Danni di guerra


Da: Giorgio Fabre, Panorama, 3 febbraio 1991.


Che cosa c’è oggi in comune tra Jean Baudrillard (il famoso teorico francese della simulazione, colui che ha lanciato l’idea che tutto è pura apparenza, segno, rappresentazione), il politologo americo-giapponese Francis Fukuyama, noto per aver sostenuto che la Storia con la esse maiuscola è finita, e Gianni Vattimo, il maestro riconosciuto del pensiero debole?
Fino a pochi giorni fa la risposta avrebbe potuto essere una sola: sono tutti e tre rappresentanti di una scuola di pensiero laica e, con varie sfumature, a sfondo individualista. Totalizzante (la società-spettacolo, lo spirito del mondo, l’individuo) ma anche rispettosissima delle singolarità degli individui. Oggi, in piena guerra del Golfo, la risposta è un’altra: tutti e tre i personaggi, con le relative scuole di pensiero che hanno alle spalle, sono sotto il tiro incrociato delle più svariate artiglierie. Risultato: qualcuno gravemente compromesso, qualcuno forse si potrà riprendere, aspettando tempi migliori, qualcun altro sta probabilmente cambiando campo alla chetichella. Tutti e tre, comunque, con relative scuole, sembrano in crisi.
Vediamoli uno per uno.
Il primo intellettuale andato ko è stato sicuramente Baudrillard, il teorico più brillante e prolifico della simulazione, un’idea che ha avuto un grande successo nel decennio passato: nel mondo della comunicazione planetaria tutto, dai rapporti interpersonali a quelli politici, non può che essere rappresentazione della realtà e quindi non succede mai niente di concreto, se non lo scambio di messaggi. Baudrillard è rimasto colpito già il primo giorno di guerra. Il 4 gennaio, infatti, coerente fino in fondo, aveva giocato la sua scommessa estrema: pubblicando su Libération un articolo intitolato, ironia della sorte, «La guerra non ci sarà». «La guerra è entrata in crisi definitivamente» scriveva Baudrillard. E aggiungeva: «Noi non viviamo né in una logica di guerra, né in una logica di pace, ma in una logica della dissuasione». La scommessa era ragionata e conseguente a tutte le idee sulla simulazione avanzate dal filosofo in questi anni, dal famoso Sistema degli oggetti (1968) al recentissimo Cool Memories II (ed. Galilée). Così conseguente, che ha finito per essere essa stessa un puro gioco rispetto alla dura realtà. Come Baudrillard stesso ha ammesso: «Mostrare le ragioni dell’impossibilità della guerra proprio nel momento in cui essa deve esserci è una scommessa stupida. Ma non sarebbe ancora più scemo lasciar perdere l’occasione?».
Dieci giorni dopo, il 15 gennaio, tutta la rappresentazione di Baudrillard è andata a gambe all’aria. La guerra, molto semplicemente, è scoppiata. «È la sconfitta di un modo di rappresentare la realtà, quello che separa i nomi dalle cose» spiega Paolo Fabbri, anche lui semiologo, ma su tutt’altra sponda. Ovvero, insieme a Baudrillard, è fallito anche il sistema dell’informazione. «Questa guerra» aggiunge Dominique Walton, direttore al Cnrs francese, «ha dimostrato che non la si può coprire in diretta. Non se ne vedono che dei frammenti, i sogni dei giornalisti più che quelli del pubblico». La guerra diventa una stanza di Gerusalemme dove dei giornalisti parlano e mostrano la stanza stessa.
«È solo uno degli aspetti del superamento della logica dei blocchi» spiega Fabbri. «Prima, l’idea sovrana della bomba atomica da tutte e due le parti garantiva che non sarebbe successo niente. Adesso i blocchi non ci sono più e qualcosa succede per forza, ma l’informazione è troppo poco complessa rispetto alla realtà».
Alla fine dell’idea dei blocchi aveva fatto riferimento pure Francis Fukuyama, ex vicedirettore del settore pianificazione del dipartimento di Stato americano. Fukuyama attualmente non lavora più al dipartimento di Stato, che ha lasciato l’anno scorso dopo il grande successo di un articolo pubblicato su un giornale conservatore di Washington, The National Interest, e intitolato «La fine della storia?». Dopo le dimissioni, Fukuyama si è dedicato a un giro di conferenze e alla stesura di un libro con lo stesso titolo che sta attualmente scrivendo per la Free Press di New York (in Italia il contratto è con la Rizzoli). La tesi dell’articolo, che ha fatto il giro di mezzo mondo, era che la crisi dei Paesi comunisti ha messo fine alla guerra fredda, ma anche alla Storia con l’esse maiuscola. Seguendo le piste di Hegel, Fukuyama diceva: la Storia nasce dai conflitti e ormai, con la scomparsa del comunismo, di conflitti non è più il caso di parlare: ormai l’ideologia liberale si è pacificamente imposta ovunque. Lo spirito (liberale) del tempo ha vinto con i mezzi che gli sono propri, la libertà delle idee e dell’iniziativa economica. «E non importa che strane idee per la testa abbiano in Albania o nel Burkina Faso».
Dopo gli avvenimenti del Golfo si è incaricata la rivista liberal New Republic di spazzolare il teorico del dipartimento di Stato. «Hegel, dunque, non bastava» ha notato sarcastica. In Italia, invece, se ne è preoccupata Rossana Rossanda sul Manifesto: «La storia non è finita» ha scritto. «Certo, non sta seguendo le strade disegnate dall’intellettualità post-marxista e neoliberale, al cui confronto i cartoon di Walt Disney sono l’Iliade e l’Odissea». E Fukuyama da parte sua ammette che il Golfo può sembrare in contrasto con le sue ragioni, ma difende il principio.
Un altro «neoliberale» cui allude Rossanda è Gianni Vattimo. Curiosamente al suo «pensiero debole» gli attacchi sono venuti da due aeroporti molto distanti: dal marxismo ortodosso della stessa Rossanda sul Manifesto e dal moralismo laico-efficientista di Giuliano Ferrara sul Corriere della sera. La corrente di pensiero che ha negato ogni metafisica delle certezze, sostenendo che i dati sono come li si interpreta, viene accusata da entrambe le parti dello stesso vizio: l’incapacità di esprimere certezze.
Si tratta, dopo la sbronza dell’indimenticabile ’89 (con richiami all’89 di due secoli prima) di un anticipato Termidoro del pensiero del ’91? Oppure, come suggerisce Alberto Asor Rosa, «scoppia la guerra e automaticamente scatta, in chiave planetaria, una riedizione della politica degli intellettuali del ’14»? Allora i nipotini di Salvemini, come li chiamava con disprezzo Gramsci, misero in mora il pensiero liberale (Croce in testa) e quello socialista. Oggi viene messo alle corde solo il primo. Anche perché 1’89 aveva già fatto piazza pulita del secondo.
Ma che cosa è veramente sotto attacco? E chi sono gli attaccanti? Un’opinione precisa, in proposito, ce l’ha il semiologo Omar Calabrese. Ancora contro il pensiero debole e a favore della complessità sistemica. «In ogni caso domina una filosofia dell’azione, tanto per i pacifisti, che sostengono che bisogna darsi da fare per trattare, quanto per i guerrafondai. Chi negli anni passati ha sostenuto fosse in atto l’indebolimento del soggetto, dovrebbe solo guardare il generale Schwarzkopf».
Il filosofo della scienza Giulio Giorello, invece, guarda agli ultimi eventi dal proprio punto di vista disciplinare. E nota che la guerra del Golfo sta mettendo in luce i progressi delle tecnologie che le industrie belliche, quatte quatte, hanno portato avanti nel frattempo. Tra i due padri storici della bomba atomica, a lungo in conflitto sul significato del termine «tecnologia», oggi Edward Teller ha vinto su Robert Oppenheimer. La semplice deterrenza non basta più: è necessaria ormai anche l’applicazione tecnologica. «È stata fatta giustizia, semplicemente, di una pia illusione: che pace e progresso tecnologico camminassero mano nella mano» dice Giorello.
Un’altra sensazione di ritorno indietro ce l’ha Mario Isnenghi, che gli effetti degli eventi bellici, per quanto riguarda l’Italia, li ha studiati da vicino (Le guerre degli italiani, Mondadori): «Altro che fine delle nazioni. Siamo davvero tornati al ’14, ai conflitti tra gli Stati. Le nazioni contano, eccome. E le ideologie sembrano tutt’altro che morte».
Addio postmoderno: tra nazioni, ideologie, bombe tradizionali (ovvero V2 riviste e corrette negli Scud), e papa Wojtyla che parla di «inutile strage» come Benedetto XV durante la prima guerra mondiale («Ma quella di papa Benedetto era un’azione diplomatica isolata, ora il mondo cattolico è organizzato» dice Isnenghi) sembra di essere ripiombati (o di essere sempre rimasti) nel pieno dell’epoca moderna, della meccanica, della storia più tradizionale. E un’altra scuola di pensiero vittima degli eventi sembra essere proprio la storia sociale e della vita quotidiana, adatta a sofisticate descrizioni di lunghe epoche pacifiche, ma un po’ disarmata di fronte al compito di spiegare campagne militari, conquiste e gesta di condottieri: «Potrebbe essere di nuovo la volta della storia politica» dice ancora Isnenghi.
Alla guerra, che nei confronti delle idee sembra funzionare come una macchina del tempo (incaricandosi di tirare per la giacca chi s’era spinto troppo avanti con la teoria), sembra destinata a sopravvivere senza problemi solo una delle descrizioni più aggiornate del mondo: la teoria delle catastrofi. Il suo nocciolo è che tutto è così complesso che un battito d’ali di farfalla in un punto del globo può imprevedibilmente provocare un ciclone altrove. E chi ne aveva fino a ieri ottimisticamente dedotto che proprio per questo sarebbe prevalsa nelle azioni umane la prudenza deve solo riconoscere che il ciclone è una eventualità contemplata. Proprio un teorico della complessità come Edgar Morin interpreta così la differenza tra il nostro presente e la prima guerra mondiale: «Nel 1914 lo scrittore Romain Rolland aveva invitato a mettersi “au-dessus de la mêlée”, al di sopra della mischia. Oggi non possiamo più farlo, ma dobbiamo metterci al di sopra della barbarie».

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