Il futuribile delle età perse. Conversazione con Paolo Fabbri su Profezie


Con Maria Cristina Addis, Carte Semiotiche, Annali 2, dicembre 2014.


MARIA CRISTINA ADDIS. Profezie è stato un esercizio ludico-critico di semiotica della cultura (un serio ludere direbbe Omar Calabrese) che si colloca in un momento “esplosivo” della nostra storia recente. Con lo sguardo anacronistico di oggi, è possibile leggere nei vostri brevi appunti numerose informazioni sul campo di tensioni che agli albori degli anni Novanta del secolo scorso attraversano sia la società italiana che il dibattito interno alle scienze umane e sociali.

PAOLO FABBRI. A mio avviso sono successe molte cose rilevanti attorno a quegli anni. Profezie si situa ad una svolta. È il momento in cui i semiologi si rendono conto delle potenzialità di una teoria narrativa d’ impronta fenomenologica, mentre Eco dichiara che la semiotica è una filosofia del linguaggio di stampo analitico – uno spostamento questo i cui effetti negativi sono sempre più visibili. Sono gli anni in cui De Mauro può dire a Prieto che i semiologi abbandonano disciplina per la letteratura (Eco, Kristeva, ecc.). In Chi resta, chi fugge [cfr. infra] Omar e io diciamo che se tutti fuggivano, noi “teniamo botta”. L’attuale crisi della semiotica comincia infatti nel Novanta, con il fading progressivo i cui esiti sono sotto gli occhi. Oggi si parla dovunque di storytelling, senza tenere conto che la teoria narrativa è stata elaborata da Greimas a partire da Lévi-Strauss e Propp, né della sistematizzazione di Paul Ricoeur: il racconto è una modalità dinamica di trasformazione del senso. Mentre prima si parlava solo di argomentazione innovativa – l’abduzione – adesso si parla anche troppo di narrazione convincente (in pubblicità, in politica, ecc.). Ma quando semiologi, come Barthes hanno detto semplicemente: “anche gli storici raccontano” è stata una vera scossa epistemica. “Come vi permettete? La storia è prova, è realtà, il racconto è comunicazione ininfluente di risultati fattuali”. No, replicavano Greimas, Barthes, De Certeau ed altri: ” il racconto è costitutivo del senso”. E la discussione non è chiusa.

M.C.A. La scelta di porvi in quanto Profeti, a prescindere dal taglio ironico sembra ritagliare una terza via rispetto alle capacità predittive tanto dello storicismo che delle scienze sociologiche.

P.F. Le profezie sono difficili e facili allo stesso tempo. Sono facili nel senso che le puoi sempre riformulare nel caso di mancato avvento; sono difficili perché inevitabilmente ogni evento che succede avrebbe potuto accadere diversamente. La nostra idea era di dare indicazioni non su come andavano le cose – giornalisti e sociologi bastavano allo scopo – ma su come avrebbero potuto anche andare. Prendiamo l’esempio di Giona. Giona è un profeta seriamente sciocco. Dio gli dà mandato: vai in quell’orrenda città dove si compiono tremende porcherie, e annuncia ai suoi abitanti che la distruggerò. Lui obbedisce. Loro si riuniscono, e saputo che Dio vuole sterminarli, cambiano vita. Dio allora risparmia la città. Giona però si rivolge al Signore: “Mi hai fatto pronunciare una menzogna, la città non è stata distrutta”. Poi dorme, e quando si sveglia trova che l’albero sotto cui è coricato che ha metà delle foglie secche e l’altra metà verdi. Capisce il messaggio del Grande Destinante, titolare del volere e dei valori : “Io faccio quello che voglio, il mio scopo non è la tua verità, ma la mia efficacia”. Ecco, questo per dire che il profeta non deve limitarsi a mostrare delle tendenze, come l’opinionista spiega il trend. Noi non volevamo affatto tracciare e tantomeno promuovere trend (anche se in effetti c’è stata una profezia del trendismo!), ma praticare modi di anticipazione alternativi al determinismo, modi che, rispettando la complessità protensiva di ciò che può accadere, esercitassero una certa efficacia sul presente e quindi sul futuro. Volevamo anche uscire dallo storicismo del com’era e dov’era e dal sociologismo, il quale pratica l’hic et nunc dei fatti, così come stanno e vanno. Pensavamo a J. Lotman per cui certi testi funzionano “a futura memoria”. Insomma, la nostra iniziativa prendeva il rischio di dare indicazioni al futuro, e mirava quindi non alla verità ma all’efficacia.

M.C.A. Di fatto in Profezie si riversano sia le preoccupazioni che gli obbiettivi che Omar Calabrese svilupperà ne L’età neobarocca, appena precedente all’iniziativa, e in Mille di questi anni, i cui esiti sono esplicitamente ricondotti dall’autore a questo vostro laboratorio di critica della cultura.

P.F. Nella sua recente chiosa a Mille di questi anni, Umberto Eco esprime apprezzamento per il libro, ma prende una cantonata. Ha pensato che volessimo descrivere la società d’allora, mentre volevamo enunciare come avrebbe dovuto essere il suo futuro prossimo e magari remoto. È perché Eco pensa in termini segnici di corrispondenza e di verità, e noi in termini di performativi. L’idea, non era tanto di seguire l’andamento degli eventi, ma la tensione a produrre anticipazioni piccole, ma efficaci.
E c’era un concetto su cui avevamo molto discusso: la profezia come superstizione. Avevamo letto in Benveniste, che la parola superstizioso viene da profeta. I cristiani, che sono pur quelli che hanno più lottato nel nome della profezia realizzata, ce l’avevano con i profeti concorrenti perché il profeta è super testes, colui che va nel futuro e torna per testimoniare come andranno le cose. La Chiesa cristiana si opponeva: il futuro, nel suo dover essere, lo decide Dio; la figura del super testes quindi acquisisce l’accezione disforica di “superstizioso”. Ci aveva molto divertito quest’ accusa virtuale di risultare superstiziosi o trendsetter. Si trattava invece di qualche cosa di più che non rilevare di indicazioni a venire, a partire da segni premonitori.

M.C.A. Che la semiotica possa aspirare a una tale presa diagnostica sul presente appare oggi altrettanto inconsueto. La scelta (e la possibilità) stessa di prendere parola in quanto e da semiologi strutturalisti su una delle riviste divulgative italiane più popolari dell’epoca attesta di un auge culturale e una visibilità mediale della disciplina oggi difficilmente immaginabili. Non solo a livello di vulgata, ma anche nella maggior parte delle scienze umane e sociali si è fatta strada e come cristallizzata un’immagine della semiotica ancora legata all’idea di codice, e a una concezione dei linguaggi affine alla teoria della comunicazione classica piuttosto che al paradigma fenomenologico.

P.F. In Italia circola un’idea di strutturalismo tarata sul ritardo delle traduzioni statunitensi. Si pensa che lo strutturalismo come distribuzionalismo formalista (Harris) o studio di codici, come preferisce Umberto Eco. E non tutti semiologi hanno letto il passo laterale di Greimas, che all’inizio degli Anni Novanta, con la teoria delle passioni sceglie di andar oltre al paradigma logico-semantico (Reichebach), ritornando alla dimensione fenomenologica ed esistenziale della significazione (Merleau Ponty). È agli inizi dei Novanta che avviene questo passaggio. L’integrazione dell’enunciazione alla teoria semiotica era avvenuta prima, poi, in quegli anni, il ritorno sulla dimensione esperienziale ed esistenziale della significazione. Negli stessi anni, mentre scrivevamo Profezie, avviene l’istituzionalizzazione della semiotica come disciplina, e l’uscita del libro di Greimas sullo scostamento fenomenologico di paradigma in semiotica, mentre Umberto Eco dichiara che la semiotica teorica è una filosofia del linguaggio e la sua applicazione è la semiotica. Da un lato si forma una semiotica fenomenologica, mentre dall’altro dilagano le filosofie del linguaggio anglosassoni. La dimensione fenomenologica della predizione non è un problema rilevante di Eco, così come non c’è teoria del soggetto nella sua produzione abbondante. L’ha ammesso e con coerenza. In Kant e l’ornitorinco, a pag. 418, scrive: “Fabbri suggerisce pertanto che una semiotica della percezione dovrebbe recuperare il concetto di enunciazione, che implica il punto di vista del soggetto. Trovo il suggerimento fecondo di sviluppi, mi pare di averne accennato in questi saggi. Fabbri consiglia di rendere il concetto di enunciazione centrale per tutti i paragrafi che seguono, come quello sulle protesi, sugli specchi e sulle impronte. (…) Ritengo che la presenza del soggetto con il suo punto di vista sia centrale, anche se non espressa in termini di enunciazione, nelle altre parti di questo libro, in particolare quella sugli specchi”. Che molti “echiani” non leggano Eco? O forse è soltanto che l’accademia semiotica ha la digestione lenta o pigrizia intestina.

M.C.A. L’idea di effettuare “premonizioni efficaci” sembra disegnare una terza posizione anche rispetto all’alternativa fra apocalittici e integrati, una delle metafore più potenti, di cui abbiamo appena festeggiato il cinquantenario, con cui Umberto Eco ha marcato a fuoco il modo di concepire i rapporti fra scienze umane e nuove tecnologie. Di fatto, le vostre profezie evitano accuratamente finalismi in entrambi i sensi, curandosi di mantenere aperte le tensioni fra le “serie” della cultura – arte, scienza, tecnologia, costume – e ricercando alcune virtualità e pieghe possibili delle loro reciproche relazioni.

P.F. È vero. Da questo punto di vista in Profezie convergono esigenze complementari, di Omar e mie. Nel dialogo il prefisso dia- collega e distingue. Per me era centrale la semiotica come critica del senso comune – oggi diremmo delle forme di vita? – per Omar era ancora più pregnante l’effetto politico di tali critiche. Dietro l’idea di Profezie c’erano le Mitologiche di R. Barthes come uno spartito soggiacente. Ricordiamo, nel centenario della sua nascita, che Barthes da una parte ha scritto di teoria semiotica, dall’altra praticava modelli di micro-semiotica. Queste nostre mini-semiotiche quindicinali rispondevano a un progetto intellettuale e politico di sfondo: una teoria dell’ideologia che non fosse una teoria della distorsione rappresentativa, ma della rappresentazione articolata del simbolico. Le Profezie erano al centro della mia esigenza segnica e dell’impegno politico di Omar per cui la forza della semiotica era imprescindibile da una postura critica ideologica e culturale. Di certo aveva una carica moral-politica e progettuale più forte della mia e inoltre nei fatti, era Omar che spesso redigeva. Vivevo a Parigi allora e non sono uno scrittore vorace… Omar invece lo faceva con grande facilità, a volte semplificando ma, con una precisa immagine del suo pubblico – stava a Milano, conosceva bene Panorama! Non abbastanza forse: quando la testata è passata sotto il controllo di Berlusconi ce siamo andati per non dover stringere mani che non ci piacevano e per aver mancato quella, di profezia! Non eravamo i soli.

M.C.A. Le Profezie si concentrano principalmente sull’impatto delle nuove tecnologie e dei processi di globalizzazione sulle forme di vita tradizionali. Fra le vostre riflessioni emerge a più riprese, accanto all’interesse e alla curiosità verso “la tecnologia come grande sperimentatore sociale”, una certa preoccupazione per le sconfinate possibilità di riproduzione, manipolazione e personalizzazione di immagini e narrazioni paventate dalle allora nascenti tecnologie digitali. Si tratta naturalmente di un tema-chiave all’interno del dibattito estetico-filosofico coevo e successivo, ma secondo le vostre Profezie ad essere in pericolo non era tanto il “senso del reale” quanto il “senso del racconto”, la funzione mitica delle narrazioni la cui imprescindibile base collettiva vi appariva minata proprio dalla crescente individualizzazione tanto dei contenuti che dei mezzi, tempi e processi di fruizione mediatica.

P.F. Certo, il nostro si voleva l’incipit d’una critica della comunicazione, come oggi si dovrebbe fare una critica della società informatica. Ma lo studio del “simbolico” ha sempre incontrato grandi resistenze in Italia – per non parlare dei paesi anglosassoni. Ci sono impostazioni umanistiche e storicistiche ben radicate, le stesse che hanno resistito allo sviluppo delle scienze umane. Per esempio, l’idea che dovremmo tornare ad una realtà oltre del linguaggio significa che la nostra tenace a-simbolia (Barthes docet) fa sì che continuiamo a perdere uno dei punti di riferimento di quegli anni. Sto leggendo la biografia intellettuale del successore di Lévi-Strauss al Collège de France, Ph. De Scola. Che si dice cripto-strutturalista, perché per lui contano – saussurianamente – le differenze, quello che una cosa non è. Intanto, molti suoi colleghi continuano a pensare in termini di positività essenziali e ad auspicare il ritorno – a passo di gambero – della “realtà”. Se significhi per differenze, e per antonimi, non puoi essere realista quel modo; sei più attento alla comparazione relazionale tra scarti produttivi di senso. Una cultura di sinonimi, non relazionale, non simbolica, priva di fondamenti strutturali, ricade nell’ontologia. Barthes ne Il brusio della lingua racconta che alla fine del suo viaggio in Cina ascoltava il fitto parlottio dei ragazzini cinesi per riconoscervi la voce “bianca” di una società senza classi. Credo che un’inflessione almeno di questa eterotopia fosse presente nel nostro progetto. Il discorso della semiotica con la sua articolazione retorica e discorsiva ambiva a provocare sul linguaggio dell’ideologia la frizione necessaria a screpolarne il sovrappiù, l’incrostazione che ne naturalizzava l’arbitrario. Anche se l’idea di pervenire al grado zero della connotazione, al brusio d’ una società non classista era un’illusione, anche se non proprio pia.
Interrogandoci sul dispositivo della profezia, ci aveva “punto” il tratto che si pensa al profeta come attraversato da un segno incognito, da una parola che Dio gli indìce. Il profeta è un medium, nel senso forte della parola, determinato alla verità, da un destinante carico di valore che parla per lui. Noi andavamo in direzione opposta. Il discorso volgar-marxista dell’epoca, con le sue leggi definitive, pre-determinate stabiliva contraddizioni in ultima istanza, poneva il simbolico in posizione marginale, come “contraddizione secondaria” e trasformava gli attori sociali in marionette ventriloque. Noi rifiutavamo questa opzione. Il profeta non è quello che viene attraversato dal determinismo di una comunicazione cogente, ma colui che, hic et nunc, produce degli effetti tramite delle anticipazioni. Focalizza un’attesa a partire dall’esperienza. Ci eravamo dati questa regola, così ben enunciata dalla semiologia husserliana di Alfred Schutz, e l’abbiamo più o meno seguita.

M.C.A. Nell’intervista che qui ripubblichiamo, Greimas posiziona la specificità del progetto semiotico rispetto alla filosofia nella ricerca di un controllo epistemologico dei concetti. Oggi quest’esigenza è piuttosto marginale: assistiamo al contrario a un’enorme proliferazione di saperi altamente specializzati senza che si avverta la necessità di una vera riflessione sui modi di traduzione fra le discipline, sui modi in cui i concetti passano ad esempio dalle scienze dure a quelle umane e sociali e viceversa, o sul tipo di riduzioni sottese alla divulgazione.

P.F. C’è un nostalgico ritorno al behaviourismo, quello del paradigma stimolo /risposta. Il neurone si specchia senza mediazione o interpretazione. I geni sono modelli mimetici per i memi. L’esperimento naturalistico, valido nei limiti del suo laboratorio, viene indebitamente generalizzato, ultra crepidam. Di recente ho letto di un esperimento neuro-linguistico sull’interpretazione delle metafore. Un raffinato macchinario in grado di raffigurare (imaging)i diversi stati cerebrali viene applicato a una “cavia” (ovvero a un “soggetto umano in generale”, omettendo ogni diversità linguistica e culturale dei processi interpretativi), esposta allo stimolo di una batteria di metafore. Si attiva elettricamente allora una data parte del cervello. Quando si inciampa però in metafore del tipo “il collo della bottiglia”, “il salto della quaglia”, “le gambe del tavolo” non è più la stessa sezione neurale ad attivarsi. All’insaputa degli sperimentatori è un risultato che dà ragione alla teoria linguistica: le catacresi non sono metafore come le altre o non sono proprio metafore. Jakobson l’aveva ribadito: le cd. metafore non si comportano tutte alla stessa maniera, ma queste ricerche ignorano cosa sia il linguaggio (Lakoff) e dimenticano che lo stimolo va strutturato.

M.C.A. Eppure l’idea di un modello di controllo e inter-definizione dei concetti “metaforicamente” improntato a quello esercitato nell’ambito delle scienze dure ha prestato il fianco a opposte accuse, di riduzionismo scientista e indifferenza post-moderna alla dimensione valoriale ed etica del sapere, letture che hanno notevolmente contribuito alla perdita di interesse per la disciplina da parte di ambiti di studi come la critica della letteratura, l’estetica, la teoria del cinema. È come se il tratto più potente della teoria greimasiana, quella che tu hai definito a più riprese una “fenomenologia adulta” e consapevole della funzione strutturante dei linguaggi, sia stato anche il meno tradotto, o quella tradotto in modo meno felice.

P.F. Senza dubbio. Ci sono diverse e buone ragioni. La prima, ripeto, è che le scienze della significazione che sono quelle dell’uomo hanno sempre trovato grandi resistenze in una cultura che è rimasta profondamente storicista e dove si preferisce profetizzare al passato. Di recente, in un convegno a Parigi, ho ritrovato lo stupore dei colleghi francesi all’affermazione che in Italia si insegna “storia e filosofia”, mentre in Francia si insegna “storia e geografia”! D’altra parte ha inciso il fatto che in Italia, le scarse scienze umane, si confrontano a una tradizione rilevante di studi filosofici portatori di un determinismo sociale di sapore marxista – “tutto quello che è reale è razionale” – e/o di filologia e stilistica idealista. Nonostante il mantra del richiamo ai contesti, non si è mai sviluppato il concetto di complessità, a cui ambisce la semiotica greimasiana, dopo la svolta enunciazionale e fenomenologica. Prendiamo il caso Prygogine, che tanta influenza ha avuto sull’ultimo Lotman. La vecchia fisica classica, hamiltoniana, guardava ai fenomeni in equilibrio. Prygogine sceglie di occuparsi di quelli non in equilibrio, e ne viene un’altra fisica. Il nostro problema era comparabile : i codici proto-semiotici erano fissi, mentre la teoria testuale e discorsiva tratta il senso come dinamica e trasformazione. Noi abbiamo tentato di fare una teoria che tenesse conto dei fenomeni fuori dagli equilibri codificati: di pensare i sistemi e i processi di significazione.
Era questo era il piano di consistenza in cui ci collocavamo Omar ed io, in quegli anni decisivi. Era lo sfondo vasto delle nostre profezie- mini.

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