Fabbri su Charlie: «Siamo la società dell’osceno»


Da: Giovanna Faggionato, Lettera43 – Quotidiano online indipendente, 13 Gennaio 2015.
www.lettera43.it/cultura/fabbri-su-charlie-siamo-la-societa-dell-osceno_43675153965.htm


La morte del poliziotto. Il video su Facebook. Niente divisione tra platea e palco. Il semiologo Fabbri: «Piccole narrazioni di terroristi diventano grandi racconti».

Dice l’uomo che ha filmato l’uccisione di Ahmed Merabet: non lo rifarei.
Non riposterebbe su Facebook quel video con il poliziotto musulmano sul marciapiede a pochi metri dalla sede di Charlie Hebdo inseguito dai terroristi fasciati di nero e poi ammazzato con un colpo alla testa.
«SOLO UNO STUPIDO RIFLESSO». La scelta di pubblicarlo non è stata nemmeno una scelta, ma un riflesso quasi incondizionato, ha detto Jordi Mir, autore del video, all’Associated Press: «Non c’è una risposta. Faccio una foto – magari di un gatto – e la metto su Facebook. È stato lo stesso stupido riflesso».
Solo che al posto del gatto c’era la morte in diretta di un uomo. E quando ne ha capito gli effetti virali se ne è pentito.
È PARTE DELLO SPETTACOLO. Ha cancellato il filmato, ma quelle immagini erano già sfuggite al suo controllo diventando parte dello ‘spettacolo’ che per tre giorni ha riempito la Rete e le televisioni.
Prima la strage, poi la fuga, la presa degli ostaggi, il blitz delle teste di cuoio francesi. E poi la moltiplicazione delle vignette di Charlie Hebdo e la grande manifestazione di Parigi.
Una narrazione con protagonisti i due terroristi, con uno sviluppo e una fine, che ha trovato negli utenti dei social attori capaci di alimentare, nutrire e collaborare alla rappresentazione.
Uno spettacolo che ha anche suscitato critiche, soprattutto nel mondo arabo, per la massiccia copertura data dai media occidentali. Ma che pone anche i consueti interrogativi sui risultati propagandistici che una tale eco può portare alla causa terroristica.
«PICCOLE NARRAZIONI DIVENTANO GRANDI». Dopo l’emozione, è tempo di analizzare a mente fredda il meccanismo mediatico generato dagli eventi francesi.
E il punto di partenza secondo Paolo Fabbri – docente di semiotica all’Università Iulm di Milano e alla Luiss di Roma, già direttore di un progetto di ricerca sugli audiovisivi per il ministero della Ricerca francese – non è dei migliori: «Siamo diventati una società in cui tutto viene messo in scena, in cui non c’è divisione tra platea e palco: una società dell’osceno. E questo aiuta i piccoli gruppi a trasformare le loro narrazioni in grandi racconti».

DOMANDA. Perché ha senso analizzare la tre giorni di Charlie Hebdo come una rappresentazione?
RISPOSTA. Come per l’11 settembre, c’è chi si è messo a indignarsi contro l’aguzzino, parola peraltro di origine araba, e chi ha espresso tenerezza verso le vittime. E c’è poi una terza posizione che è quella estetica.
D. Cioè?
R. Quelli che lo hanno guardato con un certo distacco. E che dicevano: «Hai visto che roba?», come dire «hai visto lo spettacolo?».
D. Il grande racconto mediatico della strage e dei suoi sviluppi ha portato vantaggi ai terroristi?
R. Il filosofo Lyotard diceva che l’anti-imperialismo si è sciolto in tanti piccoli racconti. Io penso che questo tipo di terrorismo stia facendo in qualche modo il contrario: una piccola narrazione si unifica in un grande racconto.
D. Cosa intende per piccola narrazione?
R. Diciamolo: questi erano due sfigati che facevano un po’ di rap e volevano morire in nome di principi di morte. E sono riusciti a inserire piccoli eventi all’interno di una grande narrazione, per loro probabilmente anche inaspettata.
D. Pensa quindi che questo episodio sia stato più efficace dal loro punto di vista rispetto a un attentato senza facce anche se magari con più vittime?
R. Si pensi all’attentato alla metro di Londra. Non ha avuto lo stesso effetto. In questo caso la narrazione era orripilante, ma personalizzata, assunta col proprio corpo e forse modellata su quello che si vede nei media.
D. Dice che la strage è stata costruita con un plot ispirato alle narrazioni filmiche?
R. Non sarebbe la prima volta, l’immaginario ha un ruolo importante nella costruzione delle azioni reali. E poi la narrazione personalizzata fa venire fuori dettagli curiosi, interessanti per il racconto.
D. Per esempio?
R. Perché a un certo punto hanno fatto uscire un ostaggio? Aveva medicato uno dei killer, che era ferito al collo, e lo hanno fatto uscire.
D. Perché?
R. Non lo so, ma sono dettagli che colpiscono. Di certo questi fatti, con tutti i loro piccoli sviluppi, sono già entrati potentemente nell’immaginario collettivo della società contemporanea.
D. Lei dice che questa capacità di coinvolgimento era in qualche modo inaspettata, però quando i due fratelli Kouachi si sono barricati nella stamperia sono stati raggiunti al telefono fisso da un giornalista di una tivù francese e più tardi il loro complice Coulibaly ha chiamato di sua volontà la stessa televisione: in questo caso conducevano consapevolmente il racconto.
R. Sì, ma non penso che tutto fosse deliberato fin dall’inizio. Tutti vorrebbero dar la colpa al grande vecchio al Baghdadi. Ma non è così.
D. E come è?
R. Il filosofo Deleuze diceva che il problema non è lo squadrone, ma è la muta che prende un ordine o una decisione senza sapere bene dove la condurrà. Lui parlava di attori miopi.
D. E in questo caso gli attori miopi siamo stati noi e i terroristi?
R. In un certo senso. Quello che spiegava il filosofo è che gli attori miopi in qualche modo si coordinano e fanno uno stormo. La nostra cultura prevede la promozione sistematica di tutto, e da questo emerge un ordine che non era prescritto.
D. Nello ‘spettacolo’ rientrano anche le immagini della morte del poliziotto Ahmed Merabet?
R. Il sociologo Baudrillard diceva che la società che butta tutto in scena è una società oscena. E purtroppo è quello che siamo diventati. Non siamo più la società dello spettacolo, siamo oltre.
D. Eppure era così che alla fine degli Anni 60 ci definiva il filosofo Debord…
R. La società dello spettacolo era quella del ‘600, il Barocco, dove c’era distinzione tra rappresentazione e non rappresentazione. Invece, oggi non c’è più distinzione tra il parterre e la ribalta, tra il palco e il pubblico. Purtroppo sono tutti o siamo tutti in scena.
D. Perché dice purtroppo: non c’è in questa partecipazione un risvolto positivo?
R. Dico purtroppo perché penso che la società dell’informazione abbia bisogno di una critica dei suoi meccanismi come l’ha avuta la società industriale.
D. E in cosa consiste la critica?
R. Il nostro essere osceni, cioè essere tutti e tutto sulla scena, non è una faccenda soggettiva. Non si tratta di gente esibizionista: è una condizione, una categoria comunicativa in cui siamo immersi. La nostra oscenità inesorabile porterà a una società del controllo, a forme di controllo sulla moralità terrificanti.
D. Anche le vignette di Charlie Hebdo sono però diventate un contenuto virale: cosa ne pensa?
R. Che in pochi hanno capito cos’è Charlie Hebdo. Io ho vissuto in Francia per 15 anni e non l’ho mai comprato. Ma conosco il surrealismo e il surrealismo francese rivendicava di essere ‘bete et mechant’, che significa cattivo e coglione. I surrealisti erano grossolani, sguaiati, violenti e anti-borghesi.
D. Il vignettista Wolinski e gli altri si rifacevano a quella tradizione?
R. Esattamente. Quando Charlie rappresenta lo Spirito Santo che sodomizza Gesù sta riprendendo una tradizione anarchica e surrealista. Per i francesi questo tipo di codice testuale è un genere.
D. In questi giorni si è creato un dibattito con molte sfumature che ha coinvolto anche l’Islam moderato: di tutto questo qualcosa rimarrà?
R. Resteranno solo due posizioni. E una è quella dei terroristi. Se lei ha una grande città di musulmani moderati e un solo cristiano, quello che spicca è il cristiano. I big data in questi casi non contano niente. Le minoranze, le mute, appunto, hanno acquisito potere di autorappresentazione.
D. E la grande manifestazione di Parigi con tutti i leader schierati?
R. Sono molto felice che ci sia stata. E sono anche felice che abbiano difeso Schengen. Ma una cosa mi ha colpito più di tutto.
D. Cosa?
R. Quelli che stavano dietro al premier israeliano Netanyahu. Se si guardano le foto, il premier israeliano aveva sempre sulla spalla una mano e un’altra sul braccio. I cosiddetti grandi del mondo sfilavano liberi. Ma c’erano sempre due guardie pronte a buttare per terra Netanyahu. E tutti lì a dire che carino, è vicino al presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abbas.
D. Un piccolo dettaglio rivelatore?
R. A me non piace il consenso da cartolina, e in quella foto dei leader schierati c’era una promessa di agiografia, un santino. E in quelle mani ho visto il segno rivelatore della realtà, della complessità.

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