Yes we (Zombies) can


Da: Alfabeta2, n. 28, aprile 2013.


1.
Negli anni Obamitici, dal 2008 ad oggi, prolifera lo Zombi. Attante epidemico dell’orrore che infesta l’intero mediascape, cinema, televisione, videogiochi, trailer, romanzi e fumetti; si moltiplicano le varianti narrative – prequel e sequel – le variazioni di generi – thriller e parodia – e le varietà fisiognomiche. Un trattamento anti-age del mostro – morfologicamente deforme, isolato e infecondo, e, per etimo, ammonitore e morale – mentre lo Zombi è un mutante anomalo – un errore di copiatura nel brogliaccio genetico, anche se le sue apparizioni sono di disparata eziologia: radiazioni cosmiche, droga, inquinamento, pandemie, ecc. I Non Morti o diversamente vivi, sono icone della mondializzazione e il luogo sinistro per cui hanno abbandonato i cimiteri, lo Zombistan, è infiltrato nell’immaginario collettivo: il people-lore più che folk-lore, della cosiddetta postmodernità. E poiché cultura “bassa” irriga le opere “maggiori” e il processo di “artificazione” è inarrestabile, si parla già di Halloween art. A giusto titolo, l’eredità culturale è “nepotista”: non assicura le discendenze dirette della storiografia estetica, ma procede per parentele trasverse.
Lo Zombi ha buon pedigree letterario – E. A. Poe, H. Ph. Lovecraft, R. Matheson – e cinematografico – V. Halperin, H. Hawks, D. Siegel, ecc. E una ricca radice creola: il vudù haitiano. Invasivo e pervasivo, infesta definitivamente il cinema dalla Corsa all’Orrore degli anni Settanta, con la figura eponima e ancora attivissima di G. A. Romero (coadiuvato da D. Argento), autore de La notte dei morti viventi (1968) e inventore del termine gore – “cruento”. E ha dato luogo a saghe ininterrotte come il sestetto di Romero appunto, o Resident Evil (2002) negli anni dei due zeri. Ma la trasmissione delle semiologie ha un percorso punteggiato: i momenti inventivi sono seguiti da revisioni e sistemazioni. Così negli anni Obamitici, lo Zombi ha fatto un saldo di qualità: partecipando all’ibridazione generalizzata delle figure dell’Orrido e precisando i suoi connotati. Il Non Morto, lento e purulento, ha occhi cerchiati e giallastri, andatura dinoccolata, gestualità catatonica, carnagione putrefatta. Trova un posto di spicco nel diorama spettrale della cultura cosiddetta demassificata, nella sua biodiversità immaginaria. Si è interdefinito tra figuri di spavento come Angeli e Robot, Cyborg e Alieni, Replicanti e Fantasmi, Mummie e Vampiri con cui condivide differenze che si somigliano. Lo Zombi, solidamente intra-terrestre, è contrario, per corrotta carnalità, agli ectoplasmatici Angeli e Fantasmi e alla perfezione meccanica del Robot; come il carnalissimo scudiero Gurdulù si oppone all’armatura vuota dell’Agilulfo calviniano. Il Non Morto si ridesta come una Mummia recente e ha gli istinti cannibali del Vampiro, il suo più diretto competitor. Ne differisce però nello stile di vita e di consumo: il Vampiro è (ancora) elegante abitatore di dimore e sepolcri, gli Zombi frequentano fosse comuni di periferia e supermercati middle class, parchi di attrazioni, isole-prigione e persino set del Grande Fratello! Il seducente Vampiro, seppur declassato, sugge sangue da zone erogene, mentre gli Zombi escono sgualciti dalle bare e divorano surplace carni umane crude e scondite. La morte sogna dice il poeta, ma i Non Morti mordono! A differenza degli altri figuri, che hanno tratti di singolarità e momenti di privacy, gli Zombi fanno sempre squadra, un’orda putrida ed acentrica che si muove erraticamente come una muta, uno stormo o uno sciame. I Non Morti, miopi ed acentrati, si comportano come la quarta persona del plurale. Sembrano scarafaggi, ma per abitudini alimentari si classificano presso il Lupo Mannaro, ibrido etimologico tra lupo e l'”umano” o le figurine dei morti – i “mani” – che spaventano i bambini: homo homini zombi. Corrispondono a pieno alla formula dell’orrore di S. Cavell, filosofo cinefilo, “coscienza della umana precarietà, la coscienza che può essere perduta o invasa e che possiamo essere o diventare qualche cosa d’altro rispetto a quel che siamo e che immaginiamo di essere”. Assestato nell’habitus, lo Zombi si transgenera nelle “metacarni” (D. Cronenberg) e infetta ogni genere narrativo: il rosa, il thriller, il nazi e il porno. Iscritto nei diversi codici testuali, lo Zombi cambia di fisionomia e natura, si mimetizza e subisce mutazioni. Ricca è la vita testuale del post-cadavere che da salma non è ancora diventato misero resto. Può prender forma artistica con la plastilina (G. von Hagens) ma può anche diventare gorno, porno e gore – anche per ragioni stilistiche: la temporalità senza stacchi delle riprese! Un trend trasgressivo lo vuole più veloce e individualizzato e persino sentimentale (L’alba dei morti dementi di E. Wright, 2004, e Benvenuti a Zombieland di R. Fleischer, 2009). Un cambio di “etogramma” dovuto alla rapidità evolutiva delle neurobiologie e dell’immaginario: “trasumanare” è più facile al cinema che per verba.
Il mainstream attuale però vede ancora i Non Morti come antesignani apocalittici. Quella degli zombi però è un’Ipocalisse: il contrario della minacciata ipercalisse digitale, in cui ognuno sarà alla propria consolle e le interazioni di ogni genere frigidamente virtuali. L’Ipocalisse planetaria degli Zombi presenta invece un mondo ecatombale ed ossidionale. Mondo, omologo al nostro, dove alla generalizzazione tecnica corrisponde la chiusura etnica. Mondo viralmente invaso all’eccezione di collettivi umani assediati, raggruppati in isole settarie. Comunità cacciatrici che devono far rimorire gli zombi, risorti e insorti, nelle più inventive maniere e col maggior newrealism possibile (nota bene: dal naturalismo, il cinema, se mai vi è mai entrato, può uscire verso l’alto: il surreale; o verso il basso: un iperrealismo splatter da effetti speciali). Dalla galassia dei film hollywoodiani o indipendenti si può trarre una intera enciclopedia di messe a morte dei Non Morti: come far passare il super-uomo-morto-di-massa allo stato di stramorto, con la regola del colpo all’improbabile cervello. G. A. Romero, coi suoi zombi bambini, divoratori di teneri genitori e i suoi zombi Hare-Krishna, detiene il miglior score: con cacciaviti nelle orecchie e teste esplose o mutilate da pale di elicottero. Ma le soluzioni attuali, col loro sangue cromaticamente innovativo, fanno impallidire il Grand Guignol, un teatro che nasce in concomitanza col primo film horror del cinema Le manoir du diable di Méliès (1896). Mentre l’attrice m.me Maxa nella sua lunga carriera di star granghignolesca – è morta nel 1970 – fu assassinata tremila volte in 60 modi diversi (dopo aver gridato 983 volte “aiuto”, 1263 “mi uccidono”, 1804 volte e mezza “mi violentano”!), tutto questo accade in appena un episodio delle Zombi saghe. Il risultato estetico, forse per l’origine latina di G. Romero, è un kitsch più prossimo alle rappresentazioni cattoliche della peste barocca – come le cere napoletane dello Zumbo, nomen omen – che non al gotico suburbano di S. King o di Ann Rice.

2.
Negli anni Obamitici e tutt’ora, lo Zombi prosegue una carriera di testimonial filosofico i cui i tratti salienti sono i primi termini di una metafora o la protasi di un’inferenza. Il Non Morto infesta i dipartimenti rigorosi della filosofia analitica. Allo Zombi caraibico e a quello hollywoodiano se n’è aggiunto un terzo tipo, privo di consumismo cannibale e di odio terrorista. Il brand filosofico dei Non Morti è in concorrenza coi prigionieri della caverna platonica, gli automi animali di Descartes, la statua di Condillac, il buon selvaggio di Rousseau, l’Angelo di Benjamin. A giudicare dalle corpose bibliografie, gli analitici sembrano necromanti cognitivi, addict di exempla ficta sugli ultracorpi. Si sono divisi in due partiti gulliveriani: i fisicalisti dell’habeas corpus et absit mentem, per cui lo Zombi è l’esemplare protoevolutivo dello sviluppo naturalistico della coscienza e del libero arbitrio. In principio eravamo tutti Zombi, asserisce il neurochimico e il neuroanatomista, evolvendo poi adattivamente nella coscienza, nel linguaggio e via significando. Altri filosofi, a cui va il mio irenico assenso, pensano il contrario e hanno proposto il personaggio dello ZIMBO: Zombi dotato di coscienza e non solo d’appetiti cannibali che assomiglia ad un anglosassone ordinario, notoriamente privo di pulsioni gore ed emozioni splatter!
La promessa clonazione dei vivi, la rinuncia teologica alla resurrezione dei morti, lascia agli uomini l’immensa salmeria dei defunti. Il cinema, arte degli spettri e del sogno, ma anche filosofia in azione, ha saputo farsene carico. Nel suo progetto di semiotica “pura” G. Deleuze ha ripreso e svolto la critica di A. Artaud al cinema sperimentale e all’industria hollywoodiana. Il Cinema, per rappresentare coi propri mezzi “l’impensato dentro il pensabile”, deve presentare il personaggio concettuale della Mummia. Un automa carnale, un Non Morto che è il contrario del surrealismo onirico e spirituale; Deleuze lo esemplifica col personaggio di C. T. Dreyer, la non morta-risorta di Ordet, una Zombie felice, antitesi dell’unghiuto Vampiro.

3.
Dello Zombi obamita i filosofi non amano il grottesco e soprattutto il parodico – prova provata del suo prestigio immaginario. Eppure è l’aspetto carnevalesco – per Bachin il carnevale era una sfilata di dèi morti! – che ha portato lo Zombi fuori dal mondo dei simulacri, come accade nella indimenticata Rosa purpurea del Cairo di W. Allen. La filmografia Zombi non è solo virtuale, è l’attuazione immaginaria che permette la sua realizzazione. Un po’ dovunque gli attivisti, tra contestazione e parodia, hanno organizzato marce festose e impegnate di Non Morti semimarciti, alternative al modello parrocchiale dei cortei politici. Con lo stesso principio di inversione ironica per cui negli anni Settanta vestiva di camouflage chi lo rifiutava come uniforme di guerra. È possibile per acquistare in rete un kit di sopravvivenza nel mondo devastato da un’apocalisse anticipata, e non solo sognata. Dall’apocalissi si attendono, etimologicamente, rivelazioni. Alla condizione di porre le giuste domande. Ne formuleremo una soltanto. La modernità esigeva che i morti seppellissero i morti. Oggi invece è dai morti che viene ai vivi un tacito interrogativo, virale e senza scampo: “Come pensare davanti al passato? Senza un progetto per il futuro!?”

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