Conversazione su Brian Eno e David Byrne, My Life in the Bush of Ghosts. Intervista a Paolo Fabbri


A cura di Lucio Spaziante, E|C, rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici on-line.
Venezia, IUAV, Convento delle Terese, 22 giugno 2004.
Data di pubblicazione in rete: 10 novembre 2006.
http://www.associazionesemiotica.it/ec/contributi/spaziante_10_11_06_fabbri.html


L’intervista è stata una fertile occasione per ascoltare la voce di chi ha formato generazioni di semiologi, indirizzandoli a saper guardare nei testi, senza distinzioni di categorie, con la capacità naturale di individuare imprevedibili connessioni. Parlare di musica pop con Paolo Fabbri ha significato spaziare spontaneamente altrove, fornendo chiavi di comprensione parallele di fenomeni artistici e sociali. Il colloquio è il risultato dall’ascolto diretto del disco My Life in the Bush of Ghosts1 (1981) ad opera di Brian Eno (sperimentatore sonoro, produttore e musicista) e David Byrne (figura di spicco dei Talking Heads). Il progetto si configura come una sorta di viaggio mediatico, un collage di frammenti di culture attraverso un immaginario sonoro nonoccidentale visto dall’Occidente, in un’epoca in cui la musica rock era ancora molto poco curiosa dell’altro da sé.

Traccia numero 1 – America Is Waiting

P.F. La prima questione appartiene alla voce: non alla voce che “parla” ma al suo ritmo, scansione e grana. Qui la vocalità diventa strumentale e contiene istruzioni per il suo impiego, affinché lo strumento venga raccordato o scordato con quel tremolo che già la voce contiene. Visto che tra semiologi ci interroghiamo con insistenza sulle condizioni di profondità della musica, osserviamo che qui lo sfruttamento della profondità di campo è davvero interessante. La voce infatti slitta dal primo piano in profondità, lasciando davanti, vicino a noi, la sequenza ritmica. La voce continua però a “far fondo” e a riemergere: dapprima saltuariamente, indi di continuo, per poi svanire. Mentre l’attacco è sempre definito, i brani non chiudono mai “staccando”: non c’è arresto definito ma fading. Emerge e si fa largo l’intento di non marcare la fine, insieme alla promesse della processualità. Questa musica si fa udire nel processo di farsi musica, senza diventare stato; non è musicale, è un musicare. Il brano seguente dell’album, d’altronde se non riprende a pieno quello che lo precede non lo lascia neppure del tutto.
Sul registro narrativo che è del cinema, mi rammenta certi film di Fellini realizzati in questa modalità dischiusa, ma non sconclusionata. Al termine di Amarcord, c’è il matrimonio della Gradisca: gli sposi ne vanno, gli invitati cominciano a disperdersi mentre la macchina da presa si allontana insieme al suono della fisarmonica. Il fading (in)conclusivo ha questa singolare proprietà: non ci consente di risalire all’indietro, di ritrovare un preciso inizio della narrazione, di ricostruire il plot, la nettezza d’una fabula. Questo svanire come continuazione e proseguimento si fa per indebolimento dell’intensità. Curioso: di solito pensiamo a questa musica rock come intensa ed esplosiva, proprietà denegate dall’evanescenza e dallo sfumato sonoro.
Per il semiologo un finale chiuso sarebbe più pregnante: gli consentirebbe di ricostruire retrospettivamente il tutto testuale, ma lo svanire ci aiuta a capire anche questo.

Traccia numero 2 – Mea Culpa

P.F. Qui la voce dello speaker si ripete e viene considerevolmente accelerata. Poi comincia a cedere e a recedere per poi riapparire e ripresentarsi: potrebbe quindi dar luogo ad una struttura articolata con un tempo, variazione, sviluppo e via dicendo. Invece l’inconcludersi del fading si discosta dalla morfologia accennata e suggerita. La configurazione che ne risulta non si dà come un non finito iterativo – “andrà avanti così, come per sempre” – perché mantiene una tensione verso la durata. Non è un’eternità, direbbe Deleuze, ma una “internità”. Resta insomma l’effetto d’un prolungarsi diminuito, senza il senso dell’esaurimento, di un arresto accennato per esaustione dei possibili.
È come l’atto di lasciar la presa. Se esiste una salda “tenuta” estetica, esiste anche il suo contrario. Questo lasciare risuona in opposizione alla tensione che porta all’esplosione e alla rottura: è un diminuito che sospende anche le operazioni citazionale, le menzioni ironiche costellano il testo. Il resto del brano infatti è colmo di materiale sonoro ben attestato: come l’ingresso delle percussioni o del basso (o di quell’attante che funge da basso) che riprende la nenia vocale e prosegue accentuandone la modulazione, ironizzandola. La menzione esotica altamente vocalizzata – islamica, forse libanese? – é ripresa dalla strumentazione tra virgolette ritmiche. Fin troppo ovvio, se non giungesse ad interloquire quella toccante evanescenza finale, terminativa senz’essere definitoria. Mentre la citazione conchiusa è operazione meta-musicale d’ordine cognitivo, dal non finito emerge un momento patico, emozionale: un allentare la presa che non è rinuncia, ma un lasciar altri giochi ai sensi e al senso.
Per mia formazione semiotica, nutro un’affezione per i momenti-tilt, gli istanti di rivelazione profana in cui si avverte il click – “Eccolo… è lui!” – dell’epifania (per piccola che sia). In questo caso invece accade qualcosa che è dell’ordine della diafania. L’apparizione sonora del ghost: ricordi Montale? “Farfalle vivaci l’attraversano, la sfiora la sensitiva e non si rattrappisce”!2 Qui non è l’occhio, ma l’orecchio che attraversa una sostanza sparente ed evanescente. È il momento in cui il corpo è dissolto dal testo, il soma dal sema.

Traccia numero 3 – Regiment

P.F. Questa voce quasi fisica, richiama il classico accento della soprano abbandonata, quasi un Lamento di Arianna o di Didone3. Una voce che si disfa e che, allo stesso tempo, dissolve l’involucro denso del corpo musico. Volgendo alla fine, il corpo si fa carne, come nelle figure di Francis Bacon dove troviamo dapprima una forte strutturazione; poi le carni, forma informe e colore, cominciano anch’esse a fondere e a scolare. È quello che Deleuze (1981) chiamava, nella sua Logica della sensazione, l’effetto di fuga – non la “fuga” musicale, ma la perdita, quel colare o sfuggire che è dell’acqua o del Gas. Il divenire impercettibile.
Oltre alla sovrapposizioni dei diversi linguaggi – che è sempre suscettibile di sovradeterminazione da parte di uno – in questa musica è Babele a toccarmi, l’effetto babelico ossessivamente presente. Succede infatti che si vada a cercare altri linguaggi per un ripascimento di senso, per risemantizzare o intensificare il proprio e invece si suscita una Babele, non di idiomi ma di discorsi. Non è il fenomeno lessicale o grammaticale di molte parole o frasi mescidate o rimescolate. Tra le fonti sonore qui abbiamo interi motivi come il Predicatore, la Canzone Orientale, la Formula Esorcista, l’Invettiva Settaria: in una parola, il discorso dell’Altro. Oggetto di culto postmoderno, l’Alieno o l’Altrui incombe o irrompe nel discorso musicale ordinario, nell’orecchio comune. Il suo semantismo risiede nello specifico ritmo di genere discorsivo che quindi è un’interferenza ed una intercettazione. Come ogni lingua, quella inglese infatti ha un proprio ritmo ma se si pronuncia come un esorcisma o un’invocazione il suo ritmo cambia per scandirsi nell’imperativo o diffondersi nel vocativo. Nella Predica, come quella esemplare dei quaccheri, la prosodia dell’inglese è piegata alla modalità e modulazioni della predicazione.

L.S. Perché a tuo parere questo disco viene considerato fondativo di molta musica a venire degli anni ’80 e ’90? È possibile che in una simile convocazione “tra virgolette” del discorso altrui, anche a rischio di etnocentrismo o esotismo, vi sia paradossalmente una ricerca più interessata di quanta ve ne sia oggi?

P.F. Negli anni Settanta sono stato molto colpito dall’atteggiamento verso l’esotismo di Roland Barthes. Ricordo che, tornando dalla Cina di Mao, ebbe a dire che in quel paese insapore aveva gustato il brusio della lingua, nel suo aspetto musicale, come mescolarsi felice delle voci straniere: una piccola eterotopia musicale.
Era già stato il caso del Giappone, dei gesti e ritmo del teatro bunraku. Barthes non sapeva o non voleva sapere, che la voce canora e narrante su cui incedono e danzano le marionette – e i loro supporti umani mascherati – descrive minuziosamente gli accadimenti, l’intreccio delle passioni e delle azioni. Non vuol sapere il significato perché intende rimanere straniero; prova a mantenere un’alterità del significante per non dover proferire un discorso fatalmente orientalista.
Il caso di My Life… è molto simile a Barthes anche se diversa è la strategia. Fuori da ogni scrupolo filologico e da ogni ideologema politicamente corretto gioca a fondo il cliché musicale esotico. Lo assume perfettamente conscio del suo essere tale: lo utilizza, cita, sovrappone ad ogni altro discorso. A differenza dal feticcio etno-filologico – che può esattamente rilevare i testi e rispettarne la tradizione senza riconoscerne i diritti e le prerogative – l’impressione finale che ci danno questi brani non è mai quella di un discorso pre- o post- coloniale. (A differenza di operazioni come Buena Vista Social Club!). L’intenzione di My Life… è molto diversa soprattutto per la dimensione mediologica: questi lacerti musicali sono stati mediati, duplicati, riprodotti via etere, attraverso la radio. Una vera e propria “selva di fantasmi”.

L.S. Non credo infatti possa essere considerato naïf chi nel libretto allegato al disco dichiari di adoperare raccolte di materiali sonori chiamate The Human Voice in The World of Islam oppure Les plus grandes artistes du monde arabe.

P.F. Torniamo coll’orecchio a quel fading finale. Abbiamo detto che non è rinvio o citazione, o nostalgia di un mondo perduto, – anche perché non c’è un mondo da perdere, ma da ritrovare, nella connettività complessa, detta globaliz zazione. Qui è in gioco la definizione d’una posizione soggettiva, del corpo proprio che, nella cacofonia babelica, è a rischio di dissolvenza. Ecco perché io lo confronto con il brusio delle voci cinesi in Roland Barthes! Per me questa musica non ha la tensione d’una utopia vissuta in diretta e dal vivo, ma mantiene quella d’ una eterotopia mediatica senza unisono necessario. Al di là dell’allucinazione “fantasmatica”, la presenza quasi impalpabile e felice di discorsi invano discordi.

L.S. Successivamente al progetto My Life…, Byrne e Eno prendono due strade diverse. Il primo coerentemente con una sorta di evoluzione dell’esotismo vira verso il politically correct con operazioni di riscoperta culturale; nel caso di Rei Momo (1989) si tratta della musica brasiliana. Il secondo si dedicherà ad altro, all’ambient music e alla produzione di altri gruppi. La questione interessante riguarda il problema della periodizzazione, cioè del perché un certo tipo di cose accadono proprio in quel periodo, all’incirca dal 1975 al 1980.

P.F. La periodizzazione temporale ridefinisce le cose in questo modo, ex-post, reinventandosi le origini. Come dice Benjamin, l’origine è come un vortice di fiume, trascinato dalla corrente4; anche lei è in movimento. Prende senso ad ogni svolta successiva della musica.

L.S. Perché, a tuo modo di vedere, una certa narrativa peculiare del rock proprio in questo periodo va in crisi e cerca altrove nuove fonti di ispirazione figurativa?

P.F. Questo succede sovente a partire dalle avanguardie ormai pre-istoriche. I cubisti ricorrono all’art nègre e alla pubblicità, Malèvic alle icone russe, i surrealisti al jazz, per riattingere ad un nuovo immaginario primitivo o popolare. Però per questo rock non si deve parlare di rottura, quanto d’una inflessione e, via via, del suo esaurirsi. Ritorniamo al fading: cos’è questo esaurimento? Il sentirsi spossato per aver dato fondo a ogni possibilità. Così Lévi-Strauss ha descritto, con esplicito riferimento musicale, la morte del mito: una perdita d’informazione che deriva dall’avere permutato e rovesciato incessantemente le forme espressive e quelle del contenuto. (Barthes diceva che i miti sono “anagrammi di senso”). Così anche le morfologie musicali persistono al prezzo – economicamente redditizio – della continua ripetizione senza energia d’informazione.
Non è facile additare il punto in cui l’esaurimento dei possibili si installa nel non-luogo delle ridondanze plausibili. È allora però che altri elementi sonori vengono convocati come bricolage discorsivo: voci che suonano dapprima babeliche. Queste convocazioni nel rock prendono il tramite retorico dell’ironia: ascoltando sento il batterista che fa grandinare virgolette, batte citazioni che a volte restano aperte. A volte invece tutte le citazioni vengono chiuse, perché si vuol far sul serio, filologicamente o perché si razionalizza il proprio fare, affermando “siamo nel postmoderno“.
Insomma vivendo quegli anni e quei giorni, la percezione e la sensazione non era quella di assistere a rotture epocali, – il Sessantotto, la Rivoluzione, l’Immaginazione al Potere, che intendevano realizzare utopie prescritte e annunciate – quanto di partecipare ad uno stato di emergenza largamente improvvisato. Il bricolage musicale non è la sperimentazione delle avanguardie, ma il farsi senso dell’esperienza. All’improvviso e alla sprovvista, alcuni fenomeni vanno in emergenza: si fanno prove non calcolabili sulla base dei precedenti. Prove, ripeto, per rendere nuovamente e altrimenti possibile il suono ormai diventato plausibile, quello che è già applaudito prima di essere eseguito.
Barthes distingueva il regno calmo del discorso probabile, quello nella scrittura borghese, da quello del militante, che, politico o musicale, ha sempre i tratti del rumoroso trionfo. Bisognerebbe invece, aggiungeva il semiologo, consentire senza isteria all’emergenza degli eventi, dove sta la loro gloria. Ecco, questo periodo di transizione che tra il vecchio e il nuovo rock è stato il momento d’una gloria emergente: senza rimbombo trionfale e senza ripetizione per non diventar regno.

L.S. My Life… è forse la conclusione di questo periodo di gloria emergente. Un periodo aureo che si potrebbe far iniziare con Horses di Patti Smith (1975), dove per azzerare tutto si decide di ripartire dalle origini del rock.

P.F. Ci sono almeno tre modi per ricominciare: dall’inizio, dal mezzo o dalla fine. Credo che qui si tratti dell’ultimo caso perché a ricominciare dall’inizio – e forse anche a metà – si fa una caricatura, mentre loro hanno ricominciato dalla fine. Certo è che hanno ri-cominciato, perché la tradizione del rock era già presa nel gioco del bricolage.
Quando Eco scrive del Movimento del ’77 come “generazione dell’Anno Nove5, pensa dapprima ad una nuova “rivoluzione”. Poi si accorge che i protagonisti del ’77 parlavano più che altro di sé: si ascoltano – ascoltano musica – più di quanto ascoltano arringhe e interventi. Tutta un’altra musica: ma l’equivoco è rimasto e molte delle cose che abbiamo detto ora sono rimaste nascoste dalle stesse parole con cui allora provammo a spiegarle.


Note

  1. Alcuni brani del disco possono essere remixati tramite web scaricando le singole tracce strumentali che compongono ogni brano. Cfr. http://www.bush-of-ghosts.com/remix. torna al rimando a questa nota
  2. Eugenio Montale, La bufera – Voce giunta con le folaghe. torna al rimando a questa nota
  3. Opera di Claudio Monteverdi composta nel 1608. torna al rimando a questa nota
  4. “L’origine sta nel fiume del divenire come un vortice e trascina dentro la propria ritmica il materiale della nascita. Nella nuda e palese compagine del fattuale, l’originario non si dà mai a conoscere, e la sua ritmica si dischiude soltanto ad una duplice visione. […] In ogni fenomeno d’origine si determina la forma sotto la quale un’idea sempre di nuovo si confronta col mondo storico, fino a quando non sia lì, compiuta, nella totalità della sua storia. Così, dunque, l’origine non è emergente dai dati di fatto, essa ne investe la preistoria e la storia successiva. […] L’autentico – questo marchio di originarietà dei fenomeni – è oggetto di scoperta, di una scoperta che in modo del tutto peculiare va connessa con il riconoscere” (Benjamin, 1928, pp. 28 e sgg.). torna al rimando a questa nota
  5. Articolo pubblicato sul Corriere della Sera, 25 febbraio 1977, poi ripubblicato in Eco, 1983. torna al rimando a questa nota

Bibliografia

AA.VV.
Buena Vista Social Club, World Circuit/Nonesuch, 1997.
BENJAMIN W.
Ursprung des deutschen Trauerspiels, Verlag, Berlin, 1928
(trad. it. Il dramma barocco tedesco, Torino, Einaudi, 1971).
BYRNE D.
Rei Momo, Luaka Bop/Sire, 1989.
DELEUZE G.
Francis Bacon. Logique de la sensation, Paris, Édition de la différence, 1981
(trad. it. Francis Bacon. Logica della sensazione, Macerata, Quodlibet, 1995).
ENO B., BYRNE, D.
My Life in the Bush of Ghosts, Sire, 1981.
MONTALE E.
Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1984.
SMITH P.
Horses, Arista, 1975.
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