Habitat e bellezza

Conferenza a cura del F.A.I.
e del Dipartimento di Pianificazione Urbanistica,
Facoltà di Architettura,
Università di Trieste

Museo Revoltella
Via F. Diaz, 24
Trieste

15 Gennaio 2007

Ore 17,00
Paolo Fabbri Habitat e bellezza


Mary B. Tolusso, il Piccolo, 16 Gennaio 2007, p. 14.


TRIESTE Architetture, comunicazioni, forme, un dedalo di «mezzi» con cui la nostra epoca va a nozze. Tutto è immagine oramai e quel connubio, «Abitat e Bellezza», il ciclo di conferenze organizzate dalla facoltà di Architettura di Trieste, non poteva non coinvolgere chi ai «segni» coniuga una costante riflessione. Paolo Fabbri, il popolare semiologo, è tra gli intellettuali più attenti a un certo tipo di dibattito, lì dove a rivelarsi sono le forme comunicative più tipiche della società contemporanea, a partire dal linguaggio. Scrittore, saggista e docente di Semiotica dell’arte al corso di Moda e costume del Dams di Bologna, Fabbri è stato introdotto all’incontro del Museo Revoltella da Tiziana Sandrinelli, Gianna Crismani e Giovanni Fraziano dell’Università di Trieste. Ma, come si diceva, Fabbri parte proprio dal linguaggio, da una parola come «Venus», Venere, da cui deriva sì l’idea di bellezza, ma anche di malattia, di veleno: «C’è insomma – ha sottolineato il semiologo – una dimensione di veleno nella bellezza e l’idea di bellezza olimpica, pura, è piuttosto difficile da vivere nella nostra epoca». La questione in fondo non è quella della bellezza, piuttosto di quella che Fabbri chiama «estesia», lo stare bene o male in un determinato ambiente, fase prioritaria rispetto a quella estetica. Da qui il concetto di «casa» che non è riducibile a un’idea di «mezzo».Casa quale valore o disvalore in base all’agio che rappresenta, ovvero il piacere di raccoglimento, di sottrazione all’altro. Ma ogni bellezza, appunto, ha i propri «veleni» e se una abitazione diventa luogo di isolamento e inospitalità la casa non funziona: «L’intimità deve stare in una via mediana, quale luogo in cui non essere invasi dall’altro, ma anche spazio da cui si può partire verso l’altro». Ma la casa è anche il luogo del ricordo, spazio in cui trascorriamo tutta la nostra vita e la «casa natale» diviene il parametro della nostra memoria, di ciò che alberga in noi di più intimo. «Insomma esistere è in qualche misura dimorare da qualche parte, un rifugio interiore». Anche se, come è stato più volte ribadito, «il dramma della casa contemporanea è la fine dell’ospitalità dell’altro». Allo stesso modo, allargando il quadro, la medesima riflessione vale per la città, la cui bellezza si misura proprio sulle sue capacità di ospitare, accogliere, «mentre sappiamo molto bene che oramai le città sono diventate “blindate”». Non a caso, continua il professore, le case americane, là dove manca l’ospitalità, sono eccezionali luoghi in cui vengono girati film horror: «I film dell’orrore americani sono tutti domestici e rappresentano case bellissime, ma isolate, terrificanti». L’importante è anche valutare dove inizia il «fuori» per fare in modo che i «veleni» non si trasformino in isolamento, comodità. La fine dell’ospitalità è la principale questione che va a incrociare l’estetica moderna. A parte quella delle «scorie». Problema che Paolo Fabbri affronta col gusto del paradosso: «Far diventare un gusto il nostro disgusto», frase che lo scrittore riferisce a un mondo sempre più orientato a una dimensione di «scorie». È l’epoca degli scarti, dei residui. Forse dovremmo trasformare la quantità in qualità. Chi lo fa per esempio è l’arte, «capace di praticare un’estetica delle scorie mostrandoci, se pur paradossalmente, una possibile via».

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