Il gusto di Paul Virilio per la parola penultima


Da: AlfaDomenica, pubblicato online il 7 ottobre 2018.


La sparizione di Paul Virilio mi riguarda. È il memento opportuno d’una «dichiarazione spontanea» e di qualche esplicitazione, rispetto ad alcuni interventi apodittici e apodidattici.

1. Il fatto personale. La memoria – ricordi trasformati e attese modificate – mi restituisce Virilio come co-redattore della rivista “Traverses” del CCI, Centre de Création industrielle di Beaubourg – con Michel de Certeau, Louis Marin e Jean Baudrillard; nel comitato scientifico dei “Cahiers d’Etudes stratégiques” del CIRPES, Centre International de Recherches sur la Paix et les Etudes Stratégiques (EHESS); co-partecipante al colloquio pubblicato su “L’Etat nucléaire”, nel numero sulla Guerra di “Change international”, n. 2, 1984 ; condirettore di programma del CiPH, Collège international de Philosophie. Virilio era presidente del Colloquio Images et politique, Rencontres internationales de la photographie, Arles, 1997, a cui ho partecipato con Faire de l’image un monument. (AA.VV, Images et politique, Actes sud/AFAA, Arles, 1998.)

2. Esplicitazioni. Voltandosi precipitosamente verso un autore così produttivo – la traduzioni italiane sono numerosissime – si rischia di rinviarlo all’Ade della dimenticanza – com’è capitato al comune amico, Jean Baudrillard. Una sorte comunque migliore delle spicce procedure d’ imbalsamazione: l’inventore della dromologia, il visionario velocista della tecnologia, il teorico delle catastrofi, e absit iniuria verbis, il massmediologo. E soprattutto il Filosofo, una commenda del pensiero di cui Virilio non si è mai insignito, almeno nella tradizione filosofica francese – divisa tra Sartre e Merleau Ponty da un lato e Koyré e Bachelard dall’altro. E neppure filosofo nell’accezione dell’antropologia scientifica (Serres) o della filosofia empirica (Latour). Più prossimo eventualmente a Guattari, con cui ha vissuto il Maggio Francese – Deleuze era assente giustificato! – e per cui era filosofo chiunque sintetizzasse concetti. Piuttosto che appenderlo alla gruccia proteica dei pop-filosofi – che avrebbe tacciato volentieri di filo-follia – meglio riconoscergli il ruolo dreyfusardo di intellettuale. Pensatore forte, critico nei contenuti e saggista nella scrittura grafica – libri, riviste, collezioni – e visiva ; come provano le importanti mostre: Vivre à l’oblique 1970; Bunker Archéologie, 1975; La vitesse, 1991; Ce qui arrive, 2002; Terre Natale, l’ailleurs commence ici, 2008-9. Esperienze visibili di pensiero e di un’“arte Rivelazionaria”!

2.1 Un intellettuale segnato dalla guerra. Figlio di un emigrato italiano, Virilio ha vissuto l’esperienza del blitzkrieg tedesco prima e poi della sparizione della città di Nantes nei bombardamenti «liberatori». Guerra mondiale e distruzione urbana totale da cui ha tratto un’originale prospettiva verso la velocità e l’architettura, la città e la tecnica bellica. Virilio che ha ricevuto nel 1987 il Grand prix national de la critique architecturale è in primo luogo un urbanista, cioè un architetto appassionato delle arti dello spazio – il teatro e la danza – e dotato d’una visione culturale internazionale. Direttore della scuola speciale d’architettura di Parigi, il suo interesse per i bunker tedeschi del Vallo Atlantico – il Walhalla dei monoliti bauhaus nello spazio militare – viene dalla sua propensione per la Caverna – contro la Torre fortezza – come luogo primario di sopravvivenza e per il cemento come materiale di resistenza. Teorico dell’Architettura Obliqua fatta di spazi interni senza soluzione di continuità attraverso la concatenazione di piani obliqui e orizzontali, ha costruito a Nevers una chiesa-bunker (Sainte Bernadette di Benlay) e influenzato archistar come Jean Nouvel. L’Obliquità è una propensione strategica a sfuggire diagonalmente l’opposizione tra verticale e orizzontale, un ideogramma che lo ha condotto via via fino al suo opposto, alla smaterializzazione contemporanea delle virtualità.
Dopo l’esperienza radicale del Sessantotto – Virilio occupa la Sorbona e il Théatre de l’Odéon – e la delusione che ne consegue, fonda la rivista “Cause Commune” insieme a Georges Perec, come lui segnato dalla guerra. Per entrambi il Maggio ‘68 è un evento culturale, non politico e la sua implosione rimette in causa la realpolitik della sinistra e l’assicurazione obbligatoria dei luoghi comuni. In pieno scandalo Watergate, Virilio analizza la conformazione dell’edificio e nelle indagini urbanistiche studia lo storno (détournement) dei luoghi – chiese che diventano garages, caserme musei e depositi teatri. Ma soprattutto rileva, con Perec, l’Infraordinario di segni banali – né ordinari né straordinari – per dare una lingua e un senso all“antispettacolare giornaliero di cui i giornali non parlano”. Anche se Perec ha aderito dal ‘67 all’Oulipo, Virilio rifiuta di ridurlo ai soli giochi di linguaggio e ne addita la violenza tragica che abiterebbe anche il proprio lavoro. Per lui il nuovo voyeurismo di Perec è – a differenza di Robbe-Grillet – quello d’un nomade urbano che con la scrittura esaurisce sociologicamente e politicamente lo spazio. Espèces d’espaces di Georges Perec (1974) è il primo libro della collana “L’Espace critique”, che Virilio pubblica presso Galilée per riflettere a una nuova branca del sapere che ha chiamato Dromologia. Una disciplina delle traiettorie che si sostituisce alla metrologia, alla geometria delle forme oggettive, che è necessaria per studiare le «onnicittà» multimilionarie, la maggiore catastrofe del XX secolo, che finiremo per lasciare, pensa Virilio, così come i contadini hanno abbandonato le terre.

2.2 Dopo il Sessantotto, si impone la nozione di Evento, messa a fuoco nell’opera di Deleuze e Guattari. Nel paesaggio degli avvenimenti, Virilio coglie la dimensione accidentale dovuta all’accelerazione planetaria della tecnica prima, delle nuove tecnologie poi. L’Incidente, a cui dedicherà lo sguardo trasversale delle sue ricerche, non è solo l’assoluta imprevedibilità dell’evento (accidente in it.) ma il guasto: esito inevitabile quanto impensato di ogni fare tecnico. («È la nave che inventa il naufragio»)! L’attenzione ai sempre nuovi incidenti che capitano nell’ovviare agli incidenti, lo avvia alla definizione di Incidente Integrale catastrofico: con punti di rottura come Seveso, Chernobyl, Fukuyama e la distruzione delle (odiate, babeliche) Torri! Le Catastrofi sono gli esiti implicati nel successo tecnico e non del suo fallimento: più l’invenzione è performante, più l’incidente è traumatico. L’estasi dell’accelerazione che contrassegna l’andatura da Golem della scienza e delle arti tecniche non esige soltanto un principio di precauzione, ma un ripensamento etico e politico. Fino all’urgenza di decrescere e disinventare (v. il caso della plastica e dell’auto)! Soprattutto perché lo svolgersi della tecnica nelle società militari-industriali è sempre orientata, quando non dettata, dalla logistica bellica, dall’invenzione di protesi micidiali, già nucleari ed oggi cibernetiche. La guerra avanza mascherata dal free d’una interattività libera e gratuita. Per Virilio, gli stessi strumenti di comunicazione – da telegrafo alla fotografia e il cinema, dal radar ad internet – sono dispositivi a dominanza ottica ed elettronica, omologati e mutuati nei tecnosistemi di interazione strategica. L’arsenale postmoderno, pronto all’impiego, conta ormai su tre macrosistemi di bombe: nucleare, informatica e genetica – la deliberata, sinistra mutazione della natura umana.

2.3 Il valore della velocità – di cui Virilio riconosce la scoperta alla bellicosa avanguardia del Futurismo – ha guidato le sue ultime osservazioni (v. Futurismo dell’istante nel primo numero di “Alfabeta2”, 2010). Dallo spazio al tempo, dalla topologia alle «nanocronologie»: i mezzi di trasporto, i flussi turistici mettono fine ai tempi locali e ai jet lag. Si sta invertendo il rapporto tra il Sedentario – che sa sempre, comunicativamente attrezzato, dove sta e dovunque vada ed il Nomade, fuori posto in qualsiasi luogo.
Per Virilio la sincronizzazione temporale inquina le distanze e riduce la percezione stessa della Terra, nella sua dimensione ed ecosistema. E’ questa la radice del ripopolamento planetario in corso, diaspore contro le quali è vano dotare lo spazio di muri ( v. la mostra Terre Natale, Ailleurs commence ici, 2008-9). La simultaneità crea nuove inerzie e nuove insicurezze, non solo spaziali ma temporali – il terrorismo infatti è ubiquo e onnipresente. Virilio segnalava nelle ultime opere il fenomeno della sincronizzazione istantanea degli affetti come la matrice di nuovi flussi e addensamenti collettivi e politici. L’emozione concomitante e in tempo reale si sostituisce ai conti fatti degli interessi che hanno standardizzato l’opinione pubblica delle democrazie rappresentative. La sinonimia di informazione e disinformazione (v. le cd. fake news) sono tra gli effetti della mondializzazione: “la più vasta impresa di trasmutazione delle pubbliche opinioni mai tentata in tempo di pace”.
Un «futurismo dell’istante» è il “qui ed ora” d’un presentismo radicale che altera catastroficamente il senso della storia, ma non ne segna la fine. È un’altra storia, incidentale/accidentale, priva della religione civile del progresso che si aggiungerebbe al regime evenemenziale previsto da Braudel.

3. Quest’opera multiforme e radicale, recalcitrante per partito preso e fuori dai marchi disciplinari, ha scontrato critiche virulente: la nota e risibile « beffa di Sokal» contro chi si definiva critico d’arte della scienza e i pamphlet di sociologi per cui Virilio, come il suo amico Baudrillard, non avrebbe “avuto luogo”. La benevola difesa che gli attribuisce il titolo fourierista di «visionario», ne aggrava la posizione. Attraverso la redazione di dossier documentari sulla tecnologia e la guerra, Virilio coglieva gli incidenti/accidenti come segni anticipatori di tendenze e presagi di orientamenti collettivi in via di realizzazione: come il passaggio dallo sguardo ciclopico della dittatura orwelliana agli innumerevoli occhi dell’attuale capitalismo della sorveglianza. Impronte digitali e oculari, dati DNA, identificazioni facciali ottenute con videocamere di sicurezza, doppler radar, droni, lettori di targhe: dall’osservazione panottica fino alla più privata delle tracce.
A differenza dei modelli econometrici spesso fallimentari, Virilio getta sonde e lancia allarmi: nel mondo pragmatico e neorealista dei matter of fact egli si voleva investito da domande ardue e da problemi generali; non cercava risposte preconfezionate e soluzioni chiavi in mano. Il fastidio sollevato dalle sue proposte – un Museo degli Incidenti, un’Università del Disastro, un Ministero della Pianificazione Temporale, includere la notte nel Patrimonio dell’Umanità – era ironicamente calcolato.
Più sorprendente è il rifiuto d’un tratto idiosincratico del suo stile: i neologismi. Virilio non usa parole o immagini chiave da sottoporre a motori di ricerca. Prova, con termini più o meno felici, di farsi carico di nuovi eventi e situazioni, di porre la scrittura al livello degli infra-ordinari disastri che indaga e davanti ai quali la parola quotidiana è in folle. Claustropolis, Dromosfera, Meteopolitica, Magaloscopia, Nanomondo, Postintimità, Telesoggettivo, Tragittografia, ma anche Colonizzazione della telepresenza, Realtà diminuita, Riflesso incondizionato, Spettatore fotosensibile, Tempo multifrattale e via dicendo. Una scrittura sperimentale non diversa nel suo intento da quella delle letterature di avanguardia e dell’operato otticamente scorretto degli artisti – Baj, Beuys, Pollock, Turrell , ecc. – che Virilio prediligeva perché avevano lasciato l‘atelier per il laboratorio.
Come gli sperimentatori, Virilio aveva il gusto della parola penultima: non annunciava sventure ultime, era apocalittico nel senso “revelazionario” del termine. Cattolico fervente, citava Paolo di Tarso: ”Sperare contro ogni speranza” oppure, più laicamente, Winston Churchill: “Un ottimista vede l’opportunità in ogni difficoltà”.

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