Jean Baudrillard. Nel linguaggio la seduzione della sfida


Da: Il Manifesto, 7 Marzo 2007.


Nel punto singolare in cui una vecchia conoscenza si trasforma in ricordo, mi chiedo cosa ha saldato la mia lunga amicizia con Jean Baudrillard. Il comune insegnamento nella California del sud a San Diego, quando scriveva America; gli anni del Centro di Semiotica e Linguistica di Urbino, quando parlava di seduzione e di simulacri; la collaborazione nel comitato di «Traverses», la rivista del Centro Pompidou dove si rifletteva – con Louis Marin e Michel De Certeau – sui temi dell’alterità e dell’esotismo, dei media e del male, degli animali e dell’epidemia.
E ho trovato una risposta plausibile. La passione condivisa per le parole, ovvia per chi si considerava un allievo trascurato del Roland Barthes delle Mythologiques (America era la risposta all’Impero dei Segni). Per chi non mira a un sistema concettuale, a un pensiero definitivo, costruttivo e edificante, il fascino del linguaggio sta nella capacità dei suoi termini di funzionare come embrayeurs del pensiero. Ma più ancora come operatori di seduzione e di magia che evolvono in forma di spirale mutandosi l’uno nell’altro. Passando da una parola all’altra, si creano le condizioni indecidibili e sperimentali di quell’emergenza impredicibile che ha un pensare autentico e sentito.
Baudrillard aveva annotato di recente il suo lessico di predilezione: entrate o termini come Oggetto, Valore, Scambio simbolico, Seduzione, Osceno, Trasparenza del male, Virtuale, Aleatorio, Caos, (la) Fine, Crimine perfetto, Destino, Scambio impossibile, Dualità. Un dizionario concettuale che egli ha disposto nell’ordine in cui è emerso dai suoi pensieri nella sua scrittura frammentaria e inclassificabile, lontana da ogni trattato e disciplina.
La radicalità del suo attivismo teorico e del suo impegno di pubblicista ha radici riconoscibili nel pensiero di Bataille. L’esito singolare è quello di un manicheismo senza riserve, un pensiero antitetico della sfida e della reversibilità senza sintesi e compromessi. Nell’analisi della cultura contemporanea Baudrillard ha portato un pessimismo che gli è stato rimproverato – nell’università si è fermato al ruolo di assistente! – ma ha mantenuto intatta la tensione di un principio speranza. “Il pensiero” – diceva (e mi duole questo imperfetto) – “deve giocare un ruolo catastrofico […] e di provocazione in un mondo che intende epurare ogni cosa, sterminare la morte, la negatività. Ma deve restare umanista, attento all’umano e trovare cosi la reversibilità tra il bene ed il male, l’umano e l’inumano”.
Il ricordo, diceva Nabokov, è una festa nelle tenebre dove scintillano luci che sono frammenti di specchi. Ecco: la passione di Bill – come gli amici chiamavano Jean Baudrillard – per l’Italia e il Giappone; la sua America inventata, come eterotopia rispetto alla Francia; il suo interesse per gli scrittori tedeschi di frammenti, Canetti e Lichtenberg – era agregé di letteratura germanica; la predilezione per la fotografia, la scrittura privata delle sue Cool memories, il gusto per le automobili e i deserti. E ancora, le sue preferenze artistiche, dalla pop art a Warhol, e la ferma persuasione che l’arte contemporanea è nullità. La sua voce… E il titolo di un capitolo nello Scambio simbolico e la morte: “Ma mort partout, ma mort qui rêve”, la mia morte dovunque, la mia morte che sogna.

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