Introduzione a un dizionario senza mezzi termini


Da: Algirdas Julien Greimas e Joseph Courtés, Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, La casa Usher, Firenze, 1986 (Sémiotique. Dictionnaire raisonné de la theorie du langage, Hachette, Paris, 1979). Trad. it. di Paolo Fabbri.


1. Il dizionario di una disciplina .troppo recente, in fase di ricerca, incerta del suo linguaggio e sul suo «fuori di sé», di solito è cattivo segno: «trovata» editoriale o crescita zero della teoria. Con questa, importante eccezione: Sémiotique, dictionnaire raisonné de la théorie du langage di A.J. Greimas e J. Courtés. Chi ne riesca la traversata (da Accettabilità a Zoosemiotica), accettando di rovesciarlo più volte, come una clessidra, nel triplo sistema di rinvii interni (v. la posologia introduttiva), è condotto alla conclusione concentrica d’un esito felice.
Dal castello dei lemmi incrociati (in francese, in inglese e in spagnolo) si può·uscire con la sensazione di un conveniente equilibrio tra il microscopio empirico e il telescopio epistemico. Se i termini sono quelli di una introduzione, prevalgono le entrate consacrate alla ricerca in atto. Accanto alle categorie teoriche (da Struttura a Teoria), metodologiche (operative: ElementoClasseCategoriaUnità; e procedurali: IdentificazioneSegmentazioneSostituzione) troviamo ridefinizioni e/o invenzioni di concetti e risultati di ricerca sui linguaggi-oggetto. Per chi sia sprovvisto di senso storico – pratichi cioè la perversa abitudine dei problemi e delle soluzioni piuttosto che delle date e dei nomi – il testo (che abbiamo dotato di indici e bibliografia assenti nell’edizione francese) può offrire il piacere prismatico di ipotesi coerenti e procedure euristiche portanti sul linguaggio e gli altri sistemi segnici.

Espressione provvisoria di una lunga ostinazione, il dizionario si prefigge di rassicurare delle pertinenze: riassumendo prolungate analisi empiriche e definendo senza mezzi termini, di creare inquietudini epistemiche. Le voci ragionate, terminali di un percorso concettuale, fanno economia delle procedure persuasive che accompagnano saggi e trattati; consentono una presentazione paradigmatica e discontinua che ha le virtù e i concertati difetti dell’acentrismo: ridondanza immotivata ed esclusioni arbitrarie. Eppure – ogni benché è, in fondo, un perché – finisce per dare ai ricercatori in semiotica un senso 1 (uno stato di sapere) e un senso 2 (una direzione da prendere): tekmor e peiros, il segno è rotta e stella polare.
Le pagine di queste voci meritano orecchie. E precauzioni metodologiche: il dizionario non intende – come il Lalande di cui veste o sogna la forma – raccogliere in enciclopedia la lingua prebabelica delle scienze del linguaggio e farcire un saggismo verbivoro di giochi gergali. È un ‘falso’ dizionario concettuale, metalinguistico – non un mezzo di comunicazione né una gnoseologia – votato alla descrizione e al costrutto di un oggetto a vocazione scientifica: la teoria semiotica. Non raccoglie gli occorrimenti di una lingua-oggetto per sottoporli alla scelta e agli scarti di un linguaggìo descrittivo. Le sue 644 entrate, denominazioni arbitrarie o «semimotivate», sono esiti di analisi ragionate: la coerenza dei rinvii è calcolata e le lacune sono lo sbocco di operazioni metalinguistiche di concettualizzazione. Il loro perfettibile numero è dettato da una concettualizzazione in rifacimento, in vista d’una non postulabile assiomatica, presupposto di una praticabile formalizzazione, e sotto imperative condizioni di adeguatezza.
Anche ad una lettura alfabetica, si tradisce l’intento: primo, costituzione di un minimo epistemologico, in rapporto ancipite alla gnoseologia e agli sviluppi teorici ed empirici; secondo, vocazione scientifica che mira a un certo sapere (più che a un sapere certo) della linguistica e della semiotica come forme. La gerarchia dei livelli di metalinguaggio non garantisce che il senso non abbia a proferirsi invano, ma la teoria si vuole adeguata (è inesatto che ogni significato possa farsi significante ad altro livello di senso). In ossequio ai principi di pertinenza si richiede una adeguatezza orizzontale (tra termini monosemici coerenti e coesi) e se ne esige una verticale (con il proprio linguaggio-oggetto), sotto pena che l’interdefinizione si indifferenzi nella proliferazione.
Il dettato d’adeguatezza (e il principio empirico) procede a rimaneggiamenti durevoli dell’apparecchio teorico in via ipotetico-deduttiva: costruzione di un livello superiore e inglobante rispetto alle inconsistenze rivelate dalla applicazione e successivo controllo. La definizione segue l’analisi. Gli strati descrittivi non sono però (logicamente) tautologici, così come i termini primitivi non son dati per fiat: il senso articolato più finemente ai piani meno astratti della descrizione non si reitera, ma si accresce, e la descrizione complessiva delle semiotiche-oggetto dovrebbe, in lungo periodo ipotetico, sostituirsi alla teoria semiotica.

Per questa impresa a cui s’era inconsciamente votata la semantica linguistica: descrivere la totalità del senso di una lingua e di una cultura, c’è troppo spazio e poco tempo. L’obbiettività deve darsi degli obbiettivi. Il dizionario è la traccia di come sia di dovere: primo, calibrare gli strumenti e le tattiche di avvistamento (cominciare da universi discorsivi ridotti piuttosto che pretendere un’analisi deduttiva di tutto il lessico d’una lingua naturale, come voleva Hjelmslev); secondo, optare per un ritmo di progresso che, senza accecarsi sull’insierne, proceda a pesare e a pensare le poche scoperte e le trovate fatte per essere perdute (privilegiare l’analisi paradigmatica della comunicazione – i codici degli anni sessanta -, o quella sintagmatica – narratività e inferenze degli anni settanta); terzo, sottoporre l’orgoglio e i pregiudizi della formalizzazione all’assillo della concettualizzazione (quale linguaggio matematico – algebrico o topologico – sarà opportuno se non ontologicamente adeguato?): far voti di formalizzazione può essere vuoto e pio; ad esempio, una linguistica cognitiva e cerebrista non ha le stesse esigenze di una pragmatica e/o retorica della indirezione e dell’implicatura.

2. Limiti di spazio e di pazienza, la natura del testo (più vasto di un trattato e che è rassegna di una scuola) ci sollevano da ogni debito di esaustività ma non dall’apprezzamento dei deliberati limiti teorici e della loro produttività.
Per gli Autori sarebbe una umiliazione attribuire certe dissonanze insistenti ad avversari precostituiti (a quanti vogliono sollevarsi dal pasticcio dei segni e delle lingue naturali per speculare in cielo spirabile, in clima elisio di sensi commendevoli). In luogo di una «onomastica d’avversione» preferiamo descrivere.
Gli Autori, perseguendo la minuziosa esplorazione del paradigma saussuriano e hjelmsleviano, riescono a variarlo fino a punti critici ed eretici; l’integrazione della pratica generativa arricchisce la semantica testuale. In bilico tra l’apatia predicativa dei logici e i predicozzi della filosofia, la parola greimasiana, «fuori campo» dagli sviluppi modernissimi, ritiene tuttavia ed assesta almeno tre limiti della deriva semiotica (iniziata, nel corpo dello strutturalismo, dopo la spaccata tra semiotica e semiologia – v. Semiologia – agli inizi degli anni settanta).

Il dizionario consolida l’ipotesi di Hjelmslev: la semiotica si presenta come «una gerarchia (cioè un reticolo di relazioni gerarchicamente organizzate) dotata d’un doppio modo di esistenza paradigmatico e sintagmatico (sistema e processo…) e provvista di almeno due piani di articolazione – espressione e contenuto – la cui unione costituisce la semiosi». E deve caratterizzarsi teoricamente come «una metasemiotica scientifica, Ia cui semiotica oggetto non è scientifica».
Con un gesto vengono messe in ombra due infedeltà: quella«semiologica», confinata alle compossibili intuizioni della lettura connotativa, e quella logica, che privilegia discorsi scientifici e sistemi formalizzati.

A questa autolimitazione ne segue un’altra, più radicale: il segno non è l’oggetto della semiotica. Semplicemente. Quest’ultima studia i sistemi di significazione (indipendentemente dalla loro manifestazione espressiva), le procedure della loro articolazione tassonomica e discorsiva.
L’evidenza (lessicale, iconica ecc.) si impone solo al semiologo addomesticato, in stato di cattività empirica. Il segno non si riconosce per tipi o per sistemi, per lucidità o per abrasione, ma per ricostruzione d’un percorso generativo complesso che sta alla teoria simulare. Lo sguardo semiotico deve andare sotto la Iinea di galleggiamento dei segni; l’oggetto della semiotica va costruito, livello per livello, nello specchio anticipato della teoria; è un costrutto: l’evidenza empirica funge se mai da falsificazione, non da dato o da prova.

Condizione necessaria per giungere ad una definizione sufficiente della Semantica (generativa, sintagmatica e generale), un percorso conseguente si snoda da Saussure alla semantica generativa (a cui Greimas e Courtés accostano il loro progetto). Articolata al pensiero forte e al postulato di Hjelmslev (la unicità del senso) la semiotica saussuriana è riaffermata e variata in più punti.
La pratica degli scarti differenziali, del senso negativo quindi viene integrata in una teoria relazionale che iscrive i termini come terminali di rapporti; alla concezione paradigmatica l’apporto glossematico aggiunge la dimensione sintagmatica che permette poi l’integrazione di alcuni tratti della riflessione chomskiana (alla cui critica decostruttiva è consacrata parte del dizionario), in particolare l’aspetto generativo e il ruolo strutturante del soggetto non empirico iscritto nella lingua. Tra langue e parole è così possibile allestire una componente enunciativa (Benveniste) dotata di una competenza morfologica e sintattica.
Se alcuni termini che parevano fissi nel firmamento concettuale sono in fissione o in eclissi (la doppia articolazione, la sincronia ecc.), altri vengono arricchiti e confermati: il binarismo, sviluppato nel quadrato canonico; le funzioni comunicative di Jakobson, il cui stenogramma è svolto; l’arbitrario, alleviato dalla sintesi maldestra di Ogden e Richards, permette una ridescrizione in termini di piani e di livelli (Hjelmslev).

Il dizionario non cita e recita, ma risuscita concetti linguistici generali (l’elasticità linguistica) e particolari (l’aspettualità e le modalità), e suscita alcune omologazioni provvisorie (le configurazioni discorsive e i sistemi modellanti secondari dei semiotici sovietici) per mettere in circolazione ipotesi e soluzioni.
La forma dizionario, che si presta a omogeneizzare senza unificare, presenta un approccio generativo (non un tracciato genetico) dei livelli che scandiscono il costrutto teorico greimasiano. La messa a fuoco paradigmatica (strutture semiche elementari e isotopie) e la loro omologazione a trasformazioni logiche fondamentali è integrata sulla dimensione comunicativa, digitalizzando il modello analogico del racconto proppiano in vista di un approccio generale alla comunicazione.
D’altro canto l’autonomia della lingua e dei sistemi segnici (postulato discriminante di Saussure e Hjelmslev) non consente la disinvoltura del rinvio referenziale (sull’impertinenza linguistica del Referente, v. la chiara voce). Per gli Autori il mondo è già un linguaggio biplano, una semiotica naturale, come Ie lingue a cui è variamente correlato (v. Mondo naturale). Questo «mondo del senso comune» si spiega come un linguaggio figurativo articolato in «proprietà sensibili» e dotato di proprietà discorsive. Sono le stesse «figure» che costituiscono iI piano del contenuto delle lingue naturali: con esse, per via prossemica, gestuale, iconica, attraverso i sistemi botanici e zoologici, il mondo «ci dice» senza la mediazione linguistica. Questa ipotesi sollecita assetti più adeguati per la relazione (metodicamente ed oggettualmente perplessa) tra le due «macrosemiotiche»: mondi e lingue naturali; e la realtà, la grama realtà, si farà leggibile almeno come effetto specifico di determinati discorsi, come terminale delle loro calcolabili «procedure di referenzializzazione». Il reale si proferisce, non si riferisce. Il senso primo «denotativo» va costruito in profondità per rendere conto della complessità connotativa dell’evidenza.

3. L’osservanza di questi limiti consente una osservazione attiva: le obbligazioni di formalità son fatte per prendersi delle libertà. Gli Autori si impegnano in un incremento categoriale, alla moltiplicazione dei modi, dei livelli e dei piani, alle conversioni e alle trasformazioni (inter- e intratestuali, verticali ed orizzontali). Si vedano le distinzioni tra trattamento logico e semiotico dei testi: l’opposizione tra tipi di grammatiche (morfologiche, funzionali ecc.) e l’amplia valutazione dell’apporto generativo; l’approfondimento delle tipologie segniche; la messa a fuoco e a punto dei «modi di esistenza semiotica» (v. VirtualizzazioneAttualizzazioneRealizzazione). Le intuizioni, che allargano il quadro concettuale (oltre Brøndal e Hjelmslev), permettono poi molta scepsi teorica applicata alle «mini-semiotiche», cioè ai discorsi costruiti a partire dalle due macrosemiotiche delle lingue e dei mondi naturali (i sistemi modellanti secondari dei semiologi sovietici). La moltiplicazione dei concetti non è praeter necessitatem: l’impiego d’un frasario di predilezione non ha mai impedito di espungere e sceverare. Prima di passare la lama della semplicità, il principio empirico suggerisce di dare qualche soddisfazione alla coerenza e all’esaustività.

Un dizionario non può farsi rassegna degli astri e dei disastri, degli anni e degli inganni della disciplina semiotica. Serve però a dare senso alle parole e a sovvenire poi alle loro bisogne. Tra le più impellenti optiamo allora per la Comunicazione ed i possibili contributi che nelle ultime accessioni il dizionario importa (trasporta e comporta) alle scienze umane. In questo campo di ciechi – e di orbi molto miopi – la semiotica sembra affetta da presbiopia contagiosa. Senza uscire dai limiti prefissi, gli Autori affermano la volontà teorica di una comunicazione (polisegnica) sensata ed efficace. L’orientamento greimasiano, iconoclasta degli idola fori (che si impongono per verba, sive naturam communicativam), aveva già formulato, sulla relazione tra semiotica e teoria dell’informazione, un giudizio che sbriga un lungo sorteggio di omissioni e di enfasi. Questi modelli (riverita la loro importanza storica) hanno ipersemplificato i fenomeni linguistici. L’economia «rigorosa» del senso del messaggio, lo svuotamento delle istanze emittenti e riceventi, l’equiprobabilità presunta dei segnali, non danno conto del funzionamento «interessante» dei segni naturali. Le analogie pratiche (analisi di contenuto psico-sociologica), come le schematizzazioni di metodo (v. lo stato «critico» delle funzioni jakobsoniane in ComunicazioneFunzione) conducono a corti vicoli e ciechi. Nel gruppo d’entrate consacrate al problema la semiotica greimasiana oppone un diagramma comunicativo, integrato nel suo spessore (macro) semantico e nella sua complessità (macro) sintattica; i partecipanti al processo, gli interattanti, sono apprezzati come ruoli attanziali e attoriali che il messaggio stesso rappresenta e trasforma; si marca infine il carattere fattivo e manipoIativo del discorso, la sua capacità di far sapere e di far credere, di far essere e di far fare (sedurre, condizionare e produrre ecc.). L’economia del richiamo extralinguistico permette l’approfondimento interno della rappresentazione testuale proprio qui, dove altri chiedono d’ispessire il testo convocando al soccorso un contesto (subito congedato a profitto di altre discipline, sociologia, psicologia ecc. che evolvono invece sul modello della semiotica). Scendendo nell’astrazione della forma si rinvengono i modelli di forza della comunicazione efficace.
La semiotica incontra la riflessione sugli atti linguistici (segnitivi), nella loro dimensione illocutiva (insegnitiva), e perlocutiva (persegnitiva). Non per sommarla alla dimensione semantica, ma per fondarla su una teoria generale, una semiotica dell’azione, estratta e articolata finemente dalla riflessione centrale sulla narratività. A questa componente, detta semionarrativa, il dizionario acquisisce risultati e indicazioni previsionali: la dipersione dei termini non li rende inaccessibili, dato che li regola un ordine; e una certa difficoltà non li rende meno plausibili. Gli apporti della critica a Propp integrano un modello delle strutture semionarrative disposto in livelli che, partendo da una base logico-semantica profonda (struttura elementare della significazione e quadrato dei suoi termini), si converte progressivamente in piani (semio) sintattici più superficiali fino ad una struttura narrativa di superficie, che è il luogo di intersezione (di investimento) con i diversi sistemi di espressione (fonici, iconici ecc.). La statica strutturale integra «il buono» della dinamica generativa. Il senso del testo non si articola nei livelli ma si svolge in un processo orientato di conversione che conduce alla semiosi.
Un lampo mostra la notte della teoria comunicativa: come dice Freud d’ogni pietra romana, ogni testo è l’evidenza e la memoria della sua storia generativa e trasformativa. La comunicazione si libera dal cabotaggio di superficie (campi semantici e ridondanze lessicali) per l’immersione in profondità. Ecco come: il percorso generativo muove dalle strutture semionarranve articolate in una componente sintattica e semantica. La prima si dispone a sua volta in due piani: sintassi fondamentale e sintassi narrativa; parallelamente la componente semantica si ordina in semantica fondamentale e narrativa. A questo punto, per mezzo del dispositivo d’Enunciazione, avviene la conversione in strutture discorsive: la componente sintattica comporta procedure particolari di discorsivizzazione (AttorializzazioneTemporalizzazioneSpazializzazione); quella semantica si articola in un piano tematico ed in uno figurativo (con le operazioni corrispettive).
Questo sviluppo, influenzato dalla semantica generativa, merita attenzione perché, inserito nell’assetto più generale del modello testuale, può somministrare i piaceri della uniformità e gravità, ma anche piccoli e continui stupori di scoperta. La presentazione dell’attore come intersezione di ruoli attanziali e ruoli tematici e come luogo di trasformazione degli status corrispondenti ci sembra inapprezzabile per una psico-sociologia. Si veda in particolare la nozione di Competenza (vs. Esecuzione) articolata in modalità compatibili (potere, sapere, dovere, volere, variamente gerarchizzate e sovradeterminate) scambiate come oggetti (acquisiti e persi) nel corpo e nel corso del testo. La nozione di Modalità ed il suo funzionamento (demodalizzazione, surmodalizzazione ecc.) è di quelle che possono renderci appunto competenti alla esecuzione avanzata della ricerca empirica (si vedano le modalità veridittive, epistemiche, aletiche e deontiche). In modo originaIe rispetto alle logiche dello stesso nome, le cariche modali, variamente distribuite sugli attanti comunicativi – Soggetto (dell’Essere e del Fare), Oggetto -, ne costituiscono l’esistenza e competenza modale che il Fare realizza.
È la stessa «favola bella» deIla comunicazione, a dissolversi: le formulazioni cognitiviste (sillogistiche e tropiche) e pratiche sono inintelligibili senza un nuovo intorno «fiduciario, inquieto, tentennante e insieme astuto e dominatore». Al di là delle ventilate utopie della carità e degli afosi concetti cooperativi, la stessa nozione ab quo della semiotica si inverte: comunicare non è solo cosa mentale, di consenso e di negozio, è vertenza e dissidio, attesa e sospetto. Gli esseri di carta della narrazione ne simulano la morfologia e soprattutto la sintassi, e permettono modelli di previsione e procedimentì euristici (v. VendettaGiustizia). È possibiIe trarne il massimo vantaggio empirico, e forse di più.
Nella componente semantica della struttura discorsiva un ruolo cruciale ha la elaborazione della nozione hjelmsleviana di Figura (ridefinita nel quadro della analisi semica): offre l’accesso ad un fresco approccio del simbolismo e della motivazione segnica (il semi-simbolismo come omologazione di categorie: «sematopea» e non onomatopea); comporta la possibilità di tipologizzare i testi con criteri immanenti (questi possono essere figurativi o astratti secondo il livello deI percorso generativo a cui si applica la superficie lessico-grammaticale); potrebbe contribuire ad una migliore conoscenza dell’immagine.
Proviamo a seguire quest’ultimo filo nel labirinto dei lemmi. L’icona·per Peirce (segno che somiglia al mondo naturale) non può servirci, se una semiotica si costruisce sull’impertinenza del referente e non considera il segno come unità pertinente. L’icona che la «semiologia» accetta come un’evidenza, ci smarrisce nella tautologica e inestricabile questione della descrizione fatta sulla base di oggetti corrispondenti ai lessemi della lingua naturale (discorso del e sul fotomodello, v. Barthes). La semiotica pone invece all’immagine l’interrogativo sulla illusione referenziale: la assume come terminativo di procedure di referenzializzazione articolate in due momenti, figurativizzazione appunto e iconizzazione. L’immagine è guardata come il costrutto di strategie discorsive che programmeranno il «visore», finché la creda l’immagine: la modalizzi vera, certa e I’assuma (v. Gombrich).
Questa modalizzazione, socialmente e culturalmente variabile, è questione di connotazione, non di denotazione. L’immagine non si commisura alle cose, ma al suo potere di trompe-l’oeil: l’alta definizione iconica è questione di opportunità tattica. In attesa di conoscerne la qualità granulare (plaghe di colore, ritmi ecc.) e forze d’illusione veridittiva, l’icona starà come una falsa finestra sulla facciata delle teorie semiotiche.
Lo studio della funzione poetica e mitica ci aiuterà però a screpolare qualche stereotipo: si può linearizzare la lettura dell’immagine e percepire la lingua in simultaneità, ad esempio. D’altra parte l’immagine, come la lingua, deve porsi la troppo negletta domanda della posizione dell’osservatore (capace di appurare stati o di trasformare eventi in processi; v. Aspettualizzazione). L’incastro di più tessere (FocalizzazioneInserimentoProspettiva) potrebbe introdurre ad una valutazione articolata del «punto di vista» («previsione» è etimologicamente prossimo a «provvidenza»). Ma il pivot della definizione (che, trasformando l’azione in comunicazione vista, instaura ad esempio la differenza tra rituali e spettacoli) è l’Enunciazione e le sue procedure. Questo termine ha radici non più avventizie o aeree nella linguistica (Benveniste, Jakobson); nel dizionario le sue relazioni con I’enunciato sono precisate grazie alla nozione (nuova) di Embrayage/Débrayage d’enunciazione. Questi procedimenti enunciazionali (come quelli enunciativi corrispondenti) non sono isolati o sconnessi, ma disposti in filze e serie di mosse e di tattiche (seduzioni, provocazioni, intimidazioni) che fanno il peso specifico di un testo: nella sua modalizzazione e veridizione (camuffamenti ed occultazioni enunciative ed enunciazionali sono equamente possibili); nella costruzione dell’emittente e del ricevente, iscritti e manipolati nel testo stesso e offerti alla accettazione o alla ripulsa del destinatario «concreto» (l’enunciante e l’enunciatario in quanto enunciati). L’immagine in movimento (cinema, TV ecc.) per fare un esempio, mentre persuade del suo senso e della sua verità, costruisce il suo enunciatario-enunciato con un percorso orientato di «sequenze (e non solo punti) di vista».
Una tipologia discorsiva secondo questi criteri sembra praticabile almeno in via indicativa (discorsi politici e scientifici, pedagogici e storici variano considerevolmente I’enunciazione): tipologia costruita (non ereditaria come i generi), necessaria per valutare il diverso indice di efficacia dei discorsi, la loro «presa». Questo accostarsi alle procedure della messa in discorso è ortogonale rispetto agli approcci del discorso persuasivo, segna una tappa nella comprensione non puramente cognitiva dei testi ed arricchisce la sparuta panoplia dell’argomentazione e quella onusta dei tropi. Dotare il discorso di memoria cumulativa vuol dire tener conto della costruzione progressiva di verità e certezza degli enunciati così come della cancellazione e composizione delle competenze modali e semantiche degli enuncianti e degli enunciatari (per la linguistica testuale qui è Rodi, e qui resta). Una semiotica dell’azione va integrata da una semiotica della sanzione (cognitiva: critiche e calunnie, accuse e scuse; pragmatica: punizioni e premi ecc.) strutturata in filze di atti interpretativi e valutativi e con l’applicazione della modalità del credere (nella sua complessa relazione al giudizio epistemico).
Sempre relata all’azione, un’altra istanza è prevedibile: quella della passione. I termini che il dizionario dispone sono scarsi e imperfetti (v. PauraDesiderio), ma sa place est determinée à l’avance: il modo di determinare, nel gioco della diatesi, gli effetti di senso che trasformano lo stato del soggetto (colto, affetto, dall’azione) Greimas lo ha già segnalato con «collera». Se nell’arco delle ipotesi scocchi lo sguardo analitico, resta da provare, con qualche patema teorico. Ma porre una domanda è già dare la risposta ad un problema: cos’è oggi la pertinenza della dimensione cognitiva infarcita di sapere di credenze e di passioni? L’accelerazione teorica è de-formatrice di concetti.

Questo tracciato, con segnaletica in costante rifacimento, è trasversale alle scienze umane, al processo della loro aritmia. Per il dizionario (Etno-Psico-Socio-semiotica) Propp, Dumézil e Lévi-Strauss sono figure di prua di cui intravediamo le spalle, le semiotiche naturali e costruite rinviano ad una antropologia (il senso dell’uomo e del mondo per l’uomo) di cui i testi sono il field work. Con una curiosità che dilata il quadro della cultura classica, il semiologo trae gli esempi discorsivi da disparati esercizi pratici: storia, sociologia e pedagogia, moda e media, miti, detti, proverbi e racconti popolari, vangeli e sonetti, discorsi giuridici e scientifici, testi pittorici e fotografici, ricette di cucina e scritture cruciverbiste. Per lui definire è ridefinire dopo la descrizione. Dal cocciuto ritorno ai testi si trae l’esperienza necessaria per soffermarsi su ciò che è nascosto nell’evidenza e per allargare le aride e assiologie estrapolate da una dieta unilaterale di esempi. Donde il fermo, implicito giudizio: staccarsi dalla disciplina linguistica e sancire il ritorno ad una proto-filosofia del linguaggio (ma la linguistica non era far filosofia con altri mezzi?) è una innovazione reazionaria, di cui possiamo solo ammirare il virtuosismo nel mantenersi alla superficie del problema.
Il legame tra la semiotica e le scienze dell’uomo altre che la linguistica non è l’unica ragione dell’accennato trasporto discorsivo dalla dimensione informativa e cognitiva a quella proairetica e patemica. Non lo impone forse una mutazione dell’atteggiamento verso la Iingua, la semiotica connotativa d’una società della comunicazione e del consumo dei segni? La nostra, qui ed ora, dove la realtà – la grama appunto – cede in più punti ai suoi (supposti) sistemi di riproduzione? È quanto sembra tentare Greimas nelle ricerche attuali sul discorso etico ed estetico, dove non fa aggio la problematica filosofica di cui il semiotico pretende se mai (horresco referens) di studiare le forme.

4. Torniamo al dizionario: con acribia. Vada per le deliberate idiosincrasie e passi la tautologia di certi rinvii (che è il didattico difetto del bricolage lessicografico); ma la sproporzione tra la parte linguistica e semiotica è ardua da giustificare e certe lacune (Passione, ad esempio) imperdonabili.
Nel dilemma tra impoverimenti e incoerenza, la prefazione chiede però un giudizio per quanto passa sotto silenzio. In attesa della nuova promessa edizione, spetta quindi al consultante di stabilire la lista d’attesa dei concetti. Ci basti piegare la testa verso le parsimoniose lacune della logica anglosassone, della pragmatica linguistica e della retorica vecchia e nuova. E suggerire: alcune soluzioni del dizionario possono indicare all’iniziato esiti imprevisti per problemi in emulsione nelle discipline sopraccitate (atti linguistici/teoria enunciativa; azione e competenza modale; teoria delle figure e del discorso). Inutile stupirsi: l’incandescente attualità, che ci appassiona o disgusta, è spesso il riverbero di vecchi dibattiti.
D’altra parte, se è bene che un dizionario deliberato definisca il campo semiotico – di cui cade il prestigio almeno quanto aumenta l’influenza – la terminologia che l’illustra e l’opprime non si presta alle velate iperboli che, se ripetute, fanno la gloria. Anzi: il dialetto «neobarbaro» delle definizioni (AforiaFemaNegattanteIperonimico ecc.). la ricercata ovvietà degli esempi, il puzzle dei rinvii sono tollerabili per lo sdegno benparlante se affrontati come difficoltà felici. Redatto con intenti divulgativi, il dizionario è in predicato di restare inaudito. Se pur tradotti in moIte lingue, ci sono libri abilissimi nel saltare il proprio lettore. Se accadesse alla semiotica sarebbe spiacevole per tutta la disciplina: oggi in particolare che il gettone del senso non trova più fessure se non filosofiche e che i fecondi contrasti diventano insolubili antinomie. Si conceda quindi un’avvertenza: il fatto che Greimas conosca meglio Tesnière e Brøndal che non Peirce e Prieto non dovrebbe esser posto a suo carico; né gli si addebiti il tentativo di prender sul serio la critica letteraria. C’è piuttosto il rischio che la critica di alcune trivialità generativiste (v. Albero e Regola) e pragmatiche ne faccia un unicorno, reso invisibile dalla propria singolarità. E divenga così il testo sacro di conventicole rituali e dogmatiche, di epigoni e di adepti.
Sia controindicazione il piacere. Ad onta di molti dispareri motivati e ineleganti, il dizionario non si serve di quel pensiero goffo che vuol affermare per questo il diritto all’azione. Anzi: come ogni dizionario richiede invenzione di lemmi e la loro trasformazione in dilemmi; fa assaporare giochi di referenza interna con regole ad hoc, tessuti di anafore e catafore esplicite e implicite. Allora si segua la miccia da termine a termine, e si finga un’ipotesi: questo incompleto leviatano, corpo d’agganci e di sconnessioni, è la versione scientifica dei Frammenti di un discorso amoroso di quell’anti-figura greimasiana che è Roland Barthes (diversi, come il sapere e il sapore). Anche il dizionario è capace di provocare scoperta e sorpresa; cioè quella minima passione che trasforma le proposte in dettami. Proprio per quella riapplicazione d’una propria terminologia che rinfresca la sua forza coll’uso. Non si cerchi verità, che appartiene alla religione e alla logica, alla presunzione e alla stanchezza; non si scordi che è provvisorio, anche se a forza di esserlo può diventare definitivo; che non traccia percorsi obbligati ma itinerari consigliati.
Sarebbe ineducato insistere: avverto i segni impazienti del lettore (cfr. AttesaAspettativaImplicitoOccultazioneSegreto), e vorrei rassicurarlo: ci saranno pagine «seguenti», quelle che la rilettura lascia dietro di sé; e quelle «a seguire» che annuncia una nuova edizione accresciuta.

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