Segnacci di sogno


Da: Paolo Fabbri e Mario Guaraldi (a cura di), Federico Fellini. Il libro dei sogni. Rimini nei sogni e negli incubi di Fellini 1961-1983, vol. 1, Guaraldi, Rimini, 2012, e-book.


“I sogni ci insegnano che esiste un linguaggio per ogni cosa”
(Fellini, iMAGO)

In una lettera a Federico Fellini, l’11.6.86, Tullio Pinelli, coautore di tanti progetti, trattamenti e sceneggiature, richiamava i romanzi di Thomas Mann su Giacobbe e Giuseppe. Per un possibile soggetto narrativo, suggeriva la figura di Giuseppe, che nell’opera di Mann è detto il “Sognatore di Sogni”. Pinelli sapeva a chi stava scrivendo: per Fellini infatti fare film era come vivere i sogni, passando con “convulsa lucidità” dal trattamento notturno della vita vigile a quello diurno delle attività oniriche.
Per Fellini infatti l’attività onirica non aveva un valore retrospettivo e serviva solo secondariamente a capire i meccanismi di un desiderio manifestato o rimosso. Non li considerava come lo strumento di conoscenza d’un mondo interiore, ma come “chiavi dei sogni”. Presentimenti e premonizioni: messaggi provenienti da un universo d’incontri misteriosi, la cui lettura trasformava il suo mondo immaginario. Un’anticipazione creativa non una replica deformata della memoria. Scriverli e designarli, i sogni, non era un’interpretazione, che li avrebbe lasciati come “lettera morta”, ma farli accadere artisticamente, dare loro una prosecuzione nella veglia, un brogliaccio per l’indomani. Per questo accanto alle immagini e alla scrittura troviamo spesso la trascrizione degli I King, che Fellini tirava, come Cage e Philip Dick, per conoscere il futuro prossimo della sua creatività.
Un difficile compito: i sogni sono confusi e imprecisi e il loro scopo non è la comunicazione: forse li ricordiamo a ritroso, dalla fine verso il principio. Forse li cambiamo, o crediamo di farlo nel corso stesso del sognare: come dice di ricordare il protagonista della sceneggiatura del Mastorna: “Se non posso svegliarmi, voglio cambiar sogno. Da bambino mi riusciva di mutare il corso e le immagini del miei sogni”. Perché diventino un’opera è necessario dotarli del rigore e della flessibilità del segno linguistico e visivo. Una trasposizione creativa e fantastica che Fellini non ha mai smesso di disegnare e di scrivere.
“Questo quasi inconsapevole, involontario tracciare ghirigori, stendere appunti caricaturali, fare pupazzetti inesauribili, che mi fissano da ogni angolo del foglio, schizzare automaticamente anatomie femminili ipersessuate (…) e infiniti altri pastrocchi, geroglifici, (…) forse è una specie di traccia, un filo, alla fine del quale mi trovo con le luci accese, nel teatro di posa, il primo giorno di lavorazione” (FF, 68).
Traducendo i suoi sogni e i suoi incubi in un vasto affresco di parole e immagini e “scarabocchiando ghirigori” all’inizio di ogni opera, il grande regista infatti ha raccolto i materiali visivi per costruire il proprio labirinto e i fili d’Arianna per uscirne. Nei suoi stessi termini: film-pilota o lo spirito-guida per una copia di lavorazione “piena di segnacci”, con “la colonna sonora costellata dalla mia voce,dalle mie grida, dai miei suggerimenti (IC, 176).
Gli schizzi e gli sgorbi, “paccottiglia grafica delirante” sono l’accurato resoconto verbo-visivo di trent’anni di vita onirica; non si tratta quindi di opere autonome, ma di fermo-immagini, iscrizioni situate per inseguire e decifrare il processo creativo.
E poiché c’è anche una civetteria onirica, anche il Fellini notturno si meravigliava che Orson Welles stesse “osservando con interesse dei fogli: sono miei disegni. Li mostra agli altri con sincera ammirazione. Tento di moderare il suo entusiasmo che mi pare davvero sproporzionato per quegli scarabocchi” (Sogno del 24.6.77).
Gli scritti e i disegni che compongono il Librone, come lo chiamava il suo autore, non meritano quindi la distrazione dell’occhio puro-visibilista e la disinvolta assegnazione critica al surrealismo. Questi “segnacci” si collocano al di là dell’estetica per interrogarci sul loro significato; sono composizioni pittoriche, certo, ma anche rebus, da leggere secondo il valore raffigurativo e la relazione simbolica. Un pensiero del sogno può essere espresso o inespresso, manifestato da molti segni; oppure un solo segno può essere “sovradeterminato” da molti significati. Anche le parole scritte vengono trattate come immagini: come nel sogno dove Fellini si rappresenta come “UNHAPPY” ed esita tra il senso inglese di “infelice” o UN (italiano) HAPPY (inglese): “uno felice”. Il sogno è il regno dei logogrammi: giochi di parole rese visibili.
I segnacci di Fellini dunque sono ideogrammi colorati che traducono la lingua segreta dei pensieri del sogno. Immagini, diagrammi (v. I King), fumetti e caratteri grafici di molte taglie e dimensioni che manifestano un significato onirico latente di per sé astratto e incolore. Due versioni in lingue diverse di cui è arduo scoprire i caratteri e le regole di sintassi: sono i modi di “raffigurabilità” che Fellini dava al suo sognare. Questa espressione pittorica e concreta è dotata d’una autonomia di identificazioni e di contrasti che riorganizza il materiale onirico, così come, nella poesia, la costrizione espressiva della rima e della prosodia ridistribuiscono con nuove emergenze il significato e il desiderio.
È quanto accade a Fellini nella ricostruzione dei propri ricordi, i quali stanno tra loro “nello stesso rapporto di quei palazzi barocchi di Roma rispetto alle antiche rovine: pietre e colone sono servite per come materiale per le costruzioni moderne” (Freud). Le visioni del sogno infatti non sono immagini-memoria: nel loro sovrapporsi – segni di segni, segni su segni – non c’è profondità. Nella loro compresenza costituiscono una loro segreta “internità” diceva Deleuze – per opporla alla interiorità e all’eternità. Pur riferite al passato, sono serie di attimi senza padrone: in attesa di regia, danno tempo al tempo. Nella successione orizzontale della lettura, sciolti da ogni implicazione narrativa, i segni e i disegni sfilano e si susseguono come ritornelli semantici e visivi.

2.1

Con qualche eccezione, l’unità di raffigurazione del Librone felliniano è la pagina: il regista le dà la forma del manifesto cinematografico a cui ha prestato sempre molta attenzione compositiva (v. la nota lettera a A. Gehlen per l’affiche di Amarcord). Il manifesto infatti è una metonimia del modo “alveolare” della costruzione filmica felliniana: gabbie, nicchie, finestre, ritratti, fotogrammi, scritte – titoli e nomi – su scale e colori diversi. Tutti compresenti sulla stessa superficie, anticipando l’effetto cercato da Fellini nei suoi appunti di regia: “Finire con parti via via più monche, lacerate, frammenti (…) per una magmatica liberazione di immagini” (Fabbri, 96).
Aprire e sfogliare il Libro dei sogni, come è stato intitolato il Librone, introduce al genere della Fantasmagoria, termine calcato su “allegoria”: dove fanta è “fantasia” e “fantasma” e agorein è “dire” e “parlare”. Una Parola pubblica quindi che conserva un sapore contraddittorio e di mistero, per esprimere una modalità peculiare del fantastico felliniano, tra il teatro del varietà, il gabinetto delle meraviglie e la privata esposizione universale. Il “vedere in maniera fantastica i paesaggi del mondo magico (…) non un mondo sconosciuto fuori di te, ma come un mondo dentro di te” (FF, 91).
I luoghi del sognare sono tropi, figure di sostituzione in una scena di metamorfosi. Nei sogni di Fellini tutto diviene impercettibile, diventa altro: animale o persona. Come “l’apparizione di una donna che camminava in un mattino luminoso per via Veneto, infilata in un vestito che la faceva somigliare ad un ortaggio” (FF,57), prima fonte d’ispirazione per la Dolce Vita. O il diventare cavallo di un internato nel manicomio delle Libere donne di Magliano di Tobino (FF, 91). O il suo proprio sentimento di diventare un pioppo (in iMAGO, 29).
Il sognatore stesso può apparire di spalle come qualcuno che non finisce mai di guardare – non di guardarci! – in diversi momenti della sua vita – calvo o con una pettinatura a forma di cuore – oppure come la “canocchia” del suo soprannome di adolescente, nato in riva all’Adriatico (v. Sogno del 18.6.67).

2.2

“Il faudrait tout en se réveillant continuer à veiller sur les reves”
(Derrida)

Molto, quasi tutto resta da fare a chi vorrà entrare ed orientarsi in questo labirinto grafico pieno di senso e difficile nel significato. Fellini, anche se ritrascrive e titola alcuni sogni (v. Il segno del Tao, del 27.12.60, e v. in FF 67-68), li classifica come “ipnagogici” e ne azzarda sovente l’interpretazione, non ci sarà di aiuto. Ha sempre mantenuto il segreto su “la trasparenza enigmatica, la chiarezza indecifrabile” di quello che anche per lui è un mistero (v. Fabbri, 2006).
Azzardiamo soltanto qualche osservazione e progetto sulle figure dei (i) Letterati e il senso dei (ii) Colori.

(i) I Letterati
Con la necessaria precauzione ho analizzato alcuni sogni dove troviamo come figuranti “letterali” Picasso e Simenon (Fabbri, 2001). Ma frequentano i sogni di Fellini Boccaccio e Tolstoi, Pirandello, Borges e Simenon; nonché Buzzati – co-sceneggiatore del Mastorna che gli ha dedicato alcune tavole del suo onirico Poema a Fumetti (1969) – Ginzburg, Manganelli, Palazzeschi, Parise e Tobino; oltre all’onnipresente Collodi.
Per un confronto tra due protagonisti del cinema italiano,collaboratori e rivali , mi propongo per ora di stilare gli ambivalenti sogni, in cui figura Pierpaolo Pasolini (Sogni del 6.2.1961; del giugno 1968; del 28.3.1975; – vivo Pasolini – del 3 giugno 1977; del 26 settembre 1977- dopo la sua morte).
Nel primo, 1961, il sognatore racconta di un “sentimento di tenerissimo affetto”, un rapporto “tra fratellini o forse come marito e moglie” in cui Pasolini esce seminudo dal suo letto di adolescente. Nel terzo sogno, giugno 77, Fellini si figura tra Pasolini e uno dei suoi giovani amici: una disposizione a tre che troveremo anche il settembre 77: “mi trovo in macchina con lui. Pierpaolo è seduto tra me e Titta. Le nostre mani si cercano e si allacciano scherzosamente con tenero affetto”. In una notte luminosa, seguito di spalle da una telecamera, il terzetto avanza chiacchierando, tra le pozzanghere d’una desolata periferia, lavata dalla pioggia e frequentata da enormi topi con ali di pipistrello. Il colore blu del disegno sembra indicare Venezia e i suoi piccioni! Venezia, oggetto di molte immagini e progetti felliniani, che in questa città riconosceva una metafora della propria poetica: “Il mio modo di intendere il cinema o meglio il racconto cinematografico, cioè una serie di tasselli che, come in un mosaico separano, disintegrano il racconto, le situazioni, i personaggi, in una scomposizione molecolare continuamente minacciata da un’ulteriore frammentazione e che pure riverbera nel suo insieme il miraggio di una unità di visione” (Progetto di un film su Venezia, 1992).
Mentre nel secondo sogno 1968, “Pasolini ridacchia con uno dei suoi tetri amanti”, ostacolando il suo lavoro di regista nell’ultimo sogno, a due anni dalla morte di Pasolini, è “gentile simpatico, pieno di buona volontà”. Si domanda sospirando, “sorridente e malinconico”, come descrivere le mura romane incastonate di pietre antiche e marmi moderni che sfilano come una pellicola dal finestrino. Sempre nel sogno, Pasolini fa una piccola parte in un film di Fellini e canta l’aria “festosa e lieta” del Trovatore: “È la vita anche la morte”. “Ho ancora nell’orecchio – scrive Fellini, al risveglio – quel canto, quelle note, e il senso misterioso eppure chiarissimo di quel verso”. Il sognatore si chiede se dovrà essere la scena finale del film, ma ricorda di dover far un’ultima inquadratura a Pasolini e si accorda con lui per il giorno seguente. Il rapporto, sentimentale e artistico con Pasolini non è chiuso dalla morte: questa è solo l’interruzione d’un progetto talvolta conflittuale ma condiviso, di cui testimoniano molti film di Pasolini, ispirati esplicitamente al cinema felliniano. Come l’episodio della Ricotta (1963) dove Orson Welles, interrogato da Pasolini su Fellini risponde: “Lui danza”. O quello di Uccellacci, uccellini (1966), “l’incontro con i guitti”. Mentre nel sogno di Fellini riecheggia, in tutti i sensi del termine, l’enigmatica conclusione de La terra vista dalla luna: “essere morti o essere vivi è la stessa cosa”. Un tema che per Fellini darà l’idea alla base del progetto mai realizzato del film Mastorna, “cioè è la vita anche la morte, come cantavano in quel coretto del sogno con Pasolini” (Lettera a D. De Laurentiis,in Mastorna, 2008).

(ii) I Colori
“I colori naturali impoveriscono la fantasia” (FF, 96). Oltre al repertorio delle immagini, che il gioco degli spostamenti e delle condensazione rende talvolta grottesche e comiche – alcuni sogni hanno la struttura delle gag – nel Librone si trovano indicazioni inesplorate sull’uso “allucinatorio” del colore. Il Fellini notturno infatti sogna quadri e colori che prova a rendere nelle loro strane sfumature tonali. Perché “nel sogno il colore è concetto, sentimento, come nella pittura”. “Chi sogna può vedere un prato rosso, un cavallo verde, un cielo giallo e non sono assurdità. Sono immagini intrise del sentimento che le ispira” (IC,123). Questa “inconsueta chiave cromatica” però, non si traduce alla lettera nel tableau vivant dell’inquadratura. Le esigenze narrative e i cambi di enunciazione della macchina di ripresa provocano un contagio generalizzato: “la luce cambia di intensità, i colori si esaltano o si mortificano, e tutti i valori cromatici non sono più gli stessi”. Per Fellini, “il regista di un film a colori è come uno scrittore che dopo aver scritto ‘la stanza era verde’ va in tipografia e si accorge sulle bozze che la stanza è diventata ‘grigiastra’” (FF, 95). Solo tenendo conto di questa differenza, il colore può diventare il “mezzo con cui tradurre”, cioè rendere espressivi, la struttura e il sentimento una storia. Anche l’uso del non colore: come il bianco e nero della fotografia che nell’onirico progetto del Mastorna doveva significare un'”espressione di morte, di tutto ciò che non è più e che è fissato senza vita in un’eterna immobilità”.
E raccontare era il solo gioco che, per Fellini, soggetto medium e mediale, valesse la pena di giocare.

3.

“Cosa vorresti sognare?”
(Mastorna)

C. E. Gadda pensava che i sogni migliori fossero quelli inventati. In un racconto della Madonna dei filosofi, “Cinema”, dopo una lunga, esilarante descrizione di gremita sala di proiezione: “nella tenebra liberatrice in cui piombammo ad un tratto, ogni urto fu attenuato e il boato delle passioni umane svaniva. I silenti sogni entrarono così nella sala”.
Per intendere in modo nuovo il rapporto tra reale, possibile e impossibile (Derrida) e per suscitare, ripetiamolo con Fellini, altri sogni!


Bibliografia

F. Fellini, Fare un film (FF), Einaudi, Torino, 1980.
– Intervista sul cinema (IC), a cura di G. Grazzini, Laterza, Bari, 1983.
– iMAGO. Appunti di un visionario, a cura di T. Maraini, Semar ed., Roma, 1994.
– Raccontando di me. Conversazioni con C. Costantini, Editori Riuniti, Roma, 1996.
– Il Libro dei Sogni, Rizzoli, Milano, 2008.
– Il viaggio di Mastorna, a cura di E. Cavazzoni, Quodlibet, Macerata 2008.
– Ciò che abbiamo inventato è tutto vero. Lettere a T. Pinelli, Marsilio, Venezia, 2008.

G. Deleuze, Cinema. L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano, 2004.
J. Derrida, Il sogno di Benjamin, Bompiani, Milano, 2003 (1963).
P. Fabbri, Fellinerie, Incursioni semiotiche nell’immaginario di F. Fellini, Guaraldi, Rimini, 2012.
S. Freud, L’Interpretazione dei sogni, cap. 6, 3° parte.
C. E. Gadda, La madonna dei filosofi, Einaudi, Torino, 1963.
J. Risset, Le cheik blanc. L’annonce faite à Federico, Biro, Paris, 1990.
– L’incantatore. Scritti su Fellini, Scheiwiller, Milano, 1994.

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