Tino Stefanoni, Mostra alla Galleria Krief


Da: “Introduzione” a Tino Stefanoni, Mostra alla Galleria Krief, Istituto di Cultura Italiana, Parigi, aprile 1996.


Tino Stefanoni, 'Tre cipressi'
Tino Stefanoni, Tre cipressi (50 x 140 cm)
Davanti al Paesaggio tipicamente italiano (1993) di Tino Stefanoni si è tentati da un esperimento “orfico”. Dargli dapprima le spalle poi, come Orfeo verso l’amata, voltarsi all’improvviso a guardarlo.
L’effetto è quello che Montale ha scritto in “andando in un’aria di vetro”. Le cose sembrano ricomporsi, con un attimo di ritardo, per “l”inganno consueto”, ma conservano la traccia di questo moto: una immobilità viva. Still life non è natura morta ma “vita silente”.
Montale, o il suo pronome, reagiva con un “terrore da ubriaco”. Per me l’effetto, o l’affetto di senso è quello di Rousseau dopo il suo celebre incidente: un trop singulier instant che comincia con una sensazione deliziosa: “J’aperçus le ciel, quelques étoiles et un peu de verdure”.
Un momento trasognato, che dilata la bellezza, precisa e silenziosa del fondo radioso dei pozzi magici dei microscopi. A me, come a Calvino, i sogni non piacciono, perché imprecisi; l’incanto dovrebbe essere nello stesso tempo canto e in quantum. Ma quella di Stefanoni è una trasognata esattezza, limpida ed insieme ellittica che mi vorrei spiegare.
L’impianto dei disegni è nettamente compaginato – l’etimo di pagina è piantare (con regolarità). L’abbecedario degli oggetti – cioé le cose una volta situate – si dispone secondo un rigore compositivo esibito o soltanto implicato. Nelle serie paradigmatiche diversamente scandite (“Camice”, “Imbuti”, “Penne”, “Flaconi”, ecc.). Nei paesaggi e nelle nature morte dove oggetti (piantine o modelli geometrici) o elementi del paesaggio (torri, alberi, bandiere) sono sostenuti da edifici e da mobili; cioé da corpi parallelepipedi che diventeranno poi zoccoli per le sculture.
Un rigore senza rigidità. Le cose si dispongono portando con sé la loro ombra e la loro luce; non sono articolate o fuse, sono giustapposte, hanno una giustezza e un agio, un reciproco “gioco”?
C’è un principio di animazione felice che toglie ogni sospetto pedagogico alla esibizione delle proprietà fisiche delle cose: non sono serie lessicali (tazze, poltrone, cappelli) ma rime; non fanno frasi- paesaggio (torri, mulini, ecc.) ma ritmi, ritornelli. Questa protensione minima dell’oggetto è quello che suscita la nostra protensione di soggetti.
Per raggiungere questo effetto Stefanoni impiega (tra l’altro) il tempo, il colore e la licenza poetica.
Sembra infatti che le cose portino ciascuna i loro tempi (d’uso, di comunicazione, di memoria) e che la pagina le raccordi, neutralizzandoli. La macchina segnatempo dei Souvenir di Cristoforo Colombo (1992) è rivelatrice. Il tempo si rovescia in controtempo e s’incanta.
Queste cose non sono dipinte, ma colorate. Dimentichiamo spesso che “colorire” ha la stessa radice di “celare”. Colere è celare, il colore occulta. Stefanoni sente questo principio di sparizione intrinseco al colore e spesso vi rinuncia (nelle sue Apparizioni e nei bronzi); oppure lo integra alla composizione: nei paesaggi e nelle nature morte la luce è intorno alle cose e i cieli trascolorano in alto verso l’oscurità.
Un’altro stratagemma è l’estensione della licenza poetica. Nella pittura classica ci sorprende spesso qualche dettaglio che anima le più ferme composizioni. Allo stesso modo Stefanoni incarica il vento, la più invisibile delle forze, del compito che spetta allo sguardo nella pittura a figura umana. Bandiere, maniche a vento sono dispositivi cromatici articolati e saturati, ma sono anche punti di singolarità che additano la storia della pittura. Ricordo nei ritratti dei duchi urbinati di Piero della Francesca, fissi come medaglie, una lontana vela gonfia nel paesaggio; in una delle città ideali (quella di Baltimora), il punto di fuga prospettica cade sulla linea marina dell’orizzonte su una piccola vela che lo fa infinitamente derivare. Ecco la licenza: sempre qualcosa fugge al più serrato dispositivo di captazione.
C’è qualcos’altro oltre al principio d’animazione e di sparizione, oltre ai controtempi, alle coloriture e alle licenze.
I quadri di Tino Stefanoni ci introducono a uno curioso sentimento di esistenza. Sono privi di figure umane e di tratti zooomorfi, e sembrano enunciati alla terza persona, quella che i linguisti chiamano persona d’universo. Ma proprio l’impersonalità, l’oggettivazione e lo stile tassonomico che ne segue segnano indirettamente la presenza dell’istanza pittorica e del nostro proprio guardare.
Stefanoni ha una sua stenografia privata per marcare la sua presenza: gli strumenti della pittura (squadre, penne e matite) ma sopratutto le aste portacolori (righelli, bandiere) che servono da modulo metrico e cromatico. L'”asta” è per sua lontana etimologia la “ramificazione della mano”, traccia e segno della pittura.
Quanto a noi, siamo astanti, lievemente indiscreti, attenti a non turbare questi luoghi abitati (hantées) ma non visitabili. Dizionari d’oggetti o pagine di diario leggibili ma non interpretabili, essi ci accolgono senza lasciarsi penetrare. Fanno, sembra, indietreggiare lo spazio davanti a loro.
Cediamo al crampo concettuale, allo studium: il minimalismo di Tino Stefanoni. Una rarefazione che non è ineffabilità; una esemplificazine ellittica che non è l’immediatezza; una “modestia” che è un preciso “modo”. Un segno minimo, singolare, multiplo che non induce la spinta interpretativa ma dà alle cose un carattere vivo, una sottrazione dell’apparenza che lascia irradiare un’enigmatica energia.
Ma torniamo al puntum, cioé là dove una figura ci punge. E sia il cipresso, così frequente nei panorami di Tino Stefanoni, per una citazione che è un’allusione e un invito. “E i cipressi si inflettono sul crinale dell’isola che non ha nome, come denti di un pettine che voglia pettinare, fermare le disperate raffiche della memoria; e circostanno alla breve accademia della morte. Li ha incurvati il vento di tempesta, sorvolati lo stormo delle procellarie ebbre di vento. Essi qui sembrano sopravvivere nella parodia, tragicamente memori, veri nel silenzio ed eterni” (C.E. Gadda, Autografo per G. De Chirico).

Print Friendly, PDF & Email

Lascia un commento