiva che secondo Eco procede “a passo di gambero” – il titolo di uno dei suoi ultimi, memorabili saggi.

1. La Filosofia? Eco (mi) diceva che sarebbe morto filosofo – di schiatta aristotelica e tomista – e scriveva che la semiotica teorica era parte della filosofia del linguaggio di cui condivideva la storia- con una predilezione logica per il “luminoso ” Medioevo e una disistima per il “superstizioso” Rinascimento. Il suo contributo estetico, con la giovanile e fondamentale Opera aperta, è proseguito nella teoria della conoscenza come semiosi illimitata, in cui ogni segno rinvia rizomaticamente ad altri segni. E nello studio della storia delle dottrine semiotiche e delle perfette lingue utopiche. Per la sua semiosi interpretativa ha scelto come precorritrice l’opera trinitaria e multiforme del pragmatista Ch. S. Peirce e ha preferito non seguire le indicazioni frammentarie della linguistica di F. de Saussure e quelle più sistematiche di R. Jakobson e di A.J. Greimas. I filosofi invece, di tradizione nordamericana positivista e naturalistica, non hanno aderito fino ad ora al suo progetto interpretativo. Dalla loro immacolata concezione ontologica, l’hanno tacciato a torto di relativismo linguistico e d’insufficiente realismo o l’hanno colpevolmente tralasciato, secondo la nota strategia di dichiarare superati i problemi irrisolti. Li inquieta la sua proposizione che i segni servono a mentire; che è necessario conoscerne la grammatica e la retorica, la semantica e la logica per accostare la verità; che per la scoperta e l’invenzione ci vogliono il caso e la serendipità, la totipotenza dell’abduzione. Alcuni teorici hanno già arruolato Eco, con sua condiscendenza, allo status di cognitivista neo-realista, anche se nessuno lo ricorda intento a picchiare sui tavoli a riprova di evidenze non emendabili del mondo. Eco aveva aderito, con riserve, al Pensiero Debole; senza simpatie decostruzioniste definiva la realtà ultima, con una metafora: lo “zoccolo duro”. E soggiungeva con humour: “Sono cerchiobottista!”.

2. La semiotica come disciplina empirica della significazione e della comunicazione? L’apporto di Eco – che fin da Apocalittici e integrati (1964) indicava il ruolo dell’horror e la presenza degli zombi nella cultura popolare – stenta a trovare una collocazione tra le scienze dell’uomo che impiegano i suoi strumenti senza citare la sua scatola degli attrezzi. È certo che ha continuato a guardare l’infosfera a partire dalla grafosfera, a preferire il corpo denso del libro – memore di antiche sacralità – a quelli effimeri delle nuove tecnologie. Oggi, dopo aver reso omaggio al precursore d’una semiotica della cultura, gli viene rimproverato l’atteggiamento “aristocratico” verso i social media, la caos-pedia delle conoscenze e dei big data, la liquidità dei valori, l’appiattimento della memoria e così via. Qui ancora le sue passioni e ragioni sono da rivedere e da vendere.
Rimane poi spalancata e deserta la via della guerriglia semiotica – la formula è sua – che Eco ha condotto per decenni sulla stampa, sul modello delle Mitologiche di R. Barthes screpolando, se non fratturando, molti luoghi comuni del linguaggio e della cultura. Con un senso di responsabilità collettiva – transitiva e costante divertimento – riflessivo. Una postura esopica, l’esercizio brillante di una moralità senza estremismi. Come dimostrano i titoli ossimorici dei suoi saggi (L’opera aperta, La struttura assente, Kant e l’Ornitorinco, Dall’albero al Labirinto, ecc.) gli era difficile essere manicheo e strutturalista: per lui in medio stabat virtus. Ritengo però che andrebbe implementata e sperimentata la sua originale riflessione sul segreto, sul falso e correlativamente sui complotti e sulle riproduzioni. Alla flebile semiotica di oggi servono additamenti certi ed energie rinnovabili.

3. La Letteratura? Eco, acuto traduttore e argutissimo autore di forme brevi, cultore di feuilleton e graphic novel, passeggia da sempre nei boschi narrativi, in compagnia di lettori modello. Ricordiamo che ha preso sempre le distanze e l’agio rispetto all’etichetta “post-moderna” dei suoi romanzi, a partire del fortunatissimo Il nome della rosa, “odiato” dal suo autore che l’aveva destinato ad una cerchia d’amici (chi scrive era Paolo da Rimini, abbas agraphicus, bibliotecario libridinoso della labirintica biblioteca, allievo di Algirdas da Cluny, dove i cognoscenti ravvisano il fondatore della narratologia, A. J. Greimas). Gli affollati romanzi di sorvegliata erudizione perseguivano l’elaborazione dei problemi teorici – problematizzazione ed esemplificazione – nella modalità figurativa dei diversi generi letterati: gialli, avventura, mistero, ecc. Con una inclinazione manzoniana al romanzo storico, una predilezione per il wunderkammer enciclopedico, il bric-à-brac antistrutturale delle liste e una renitenza all’impiego di “bellurie linguistiche”. Costruiti come calcolati pastiches e montaggi di altri testi sempre a seguito di accurate ricerche bibliografiche, hanno anticipato le pratica digitale e ibridante dei mash up e dei remix. Al di là delle piatte imitazioni, sono segni sufficienti per indicare una via alla letteratura, come accadde ai tempi militanti nell’avanguardia italiana dei Gruppo ’63, con i Novissimi E. Sanguineti e N. Balestrini, L. Berio, E. Pagliarani e R. Arbasino?
Spetta al futuro la scelta dei tratti pertinenti da cui dipende, diceva Eco con il semiologo Luis Prieto, la verità. La prosecuzione di un progetto in cui possa seguirci come guida manterrà la vitalità del grande italiano, saviamente laico nella rissa incessante tra guelfi e ghibellini che scandisce la nostra storia. (A meno che non abbia lasciato, a nostra insaputa, impreveduti messaggi in qualche bottiglia).
Per usare una formula di Victor Hugo, Umberto Eco era – e mi spiace usare questo imperfetto – l’infaticabile “forza che va” di un grande contemporaneo che ha saputo imparare dal passato, vivere intensamente il presente e credere nonostante tutto nel futuro.
Possiamo chiamare genio, il suo originale composto di acuto ingegno e di arguto talento? Diventerà un classico, quello che non finirà mai di dirci quello che ha da dire?

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