La forza “politica” del linguaggio: creare e trasformare testi e contesti


A cura di Manuel Semprini, ScrittInediti, pubblicato online il 29 marzo 2014.
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Sul semiologo Paolo Fabbri, attualmente professore alla LUISS (Libera Università Internazionale di Studi Sociali) di Roma, corre da anni una benevola diceria secondo la quale egli mostrerebbe una certa predilezione per l’oralità rispetto alla scrittura. Al di là di questo, sono innegabili le sue qualità di grande affabulatore ed è sicuramente un piacere poterlo ascoltare. L’occasione dell’intervista è nata dalla volontà di fare una chiacchierata sui rapporti che intercorrono tra il potere politico e il linguaggio, visti da un famoso studioso di semiotica.

Manuel Semprini: Nella distopia di 1984, George Orwell immagina che il sistema politico, imperante nel romanzo, del socing (o socialismo inglese) utilizzi una lingua particolare, la Neolingua, che ne rispetta e applica l’ideologia. Caratteristica principale della Neolingua è quella di «diminuire le possibilità del pensiero», riducendone le ambiguità e le eterodossie attraverso la limitazione delle scelte e degli usi delle parole. In questo esempio letterario e paradossale il potere si manifesta attraverso il linguaggio.
È possibile rinvenire nel linguaggio odierno una qualche influenza del potere politico oppure il “regime democratico” non detiene alcun controllo sulle parole?

Paolo Fabbri: Io credo che la distopia politica di Orwell era orientativa, serviva cioè a far capire come esistesse, specie in quel periodo di totalitarismi, un forte orientamento della propaganda. Questo però presupponeva, a quell’epoca, l’utilizzazione di un medium specifico, che, nel caso particolare di Orwell, era un televisore che ti vedeva oltre il video.
La moltiplicazione dei media oggi rende molto difficile ottenere un controllo semantico di quel genere.
È la raccolta di metadati, tracce identificative, che è diventata vertiginosa.
Altra cosa è invece il problema del linguaggio. In questo caso è interessante la distinzione.
Era un’epoca in cui effettivamente l’idea era: pensiero uguale linguaggio. Non è che non sia così. È vero che noi riusciamo ad esprimere linguisticamente – mediante quella che definiamo la semantica – contenuti di pensiero attraverso un certo tipo di parole, e se non ci sono le parole giuste questi contenuti non si esprimono in maniera adeguata; però il linguaggio ha una caratteristica che viene spesso dimenticata: è elastico.
La gente pensa molto al fatto che il linguaggio ha una parte di contenuto, una parte espressiva, ma il linguaggio è anche elastico, cioè la stessa parola può essere espressa attraverso peri-frasi o peri- discorsi. Quindi, questa elasticità del linguaggio rende sempre possibile che un termine fissato venga, poi, diversamente ridefinito. Quindi chiunque tenti di bloccare un linguaggio con una definizione “plastica” ad un significato fisso si trova costantemente di fronte a un medium altamente variabile.
Un esempio classico lo abbiamo con la terminologia tecnica.
La terminologia tecnica è sempre interdefinita. Pensiamo alla psicanalisi o alla psichiatria.
“Schizofrenico” vuol dire una cosa precisa, “psicotico” vuol dire un’altra cosa, “nevrotico” vuol dire un’altra cosa ancora. Oggi la gente dice: “sì, quello schizza”, oppure “è neuro”, “quello va in para”, eccetera. Cioè tutte le dimensioni tecniche, quando entrano a far parte del linguaggio comune, subiscono delle variazioni di senso.
Pensa al concetto di virtuale. “Virtuale” vuole dire una cosa molto precisa nel lessico della tecnologia. Oggi “virtuale” vuol dire possibile oppure reale (realtà virtuale). Oppure pensa al signore che dice: “La Sampdoria ha l’attacco nel suo DNA”. Il DNA è l’acido desossiribonucleico, cosa c’entra il calcio? Il linguaggio tecnico viene, in qualche misura, elasticamente generalizzato, accompagna l’altra operazione, quella per cui ci sono delle parole un po’ generiche, che vengono ridefinite tecnicamente, per es. “catastrofe” in topologia matematica è solo una discontinuità qualitativa. Questa elasticità del linguaggio e la sua crescita impredicibile rendono molto difficile un suo controllo e grazie al cielo. Ciò nonostante il controllo esiste, ma non si fa per imposizione dall’esterno; si fa come nel caso delle mode in cui, ad onta della diversità, se ti guardi intorno scopri che le persone più diverse si vestono più o meno come tutti gli altri.
Ci sono degli effetti che chiamo “di coordinamento miope”, cioè io mi accomodo in funzione degli altri e si assesta un equilibrio senza che ci sia un capo che decide che tutti parleranno nella stessa maniera, ma attraverso una coordinazione locale tra attori miopi.
Effettivamente, esistono dei modi, in qualche misura coerenti, per cui certi significati finiscono per stabilizzarsi. Pensa ai dibattiti degli anni Cinquanta. Dicevano che nei Paesi comunisti non c’era la libertà. La risposta era: “sì, ma noi abbiamo la libertà di morire di fame”. Oggi i concetti di libertà e democrazia sembrano sinonimi, poi non è vero. Oggi si dice: “lui è molto democratico”; altri ti rispondono: “no, è populista”. Indubbiamente la pubblicità e la propaganda continuano ad esistere, specie nei posti in cui si possono controllare i media e si può tentare di controllare la fuga degli interpretanti.

M.S.: Consultando, ad esempio, Neologismi. Parole nuove dai giornali (Treccani, 2009) repertorio curato dai linguisti Giovanni Adamo e Valeria Della Valle, si scoprono più di 4.000 neologismi giornalistico-politici, che evidenziano, da una parte, la vitalità della lingua italiana e, dall’altra, la facilità con cui i mezzi di comunicazione di massa propagano velocemente i nuovi termini. L’artificio più usato per formare le parole sembra quello della suffissazione; in particolare, sembrano riprodursi abbondantemente i neologismi politici in –ismo e –ista. E così nascono molteplici dottrine: il berlusconismo, il tremontismo, ma anche il dalemismo e il rutellismo.
Un’esplosione ipertrofica delle personalità politiche?

P.F.: Questo è un campo affascinante, naturalmente, e richiede un po’ di precisazioni.
Intanto il problema della creatività linguistica. È vero che, nonostante tutti sostengano che la lingua oggi si impoverisce, bisognerebbe spiegare dove si impoverisce. Per esempio, nella fonologia direi che, tutto sommato, ci serviamo degli stessi suoni.
Da un punto di vista grammaticale, semmai, c’è una riduzione, a cui suppliscono, però, le intonazioni. Oggi, secondo me, l’intonazione, gesto vocale, è importantissima.
Però, indubbiamente, si può parlare di neutralizzazione di alcuni tratti grammaticali: “gli ho dato” invece di “ho dato loro”, “ho dato a lui”, “ho dato a lei”. O il famoso esempio del congiuntivo, su cui tutti versano lacrime di coccodrillo – i piagnoni sono i primi a non usarlo. (A me non importa molto se ad un ingresso c’è – o ci sia – scritto “chi apre chiude” piuttosto che “chi apre chiuda”.) Il congiuntivo era già in crisi secoli fa come testimoniano altre lingue indoeuropee e vive in questo stato perché è impiegato in complicati contesti formali di relazione – rispetto, cortesia, ecc. – illeggibili soprattutto per gli stranieri. Come prima c’erano più persone che parlavano il dialetto e che hanno dovuto imparare l’italiano: succede nei casi di bilinguismo.
Ma c’è anche una sbilenca creatività morfologica. Badante è un sostantivo stabilizzato, ma non c’è il Badato – anche se l’aggettivo Sbadato esiste. Tornando alla morfologia ci sono molti prefissi che spuntano nelle direzioni più imprevedibili. A parte “micro”, “macro”, “iper”, “maxi”, “mini”, pensa al prefisso “eco”; pensa a “narco”; pensa al “bio” o al “post”.
Prendiamo invece certi tipi di suffissi. Una volta c’erano molti suffissi in “ile”. Per esempio: “maschile”, “femminile”. Non si diceva “maschista” e “femminista”. Ora si usa “femminista”, mentre il suo antonimo è “maschilista”: “ista” è stato attaccato a “ile”. “Maschista” è diventato “maschile”, poi “maschilista”. “Femminile”, ma è diventato “femminista”, non è diventato “femminilista”. I suffissi si attaccano ai nomi propri, che è, come dici tu, una forma di ipertrofia della personalità. Però ti posso anche dire che c’è una sparizione generalizzata molto rapida. Per esempio, una volta c’erano i suffissi in “eo”. Te lo ricordi il “moroteo” da Aldo Moro?
Evidentemente quando c’erano le diverse correnti della Democrazia Cristiana si portava molto il suffisso “eo” (“doroteo”, ecc.), ma con la sparizione di certe persone, nel caso di Moro anche violenta, sparisce. Quindi, noi pensiamo spesso alla lingua come un luogo dove appaiono nuove forme, ma queste forme scompaiono anche. Si potrebbe fare un grande dizionario di parole svanite, solo che non servirebbe a nessuno, quindi nessuno lo fa. Ma se uno volesse fare su internet il dizionario delle parole che ci hanno lasciato sarebbe divertentissimo. Forse c’è già. Probabilmente fra un po’ ci sarà anche un “bocchinista”, visto che c’è un signore che si chiama Bocchino e che la parola è invitante. Però credo che dopo un po’ questo tizio sparirà, anzi speriamolo.
Come ci sono delle celebrità rapide – modello cometa – che scompaiono nel mondo, così c’è una rapida obsolescenza delle parole. Io ricordo la pubblicità che aveva lanciato tantissimi anni fa, l’Amarevole, che era un amaro con un suffisso modellato su “amorevole”. Nessuno lo pronuncia più. Si estinguono alla svelta le parole valigia, che combinano più termini. Mi ricordo una pubblicità negli anni Settanta che parlava di Sardomobili: una marca di motociclette diceva che nell’automobile e nel traffico si stava come le sardine. È vero, ma è scomparsa anche la Sardomobile. Mi ricordo una divertentissima trovata pubblicitaria: gli Elettroaddomesticati. Si vedevano delle signore elegantissime – alleviate dall’impegno quotidiano – che tenevano al guinzaglio la lavatrice che lavorava per loro. Erano gli elettroaddomesticati. Ma anche quella parola è scomparsa. Naturalmente possiamo immaginare o constatare dei ritorni: come il termine “egemonia”. Al modello “cometa” si sostituisce quello “fenice”: i termini risorgono, non proprio identici dalle loro ceneri.
Come per le specie biologiche, c’è grande estinzione e grande creatività nel linguaggio. Insomma c’è consumo: il linguaggio si consuma e noi siamo consumisti di linguaggio.

M.S.: Dalle note “convergenze parallele” di Moro alla “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto, dal “patto della crostata” tra D’Alema e Berlusconi all'”ubriacatura del maggioritario” criticata da Bertinotti, il politichese ha introdotto spesso, con altalenante successo, diverse locuzioni.
Sembra che dunque l’affanno della classe politica di rincorrere e ritrarre la realtà non sia solo un segno di questi tempi…

P.F.: No. Però hai ragione nel sottolineare che il linguaggio non è fatto soltanto di parole, come continuano a credere e a raccontare. Il linguaggio è fatto anche di frasi fatte. Gli inglesi dicono idioms, ma la parola giusta è “locuzione”. Per esempio, anni fa mi sono divertito – per un dizionarietto personale su l’Unità – a trovare delle locuzioni. “Furbetto del quartierino” è una locuzione. Secondo me scomparirà presto, come un’altra locuzione di moda: “tirare per la giacchetta”. Erano i politici che si riconoscevano in alcuni slogan, per rinfrescare dei luoghi comuni e, nello stesso tempo, appropriarsene e quindi generalizzare. Un lavoro da mediatori: la stampa lo fa, lo fa la classe politica. La maggior parte sono ri-semantizzazioni populiste di luoghi comuni popolari. Ricordi “siamo al capolinea” o “siamo alla frutta”? Esempi di remix o mash up, che esistevano già nel repertorio comune. Hanno calcolato il repertorio delle locuzioni; ne hanno contate 10-13.000, più delle parole che usiamo normalmente del lessico (del lessico, non dei verbi, perché i verbi realmente impiegati sono pochi).
Quindi c’è un tentativo di rinfrescare l’attenzione e far circolare una tracciabilità all’interno dei vocaboli enunciati. Ascolta quelli che fanno politica a livelli locali, che reiterano luoghi comuni: per esempio, “aprire un tavolo”. E, come sai, è particolarmente difficile aprire un tavolo. Appunto. Tuttavia, le locuzioni sono tutte di tipo retorico, e non hanno bisogno di possedere alcun riferimento. “Menare il can per l’aia”: hai mai visto un contadino che lo fa? Vuol dire “rinviare”, “ritardare”: i cani e le aie c’entrano molto indirettamente. Specie nei contesti urbani e industriali in cui sono impiegati.
È insomma l’indizio di un criterio di riconoscimento e oggi ci si batte sui segni di riconoscimento. Del lavoro per semiologi.

M.S.: Dalle parole del potere al potere della parola. Per gli appassionati di fumetto è ancora vivo il ricordo del saggio di Fredric Wertham Seduction of the Innocent (“La seduzione dell’Innocente”) del 1954, in cui lo psichiatra americano metteva in guardia dai fumetti di gangster, supereroi e horror, dipinti come una forma deteriore di letteratura popolare inneggiante alla violenza, al sesso e all’uso di droghe e una delle principali cause della delinquenza giovanile. I genitori insorsero e gli editori istituirono volontariamente la Comics Code Authority, per autocensurarsi.
A più di cinquant’anni dalla pubblicazione, ancora oggi, in occasione di omicidi e suicidi, le cronache si soffermano sulle letture della vittima o del carnefice, diffondendo di continuo l’idea, comune a molti, che la psiche sia facilmente suggestionabile ed influenzabile da ciò che uno legge (o ascolta o vede).
Ma è veramente così?

P.F.: Prima di tutto non è vero che tutti si ricordano di questo libro. L’ho guardato e verificato, anzi ti ringrazio molto di avermelo messo sott’occhio. Fu di grandissimo peso allora, anche se era veramente delirante e, tutto sommato, faceva sorridere. Però, ricordo che quando Wertham disse che Wonder Woman ha una tendenza, come oggi si dice, BDSM, cioè bondage e sadomaso, il tipo che la disegnava disse che era vero. Quindi, non si può dire che non ci avesse azzeccato, in alcuni casi…
Due cose, però, sono da mettere in discussione. Primo: è una ipotesi così radicata che viene da chiedersi se non abbia un fondamento. Ti faccio qualche famoso esempio. Se tu leggi Don Chisciotte di Cervantes, si dice che Don Chisciotte è diventato scemo a leggere romanzi di cavalleria.
Secondo: se leggi Madame Bovary, viene fuori che lei tradiva il marito perché leggeva romanzetti da quattro soldi. Se oggi leggi i giornali, effettivamente si dice: “quel bambino è uno che leggeva fumetti”. Il che presuppone due cose importanti. Primo, che ci sia identificazione. Il problema dell’identificazione oggi è sostenuto anche dai cattivi studi sul cervello. Quando si parla, ad esempio, dei neuroni specchio, si dice che io reagisco in funzione di quel neurone o di quell’altro. Ciò vorrebbe dire che ogni volta che vado a vedere un film di violenza, esco ed ammazzo qualcuno?
Non si tiene conto di un aspetto fondamentale, che chiamo l'”effetto di forma”. Il fatto che io so che è un fumetto e che è finzione, è fondamentale. Tu mi dirai che il bambino che non riconosce la finzione può identificarsi. Effettivamente questo è vero, ed è importante avere dei genitori vicino che ti dicono: “guarda che quel signore lì è un attore di Hollywood strapagato che in questo momento sta andando in giro in yacht con i nostri soldi”. Personalmente, quindi, ritengo sconsigliabile che i bambini vedano il porno su internet. Questo, però, è meno sconsigliabile del fatto che non ci siano i genitori che danno loro, come si dice, i frame, i quadri interpretativi dei significati. Quindi il problema non è il mimetismo, ma l’effetto di forma. Sapere che è una finzione, aiuta a non identificarsi irreversibilmente.
Quando, però, c’è crisi di de-formatizzazione o, come dice elegantemente Goffman, “laminazione del frame“, c’è la possibilità e il rischio dell’identificazione. Oltre all’identificazione poi c’è la proiezione. La casalinga di Voghera – basico ruolo socio-semiotico – che guarda il matrimonio della principessa o della divetta, non si identifica ma si proietta. Questo non vuol dire che il giorno dopo uscirà e vorrà che sua figlia abbia un matrimonio principesco. Vorrà che sua figlia abbia un bel matrimonio, ma rinuncerà – presumo – ad una immediata vacanza alle Bahamas.
Dobbiamo ricalcolare il potere, dell’immagine. E qui siamo all’altro punto. In passato abbiamo forse enfatizzato l’influenza profonda del linguaggio verbale: “chi non sa parlare, non sa pensare”. Non è vero. “Contadino, scarpe grosse e cervello fino”. Mi posso esprimere male, in modo inadeguato a qualche situazione, ma non vuol dire che non capisco.
Quindi, l’idea che chi ha un linguaggio sofisticato pensa sofisticato e chi ha un linguaggio grossolano pensa grossolano, è una ipotesi provata come inesatta. Anche in una società come la nostra dove l’immagine e la musica giocano un ruolo importante – se non hai le parole giuste per dire i tuoi sentimenti, forse però hai la canzone giusta o la musica giusta.
Quindi la comunicazione è decisiva, ma è intellettualistico ritenere che il linguaggio sia il corrispondente diretto di una realtà concettuale. Semmai, chi ha in mano i sistemi mediatici dove c’è linguaggio, musica, vestiti, ha più potere.

M.S.: Veniamo all’ultima domanda. Guardando alla storia dell’umanità, non è difficile ammettere che le idee veicolate dai libri (o dall’arte in generale) hanno un qualche influsso sulle persone, ma in quale modo la parola diventa azione? Come si espande la distanza tra “le parole e le cose” descritta da Foucault?

P.F.: Intanto, a Foucault una volta hanno chiesto: “Ma lei che cosa voleva dire con Le parole e le cose?” Lui rispose: “In realtà volevo dire: né parole né cose”.
La questione è interessante. Il problema non è le parole e le cose; il problema è la parola e l’azione. Infatti, la prima parte della tua domanda è più pertinente.
Facciamo un esempio famoso. Haze e fog. Attualmente c’è tutto un dibattito su cosa bisogna fare per intervenire in una zona intorno a Giava – lì dove è partito lo tsunami -, perché c’è un costante nebbione formato da incendio di foreste, inquinamento atmosferico e via discorrendo. Che fare? Se dicono che si tratta di fog, caligine, bisogna fare qualcosa; se dicono che si tratta di haze, cioè nebbiolina, si può non fare niente. Quindi decidere sulle parole è decidere sulle azioni. Quello che è importante non è che sia fog o haze, ma che cosa si deve fare. Il punto non è la relazione parole-cose, ma parole-azioni. Noi pensiamo sempre i discorsi all’indicativo. “La cosa è sul tavolo”: se è un invito a prenderla o se è una constatazione, cambia tutto. In alcuni casi, “la cosa è sul tavolo” è un imperativo: “prendila”. Il problema non è il linguaggio, ma la forza che porta e comporta. L’ottativo “dai!”, il condizionale “si potrebbe fare”, l’imperativo “devi farlo”, sono diversi. Quindi il linguaggio non è solo rappresentazione, è forza, e non solo dichiarativa. Secondo me è da tenere sempre presente. Naturalmente il linguaggio non è la sola forza in gioco. Se incontro uno che ha un fucile, può essere inutile che io faccia un discorso, anche se non è detta l’ultima parola.
Bisogna avere un linguaggio adeguato per combattere le forze del linguaggio, pur restando vero che contro la forza bruta ci vuole la forza bruta. I nazisti bisogna combatterli, ma allo stesso tempo bisogna anche combattere le argomentazioni con cui sostengono la loro azione.
Quindi direi che prima di tutto il linguaggio contiene delle forze ed è un insieme di forze.
In secondo luogo, noi ripetiamo senza sazietà che il linguaggio dipende dal contesto. Ma il linguaggio è creatore di contesti. Un es. politicamente corretto: la frase “fallo tu” è creatrice di un contesto di obbligazioni in cui, ad esempio, gli uomini danno indicazioni alle donne di fare certe faccende. Se tuttavia una signora dice: “No, fallo tu”, è lei che ridefinisce il contesto affermando: “No, guarda che siamo ormai in un’epoca in cui le donne non sottostanno agli ordini degli uomini, eccetera, eccetera”.
Quindi il linguaggio è creatore e trasformatore di contesti, cioè riorganizza le relazioni di cui è intessuto il mondo. Credo che questo potere del linguaggio sul mondo esista. E da questo punto di vista, il sapere della lingua, dalla fonetica alla retorica, passando per la grammatica e la semantica, diventa importante.
Ecco perché è importante imparare, studiare. È importante persino – avere un buon professore. Per me è troppo tardi: ho vissuto un tempo turbolento in cui erano tutti cattivi maestri. Adesso torniamo in auge, anche se la parola “auge”, come tu sai, la usiamo solo nell’espressione “tornare in auge”, perché se io dico “auge” per qualche altra cosa, la gente mi dirà: che cos’è? Posso spiegare.

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