Workshop in Metodologia della critica d’arte

Corso di Metodologia della critica d’arte
Scuola di specializzazione in storia dell’arte dell’Università di Bologna
Docente Prof. Paolo Fabbri

5 – 9 Settembre 2005
Belluno

Relazione

Il workshop in Metodologia della critica d’arte, che si è svolto a Belluno nella prima settimana di settembre, è stato interamente dedicato all’analisi dell’opera-video di William Kentridge Journey to the moon (2002), presentata quest’anno al Padiglione Italia della cinquantunesima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia. L’opera, un’installazione composta da video di vario formato proiettati sulle pareti di una grande sala buia, costituisce, a nostro parere, uno dei migliori contributi della Biennale.
Per la difficoltà della sua lettura, il lavoro di Kentridge stimola innanzitutto rilevanti questioni di ordine metodologico. Di fronte alla competenza dell’artista nella manipolazione della pellicola, nella combinazione di media e di generi diversi, nell’integrazione ricercata della forma musicale (a cura di Philip Miller), l’effetto di senso globale che inizialmente si ottiene è quanto mai confuso. Che tipo di approccio adottare ai fini dell’interpretazione? L’accumulo di dati biografici e di aneddoti sul conto dell’autore non può mai fungere da grimaldello esplicativo dell’opera. Rappresenta solo un rifugio, un contatto con la terraferma rispetto al terreno accidentato che tuttavia l’artista ci chiama ad esplorare. L’elemento biografico può ben avere un primato nella cronistoria della vita di un uomo, ma non può risolvere i problemi legati ai valori di un testo, che viene concepito come fenomeno unico e irripetibile. Lo stesso strumento dell’intervista si rivela un’alternativa tragica: da una parte incoraggia la falsificazione, come dimostrano le risposte di Maurizio Cattelan – date sempre per telefono o via mail, perché in realtà improvvisate dal suo socio sodale Massimiliano Gioni -, dall’altra trasforma il critico in un promotore pubblicitario. Emerge allora la necessità di ritornare ad un’impostazione filologica, per recuperare l’accuratezza dell’analisi. La semiotica può essere considerata erede di quella tradizione, proseguita però con altri mezzi. Tenta di mettere in atto l’ipotesi di Coleridge secondo cui «bisognerebbe costruire una disciplina come l’esemplastica». Sotto questo aspetto, per altro, il video di Kentridge è una delle migliori dimostrazioni dell’idea che il senso di un’opera resta vago fino a che non viene ricondotto al suo significato.
Valeria Burgio, dottoranda del circuito veneziano (Scuola di Studi Avanzati) che porta avanti una tesi proprio sulle tecniche di sperimentazione impiegate dall’artista sudafricano, fa una chiara e concisa presentazione dell’argomento. Ci informa dell’attività di documentarista intrapresa da Kentridge, mirata soprattutto al recupero di frammenti di cinema d’archivio, e ricorda i lavori realizzati a partire dal Faust di Wolfgang Goethe, dall’Ubu Roi di Alfred Jarry, da La coscienza di Zeno di Italo Svevo. Indica la necessità di differenziare la fase in cui le opere venivano esposte separatamente dai disegni preparatori, di solito in sale adiacenti, dalla fase “composita” di focalizzazione della prassi del disegno. In questo secondo e più recente periodo si passa dai “disegni per proiezione” alla “proiezione per disegni”, ottenuta grazie all’inversione della pellicola. A livello teorico il cambiamento incita ad una ridefinizione del concetto di cinema di animazione: per pervenire al genere è sufficiente manipolare la pellicola. Così, gli effetti di animazione nei quali inizialmente consisteva tutta l’opera diventano in seguito porzioni di film dal vero, che usano per lo più le categorie dell’apparizione/sparizione e dell’accelerazione/rallentamento. Riguardo a Journey to the moon, Valeria Burgio cita innanzitutto la fonte di ispirazione, i Frammenti di Georges Meliès, ma preferisce parlare di un omaggio dell’autore al grande cineasta, piuttosto che di un caso di remake. Sottolinea, a latere, la passione di Kentridge per i film di fantascienza e rileva nell’opera l’accostamento riuscito tra la figura dell’artista e quella del prestigiatore, fondata sull’isotopia dell’animazione di ciò che è inanimato. In generale osserva il curioso dispositivo di autoraffigurazione in forma domestica. L’artista è intento a cercare spunti creativi negli oggetti che più gli sono congeniali: i libri, geometrie nere astratte su fogli di grande formato (le cosiddette “pagine bianche”, ricche del nostro substrato di esperienze e di conoscenze), il piano di lavoro, altri disegni. Cammina nervosamente avanti e indietro, come poi faranno la modella e le sagome del paesaggio lunare. Si procura un leggero ma adeguato corredo per il viaggio – un servizio da caffè monouso al completo: caffettiera, tazzina, piattino, cucchiaino – e con questo inventa gli spazi, lavorando a forza di cancellazione e di riscrittura. In Journey to the moon – conclude la Burgio – l’autoritratto sposa la rappresentazione della scenografia del produrre.
Condizione imprescindibile per l’intelligibilità di un testo è, a detta di Algirdas Julien Greimas, la sua rilettura. Si interpreta l’opera cominciando dalla fine, per presupposizione, a posteriori, e non per consecuzione. Fabbri menziona Anton Cechov, il quale dichiarava che in un dramma, se uno pianta un chiodo nel primo atto, nel terzo atto ci si deve impiccare. Nella metodologia semiotica la ridondanza facilita l’avvio della procedura di segmentazione. Il primo tentativo di analisi del testo non può che coincidere infatti con la sua scomposizione: lo si suddivide provando a individuare blocchi a sé stanti. È un’operazione che si fonda sulla norma della puntuazione; i criteri, quando si tratta di testi non letterari, sono di ordine spaziale, temporale e attoriale. Rispetto al filmato di Kentridge interveniamo distinguendo i piani-sequenza in base all’ipotesi della progressiva comparsa di formati-quadro di tipo diverso, inscatolati nella storia come supporti del lavoro dell’artista. È una prassi oramai cristallizzata nella storia dell’arte, tanto da costituire generi a sé, come quelli dell’atelier dell’artista e del museo immaginario. Per una conoscenza esaustiva dell’argomento, Fabbri dà un’indicazione bibliografica precisa, la ricerca svolta da Victor Stoichita ne L’invenzione del quadro (1998). Propone un parallelismo tra l’opera di Kentridge e uno dei capolavori discussi dallo studioso rumeno, L’atelier del pittore di Gustave Courbet (1854-1855). Il confronto è determinante soprattutto per il tema della relazione tra l’artista e la modella. Il fotogramma dei due corpi di schiena che guardano il quadro, visibile nella scena di punta del filmato, è effettivamente mutuata dal brano della tela di Courbet. Tornando all’analisi, decidiamo di ricavare i segmenti del video effettuando uno stacco ad ogni mutamento di focalizzazione. L’applicazione del metodo risulta illuminante: l’insieme indeterminato di immagini percepito al primo impatto ritrova ora la sua coerenza. Le varie inquadrature aprono su configurazioni spaziali riconducibili alla categoria essenziale interno – l’atelier di produzione artistica, che coincide con il setting di preparazione al viaggio – esterno – il paesaggio lunare. Resta da vedere cosa accade nel momento in cui i due spazi si connettono, ovvero nella fase della spedizione. Ed è da precisare il ruolo che gioca il soggetto femminile. A questo punto si elencano in sintesi le simmetrie di contenuto individuate: il viaggio spaziale, l’amore e a livello enunciazionale l’atelier dell’artista, dove il viaggio e il desiderio della donna si manifestano e prendono senso. Temporaneamente, ci colpisce il fatto che il sentimento dell’amore sia rappresentato ma non agito: il video allude al contatto tra i due personaggi, ma è una possibilità che non viene presentificata. La presenza della donna è allora circostanziale o fondamentale? Non c’è erotismo – si dice – perché il nudo resta mediato dalla nudità. Rientra nell’invenzione di un universo immaginario: la figura femminile è un ideale e il contatto, in questo ordine di cose, rappresenta un’utopia. Sull’altro versante desta interesse che il sistema cosmico sia rielaborato nei luoghi del quotidiano. Nel costruire la propria assiologia l’artista, oltre ad essere prestigiatore, veste i panni dell’esploratore.
Fabbri torna quindi sull’importanza della descrizione, che ritiene equivalente a un esercizio di grammatica e utile alla decifrazione di idiomi. L’analisi del testo – afferma – è rispecificazione dell’esperienza e rimedio agli abbagli. Approfondire la conoscenza di un’opera non significa perdere o escludere le altre ma considerarla un esemplare che potenzia le nostre competenze di sguardo su livelli diversi, descrittivo, metodologico, teorico e filosofico. Professando una teoria morfologica contraria allo storicismo, perché fondata sulla regola dell’ottimismo hegeliano secondo cui “Tutto ciò che è reale e razionale e viceversa”, lo studioso sostiene che ogni indagine empirica porta a ripensare il sistema applicativo. Va sottoposta, ad esempio, ad un controllo filosofico ma che è sempre richiesto dall’opera stessa. L’analisi respinge perciò l’utilizzo della citazione in modo decorativo. A proposito delle sperimentazioni del video, Fabbri ricorda che la pittura appartiene al regno umano ma anche ai regni vegetale e minerale. Il più grande problema è stato da sempre quello di riuscire ad animare la creatura. Si ammette, di comune accordo, che nel filmato di Kentridge la colonna sonora ottiene questo effetto, anche sovrapponendo linee melodiche in simultanea, con tecniche di contrappunto. Dalla visione del lavoro di Georges Meliès emergono altre questioni interessanti. L’opera, che ha tutti i tratti di un vaudeville, appare un progetto artistico impiantato nel mondo della scienza. Sembra anche parodiare i Voyages Extraordinaires di Jules Verne. Ci si chiede, allora, se Kentridge abbia prodotto un cambiamento di genere o se non abbia piuttosto realizzato la parodia di una parodia. In ogni caso provengono da Meliès componenti quali il paesaggio con torrette, il cappello a cilindro, le sagome e soprattutto il fumo.
In fase avanzata diamo risalto alla funzione del libro, un’enciclopedia della scienza che compare a più riprese, oggetto “magico” utile alla traduzione del sapere in figure. Ed esaminiamo più da vicino la performance dell’autore. Per l’assemblaggio di elementi disparati Fabbri parla di bricolage (Lévi-Strauss, 1962), forma di razionalità artistica che spesso fa nascere chimere. Nota inoltre l’animazione dei caratteri tipografici, la cui sostanza espressiva arriva a simulare una costellazione di formiche. Del resto, molte scene sono giocate sul ribaltamento improvviso tra prospettiva dall’alto – l’artista chino sul piano di lavoro – e prospettiva dal basso – da quando lo stesso personaggio, con un telescopio artigianale, scruta il quadro-firmamento. Ma proprio perché il suo fare è vicino a quello di uno stregone, l’attore sviluppa la dimensione gestuale cimentandosi con le sostanze del fumo, del caffé, dell’inchiostro, del carbone. I materiali, ravvivati dai sortilegi dell’artista, si autonomizzano e agiscono intersoggettivamente. A fasi transitive si alternano così fasi riflessive, in cui l’autore assiste alle prestazioni del significante: appaiono e si sviluppano rapidamente linee, cerchi e traiettorie. Il lavoro del pittore trasforma così il pittore stesso. Fabbri apre quindi una breve parentesi per dimostrare che l’esperienza percettiva della materia rimane indistinta finché non la si coglie come sostanza, ovvero come materia che ha già incontrato una forma, dentro cui è stata posta. In semiotica la forma gode perciò di un’assoluta primarietà rispetto alla sostanza: ha un potere costante di selezione e di organizzazione della massa amorfa e variabile. Lo studioso scopre poi una rima tra l’atto lievissimo del frotter e l’accenno di carezza rivolto alla donna. È un passo decisivo per la comprensione del rapporto che lega le due isotopie, ovvero il viaggio verso la luna e l’attaccamento alla modella.
Svolte le analisi relative al formato di descrizione dell’immagine, si passa ad indagare il formato di comunicazione. In primis constatiamo che l’artista non compie mai atti di apostrofe diretti verso lo spettatore. Il suo sguardo cerca la modella ed unitamente è concentrato sull’opera; il corpo è spesso di spalle. Più che coinvolgere attraverso i sensi, il video influenza e rende partecipi tramite gli spostamenti di macchina e le variazioni dei punti di vista: improvvisi passaggi da inquadrature medie a primi piani, zoom, stacchi tra sequenze. Il montaggio non dà effetti di fluidità ma è concepito per provocare rotture e dislivelli (restituiti proprio come differenze di quota). Dallo studio della prospettiva musicale, risalta l’aderenza alle immagini, con tempi in cui l’acustica si avvicina ed altri in cui invece si allontana. Lo spettatore diventa allora la somma delle avventure di visione e di suono messe in campo. In termini passionali, osserviamo la trasformazione avvenuta dal ribollire di impulsi del video di Meliès al controllo di emozioni del filmato di Kentridge. Le passioni dell’artista sono condizionate dallo stato imperturbabile della donna, che si manifesta con una mancanza di transitività. Donna e artista non si guardano mai. Così, l’attiva costruzione della curiosità lascia progressivamente posto ad una dimensione passiva di nostalgia e di desolazione, dal sapore romantico. L’atterraggio sulla luna riesce, e si accompagna alla levitazione e alla perdita di gravità, ma coincide con il fallimento del programma sentimentale. Personificazione dell’idea del nudo, la modella è un essere con cui è impossibile congiungersi. L’artista, però, non rassegnato, riprende la sua ricerca e torna sulle tracce della donna, che sta per abbandonare l’atelier. La vediamo avanzare come ombra verso il quadro astratto, dopo essere stata di carne e per ridiventare di carne una volta raggiunto il suo suolo. L’ultima scena ne conferma l’appartenenza al pianeta della luna: il paesaggio, infatti, è lo stesso. L’intervento di una spirale sigla la combinazione tra i due spazi, l’interno, quello dello studio e della produzione artistica, e l’esterno, l’universo della luna, che è dimora degli ideali. Nella sua interezza, l’opera racconta una storia altissima eppure estremamente concreta, calata nel quotidiano. È sempre questa la ragione per la quale l’arte – conclude Fabbri – costituisce un’esperienza fondamentale della vita.
Esplicitati i meccanismi di significazione di Journey to the Moon, qualcuno suggerisce di guardare il video di Kentridge ispirato a La coscienza di Zeno. Ci si immagina, forse, che dopo tanto e accurato lavoro di analisi, la comprensione di un’altra opera dello stesso autore possa risultare semplice, o per lo meno semplificata. Quale sorpresa nel capire, a proiezione avvenuta, che qui siamo davanti ad un progetto diverso e che dunque il nostro compito, se vogliamo trasformare le prime impressioni confuse in sistema coerente, dovrà essere, nuovamente, di rileggere e descrivere…

Tiziana Migliore

Riferimenti bibliografici

Fabbri, Paolo
“Pensieri del corpo nudo”, in AA.VV., Il nudo tra ideale e realtà, Artificio Skira, Milano, 2003.
Lévi-Strauss, Claude
La pensée sauvage, Plon, Paris, 1962 (tr. it. Il pensiero selvaggio, Il Saggiatore, Milano, 1964).
Stoichita, Victor
L’instauration du tableau, Méridiens Klincksieck, Paris, 1993 (tr. it. L’invenzione del quadro, Il Saggiatore, Milano, 1998).

Ah, se lo dici tu…! Le vedute degli studenti

Vengono qui riportate alcune riflessioni degli studenti dello stesso Workshop, in forma di e-mail inviate al Prof. Fabbri.
Il pensiero che qui tento di formulare è in realtà un quesito, e riguarda naturalmente un punto che è stato toccato durante il nostro stage di Belluno. Leggo nel suo scritto: “Il nudo è da sempre un metagenere… Il solo, per Berenson, a stabilire una comunicazione perfetta”. I miei appunti, limitatamente al tema della nudità, conservano questa sua espressione: “mediazione artistica”. Il nudo, nel filmato di Kentridge, rappresenta la ricerca di una perfetta trasparenza dell’opera, una sua comunicabilità assoluta e immediata? E in questo, richiama il rapporto tra l’opera e lo spettatore? Ora, non ho sufficienti conoscenze per dare a questi termini – “trasparenza, comunicabilità, immediatezza” – un fondato valore semiotico. Per cui, mi si perdonino inevitabili ingenuità.
Cercherò di argomentare le ragioni di questa domanda. Leggo ancora: “La sua superiorità stava nel render sensibile il linguaggio delle forme”. Uno dei punti fondamentali della sequenza narrativa del film in cui compare il nudo femminile è l’assenza di sensibilità. Kentridge non lo vede, e quando lo tocca scompare. La donna appare come un’ombra che soltanto si fa sfiorare, intuire si potrebbe dire (quando si toccano essa svanisce; allo stesso modo ci tocca un pensiero che nasce e muore prima che ad esso si adatti una forma d’espressione). La presenza del nudo nel filmato di Kentridge coincide con un momento altamente patetico. Non credo che in questo segmento della narrazione abbia valore tanto il significato sentimentale suggerito dal rapporto “negato” tra l’uomo e la donna, quanto la sfuggente ricerca di un rapporto di assoluta evidenza tra l’opera e lo spettatore. In questo caso Kentridge stesso accoglie in sé lo sguardo dello spettatore, lo inserisce attraverso il suo recitato nella narrazione: quando riflette inquieto camminando per la stanza “inseguito” (si potrebbe, metaforicamente, dire “tormentato dall’idea”) dalla donna; quando, con lei alle spalle (chiara l’analogia con l’Atelier di Courbet) si avvicina alla finestra. Questo punto mi pare importante, e per chiarirne il motivo cercherò di fare un paragone. Nei dipinti di Boccioni la finestra (si pensi a Visioni simultanee, 1911) ha lo scopo di oggettivizzare il dipinto, suggerendo che ciò che è luminosamente rappresentato all’interno del quadro è in realtà ciò che sta al di fuori del quadro. La finestra è infatti “sbarrata” e diviene specchio (è Louis Marin se non erro a sostenere che la superficie dipinta è ad un tempo finestra e specchio; quanto più la presenza della superficie è resa invisibile, tanto più la rappresentazione acquista visibilità), a sottolineare che il quadro (la finestra) equivale alla sua superficie, che è oggetto tra gli oggetti e l’immagine stessa dell’osservatore che guarda verso l’interno del quadro è riflessa, rigettata all’esterno. Nel caso del nostro film invece Kentridge finge di guardare all’esterno del suo studio per guardare all’interno dell’opera, come a voler rappresentare lo sforzo che lo spettatore deve fare per guardare “fuor di metafora” (il viaggio sulla luna) e addentrarsi nell’opera potendo soltanto intuire ma non esperire coi sensi la “comunicazione perfetta” (il nudo alle spalle che tocca e svanisce). Per Stoichita la figura di spalle rivolta verso il paesaggio è l’inserimento “pronominale” dello spettatore; un invito, dunque, a spingere lo sguardo all’interno della rappresentazione. Kentridge mette in scena non soltanto dunque l’insoddisfazione dell’artista, ma anche il lavoro interpretativo dello spettatore. Non compie la stessa operazione cui noi siamo stati costretti nello stage di Belluno per dipanare il significato di questo film? Tutti abbiamo certo intuito che il “viaggio sulla luna” è il percorso della creazione di un’opera, e allo stesso tempo ognuno di noi ha faticato per dar struttura a questa intuizione (digiuni, o quantomeno appena informati, sugli strumenti della semiotica).
Il fare dell’artista ha il suo culmine, si può dire, a cose fatte, ma lascia quel tanto d’amarezza, analogamente ad un rapporto non corrisposto, nell’incapacità di aver dato all’opera stessa la forma della “comunicazione perfetta”, incapacità affermata dalla presenza insensibile del nudo.
Il filmato si chiude infatti con quella immagine “in negativo” che già avevamo visto nel primo segmento della narrazione. Kentridge primaguarda con il suo “microscopio affettivo” (un oggetto della sua vita domestica, la tazzina, che fa parte del suo lessico privato) la tavola e i suoi oggetti, poi si volge verso l’alto e li ritrova rovesciati. L’artista arriva sulla luna, l’opera è portata a termine, ma la sua presenza mette in luce una privazione, e presenza e privazione sono incarnate da quel nudo che appare e scompare. È come se Kentridge decidesse di riproporci la stessa immagine per mettere in evidenza quanto di differente essa contenga durante il concepimento e in seguito all’evento della realizzazione, o dell’allunaggio. In seguito all’evento la donna, nella forma sfuggente dell’ombra, ritorna nel dipinto, come a voler significare che quel simulacro (ciò che appare nell’ultima immagine proposta dall’opera) è quanto di più perfetto, in termini di comunicabilità, sia stato in grado di definire.
Alessandro Gazzotti
Buongiorno prof. Fabbri,
sono Daniela Caponera e le scrivo in merito al corso da me seguito a Belluno di Metodologia della critica storico-artistica, avente come argomento principale l’analisi del video di William Kentridge, presentato alla Biennale di Venezia. Premetto di essermi sentita abbastanza disorientata alle prime lezioni data la mia totale estraneità al campo della semiotica: sono, infatti, laureata in storia dell’arte medievale e, non avendo mai seguito corsi di semiotica, estetica, fenomenologia degli stili…, molte categorie e concetti da lei usati sono risultati per me del tutto nuovi. Ho trovato, però, molto interessanti alcuni suggerimenti di metodo, su cui, pur mettendoli in pratica a volte, non mi ero mai soffermata abbastanza, come l’esigenza nell’interpretazione di un’opera di non farsi deviare dagli aspetti più eclatanti, ma di formulare un’interpretazione solo alla fine, risalendo verso i caratteri più manifesti tramite presupposizioni e segmentazioni interne del contenuto dell’opera. Anche il rivedere più volte il video, mi ha ricordato dell’importanza dell’analisi dei particolari, anche se forse a Belluno si è rischiato, a mio parere, di finire in una ricerca quasi ossessiva del dettaglio, perdendo a volte di vista il contenuto principale dell’opera. Probabilmente si tratta della diversità di approccio dello storico dell’arte rispetto al semiotico. Per quanto riguarda nello specifico il “corso monografico”, devo dire di essere stata molto colpita dal complesso dell’opera di Kentridge, artista a me sconosciuto in precedenza. Ho trovato estremamente interessanti le poetiche da lui trattate, così come la manipolazione delle diverse tecniche usate per esprimerle.
Il video preso in esame più dettagliatamente, sempre a mio parere, non va letto in chiave sentimentale (inteso questo casomai come valore aggiunto), ma è una metafora del processo che porta l’autore alla creazione artistica, attraverso un viaggio non fisico, ma del tutto interiore. È la ricercadell’ispirazione, evidenziata dal simbolo ricorrente della spirale e concretizzata nella figura della donna (da sempre simbolo della bellezza e quindi dell’arte), che l’autore non riesce a toccare in quanto non c’è niente di più impalpabile e indefinibile dell’ispirazione stessa. È un qualcosa che l’artista trova non facilmente, ma solo guardando in profondità dentro se stesso: tutto ciò è esemplificato, nel video, da Kentridge che guarda il paesaggio lunare fuori dall’astronave (per lui il regno della creazione artistica) tramite una tazzina (invenzione iconografica tipica dell’autore che si pone come mediatore sia con l’esterno che con l’interno), scorgendo semplicemente una serie di personaggi informi e arrivando alla vista della donna solo nel momento in cui aggiunge altre due tazzine alla precedente, formando così una specie di cannocchiale che potenzia la visione e permette di andare al di là delle semplici apparenze delle cose per coglierne il vero significato. Alla fine l’artista trova l’ispirazione e questo momento è presentato nel video come qualcosa di folgorante, di decisivo, sottolineato dall’interruzione improvvisa della musica e dal violento impatto con il suolo lunare. L’immagine della donna, dunque, da ombra diventa carne, proprio per simboleggiare l’ispirazione artistica che prende forma nella mente del regista.
Tuttavia essa, pur lasciando una traccia indelebile nell’artista, ritorna al mondo da cui proviene, in quanto appartiene ad esso e forse anche per simboleggiare che la conquista dell’ispirazione da parte dell’artista non è mai qualcosa di definitivo, ma la ricerca di poetiche significative va continuamente rinnovata.
La ringrazio per le lezioni svolte e la saluto.
A presto,
Daniela Caponera

Print Friendly, PDF & Email

Lascia un commento