Immagini sincretiche. Interazioni e intersezioni


A cura di Vincenza Del Marco, Comunicazionepuntodoc. Intervista alla comunicazione, Fausto Lupetti Editore, Milano, n. 1, marzo 2009.


 

Abstract
Cosa accomuna e cosa distingue linguaggio verbale e linguaggio visivo? Qual è il ruolo delle immagini nelle culture contemporanee? Qual è la loro efficacia? Come analizzare i fenomeni di ibridazione e traduzione? Queste e altre le questioni affrontate nell’intervista.

Parole chiave
Immagine, Traduzione, Efficacia, Enunciazione, Linguaggio, Cultura, Motori di ricerca

Introduzione all’intervista

Paolo Fabbri è ordinario di Semiotica dell’arte e Letterature artistiche presso la Facoltà di Arte e design, IUAV, Università di Venezia. Uno dei maggiori semiologi, ha collaborato per molti anni con Algirdas Julien Greimas all’École des hautes études en sciences sociales di Parigi. Ha insegnato a Firenze, Urbino, Palermo, Bologna, Roma Due e all’estero in numerosi atenei. È stato direttore dell’Istituto italiano di cultura di Parigi. Tra le sue opere La svolta semiotica (1998), Elogio di Babele (2000), Segni del tempo (2004).
L’intervista propone un percorso attraverso alcuni temi della riflessione sull’immagine. A partire dal nodo teorico del rapporto fra linguaggio verbale e linguaggio visivo vengono considerati i sistemi e i processi di significazione ad essi legati. Di fronte alle questioni dell’efficacia simbolica e dell’inscrizione nei testi dell’intersoggettività, l’immagine e il linguaggio emergono come fenomeni non soltanto cognitivi, ma anche emotivi.
Segue una riflessione su alcuni aspetti dell’attualità delle immagini, le quali, tramite le nuove tecnologie, incontrano nuove forme di diffusione. Il sincretismo fra immagini e linguaggi assume una rilevanza centrale in differenti fenomeni. Ma siamo nel mondo dell’immagine? Come possono essere affrontate le importanti questioni legate a quella che viene definita post-modernità? Nell’analisi dei fenomeni di traduzione e creazione di ibridi culturali la semiotica della cultura può offrire una significativa chiave di lettura.

Potrebbe proporci una definizione di comunicazione come oggetto scientifico?

Credo che sia urgente dare questa definizione perché una delle accuse che vengono mosse alla comunicazione è proprio la sua assenza di scientificità, la parte tautologica della frase “scienze della comunicazione”. Diciamo che in realtà chi lavora sulla comunicazione lavora in vista di una scienza e non nella scienza e può farlo soltanto dando una definizione che risponda a quelle che noi chiamiamo “semiotiche a principio empirico”; dovrebbero esserci dei concetti interdefiniti, una coerenza dei concetti impiegati. Questa è un’esigenza minima. L’altra esigenza è un’adeguatezza dei concetti agli oggetti che costruiamo. Studiare l’infiltrazione o studiare il criptaggio richiede un tipo di teoria della comunicazione che sia in grado di avere a che fare con il segreto, con la costruzione del segreto, e non soltanto dell’emissione manifesta. Quindi direi che i problemi della coerenza e interdefinizione dei concetti e della loro adeguatezza rispetto a linguaggi-oggetto che ci si propone sono due dei criteri della scientificità del discorso della comunicazione. Soltanto che il concetto di comunicazione è una parte del discorso semiotico. La semiotica si interessa della costruzione del senso, ma si interessa anche della sua trasmissione, della sua ricezione e degli effetti che questo produce.
Naturalmente fin qui la semiotica si identifica veramente con una disciplina della comunicazione, ma si può immaginare che la comunicazione riguardi soltanto la dimensione della trasmissione, che già richiede un problema di studio particolare, e non invece della costruzione del senso e della sua ricostruzione interpretativa. Dipende da come vogliamo definire la comunicazione: se vogliamo definirla come la complessità dell’atto comunicativo dobbiamo chiamarla semiotica, se invece vogliamo occuparci della dimensione della trasmissione, allora evidentemente il compito è più limitato. Non dobbiamo dimenticare neanche che se della comunicazione fa parte la produzione della comunicazione, la sua costruzione, ci interessa anche la distruzione del senso, la trasmissione della distruzione del senso – l’iconoclastia, se vogliamo – e nello stesso tempo evidentemente ci interessano anche, per esempio, tutti i fenomeni di malinteso, di errori nella trasmissione e di errori nella comprensione. Abbiamo quindi un altro campo affascinante nella comunicazione che è quello della distruzione del senso, di tutte le resistenze e i blocchi alla sua trasmissione e tutti gli equivoci, a volte produttivi, negli atti comunicativi.

Quali differenze e quali relazioni intercorrono fra linguaggio verbale e linguaggio visivo?

È evidente che chiamarli entrambi “linguaggi” presuppone che in tutti e due i casi ci siano delle caratteristiche confrontabili. Per esempio, se fossimo molto esigenti, domanderemmo che cos’è una sintassi dell’immagine, una morfologia dell’immagine, un lessico dell’immagine, se non addirittura una sua semantica. È evidente che il problema si pone perché, una volta messe in correlazione empiricamente le immagini e il linguaggio verbale, resta il problema di quale sia l’effetto sincretico della loro intersezione. È uno dei problemi attuali. Se lei chiede a un grande costruttore di banche dati o in generale di trasmissione di nuove tecnologie le dirà che il futuro è chiaramente un futuro in cui la lettura sarà sempre più breve, sarà sempre più integrata da immagini, e da musica probabilmente. Quindi l’intersezione tra immagini e linguaggio verbale è molto lontana dall’essere un problema teorico: è, oso dire, quello che sta succedendo oggi.
Ora, per avere un’idea del sincretismo tra immagini e linguaggio bisognerebbe in qualche modo avere un’idea non separata dei due concetti, perché non sapremmo poi come metterli insieme, ma si dovrebbero avere categorie sufficientemente generali per essere in grado di dire che ci sono dei livelli in cui un’immagine e una parola hanno funzione di reciproca interdefinizione e di crescita, o anche di diminuzione di senso.
Allora come fare? È chiaro che non tutte le categorie che abbiamo elaborato sul linguaggio verbale – quelle che citavo prima: morfologia, sintassi, lessico, elenco di figure retoriche – possono essere automaticamente trasportate in immagine. Dire che esiste una retorica delle immagini è vero. La domanda poi è: quale? Esiste l’equivalenza di una fonologia nell’immagine? Ci sarebbero dei tratti minimi visivi che potremmo poi confrontare con quelli fonetici? Una parola è l’equivalente di un’immagine? Si può correttamente dire che c’è una sintassi dell’immagine? Si può dire che le immagini narrano come le parole possono narrare? Ecco alcuni problemi teorici fondamentali a cui credo che si possa dare delle risposte.
Io credo che ci siano alcune categorie che possono essere utilizzate, che sia abbastanza vano cercare delle equivalenze. Le immagini sono degli enunciati complessi. Non c’è, salvo che noi ci lavoriamo molto accuratamente, l’equivalente tra immagine e parola. Quello che possiamo invece dire è che ci sono livelli dell’una, l’immagine, e dell’altro, il linguaggio, comparabili. Per esempio io direi che c’è una discorsività generale dell’immagine e una discorsività generale della parola e a quel livello possono essere confrontate. L’organizzazione di contenuti nell’immagine e l’organizzazione di contenuti linguistici possono essere confrontate. La narrativizzazione, cioè le procedure di messa in racconto nel linguaggio, possono essere confrontate a procedure di messa in racconto dell’immagine. A questo punto si può dimostrare come un racconto può essere espresso o per immagini o per linguaggio, oppure alternativamente. Le manifestazioni semiotiche, come diciamo noi, alternate, o in reciproca definizione, sono sempre possibili. Prendiamo un esempio lontanissimo che è la pittura bizantina. La pittura bizantina aveva dei codici precisissimi su come erano certi santi: Paolo era stempiato con la barba lunga a punta nera e con il naso adunco. San Pietro aveva tutti i capelli, grigi, e una barba quadrata. Era stata costituita, come direbbe Ferdinand de Saussure, una langue dell’immagine. Ma una figura bizantina, nonostante l’identificazione, non sarebbe mai esistita se non ci fosse stato scritto sotto il nome. Allora l’interazione fra il nome e le figure codificate era assolutamente indispensabile. Ecco un esempio antico, ma evidentemente anche oggi gran parte dei giornali ha delle legende, la maggior parte delle immagini portano delle cose scritte e la maggior parte delle scritte, pensate agli scritti scientifici, portano delle immagini che sono divulgative o proprie. Quindi l’importanza oggi è di definire quali sono le categorie concettuali che ci permettono di far sì che si possa capire come un senso globale può essere manifestato o visivamente o linguisticamente: se non abbiamo delle categorie a vocazione scientifica, rischiamo di dire soltanto delle banalità.

Le immagini sono in grado di organizzare forme del contenuto e dell’espressione che il linguaggio verbale non è in grado di trasmettere?

Io metterei la cosa diversamente. Quali immagini? Perché spesso, quando pensiamo alle immagini, pensiamo alle fotografie, alla pittura figurativa quattrocentesca e cose di questo genere. Dopodiché effettivamente quando passiamo al linguaggio pensiamo molto spesso allo scritto e non all’orale. Allora proviamo a decomporre le due categorie per vedere se poi c’è un punto in cui possono essere incrociabili. Mi sembra l’unica via possibile, altrimenti uno dice frasi come “un’immagine conta più di mille parole” – una banalità – e dopo dice un’altra frase altrettanto vera, “le immagini, senza un testo che spieghi cosa sono, sono assolutamente incomprensibili”. Due frasi ugualmente vere tanto quanto quelle di coloro che dicono “ma è vero, c’era sul giornale” oppure “ma no, sono cavolate che sono sui giornali”.
Bene, allora prendiamo le immagini. Ce ne sono di diverso tipo. Prendiamo un diagramma scientifico: è un’immagine, cioè è puramente visivo, però è costruito a scopi puramente argomentativi. Se decidiamo che un diagramma scientifico è un’immagine, possiamo, per fare un esempio, dire che è fermamente confrontabile con un’argomentazione scritta oppure che un diagramma scientifico dice a volte meno di quanto non dica il linguaggio verbale. A volte il diagramma scientifico è un riassunto di quello che è stato detto meglio e più largamente nel discorso verbale: in questo caso la famosa frase “un’immagine conta più di mille parole” è falsa. Rimaniamo all’esempio del diagramma. Nelson Goodman una volta ha fatto l’esempio di un diagramma cardiaco e poi ha fatto vedere che somigliava a un disegno del monte Fujiama. Allora diceva “qual è la differenza fra il monte Fujiama disegnato da un grande disegnatore nero su bianco e un diagramma cardiaco: l’elettrocardiogramma?”. Diceva “beh, perché per esempio nell’elettrocardiogramma non conta per nulla il tracciato, il movimento della mano, eccetera”. Allora quell’immagine lì, quel movimento della mano, probabilmente non può essere resa da un certo tipo di scrittura.
Adesso prendiamo un altro esempio. Napoleone scrive una lettera e poi la dà a un suo assistente per trascriverla e trasmettere l’ordine. L’assistente non si preoccupa della calligrafia di Napoleone, trascrive soltanto ciò che c’è scritto. Mentre se qualcuno volesse fare un falso di un autografo di Napoleone, non gli importerebbe cosa c’è scritto ma copierebbe con esattezza la calligrafia.
Vede, è complicatissimo. Che cos’è la scrittura? Se io ricopio Montale a macchina e in rosso cambia forse il significato di quello che ha detto Montale? Ma se invece io ricopio una scrittura di Kounellis su un quadro di Kounellis in una maniera diversa, niente Kounellis: è morto.
Allora io ho un po’ l’impressione che l’opposizione immagine/scrittura sia una falsa opposizione. Per esempio l’immagine non diagrammatica ben più usa i colori. Voi direte “i colori portano una quantità enorme di informazioni”. Nella scienza la gente usa i falsi colori, perché? Perché serve per valori distintivi. Bene adesso noi prendiamo il linguaggio.
Perché parliamo di linguaggio scritto? Perché, se parlassimo di linguaggio orale? Per esempio, l’intonazione dove la mettiamo? È probabile per esempio che l’intonazione trasmetta una quantità di informazione straordinaria, tanto quanto il colore.
Insomma, un semiologo direbbe: la questione che bisogna mettere insieme e confrontare immagini e linguaggio richiede la preliminare, per parlare come parlavano gli altri, i derridiani, decostruzione dei due concetti. Bisogna mostrare il fatto che da un diagramma scientifico assolutamente astratto si può arrivare a una fotografia ad altissima definizione: c’è una quantità enorme di variazioni. E dall’altra parte possiamo passare da una scrittura da computer molto generica fino, che so io, a una scrittura manuale, fino alla parola abitata da tutte le sue emozioni e intonazioni. Io credo che solo dopo aver decostruito l’oggetto possiamo mostrare che a certi livelli il confronto può essere fatto e ad altri livelli no.

Quali sono le possibilità di estendere il concetto e i dispositivi di enunciazione al campo dell’immagine? Pensa che sia un approccio produttivo?

Sì, molto. Credo che il concetto di enunciazione, come quello di narratività e come quello di retorica, ci aiuterebbe molto nella ricostruzione dell’incontro tra immagini e linguaggio. Noi sappiamo che nel linguaggio i meccanismi dell’enunciazione sono largamente codificati, addirittura dentro alla grammatica, anche se utilizzati in modo molto vario nel discorso.
Nel linguaggio quotidiano la relazione del soggetto che parla con chi lo ascolta è inscritta morfologicamente nella lingua stessa attraverso i pronomi: io, tu, noi, eccetera. Quindi l’atto comunicativo, che è quello linguistico, contiene al suo interno simulacri della relazione enunciativa. Io posso dire “tu ed io”, “io e tu”, posso dire “noi”, mettendoci insieme nella comunicazione. La parola linguistica contiene, nell’enunciazione, simulacri delle relazioni di comunicazione che noi stabiliamo parlando. La parola, cioè, è abitata direttamente dalla propria comunicazione. Non c’è un emittente, un messaggio e un ricevente, perché dentro il messaggio è rappresentata la relazione di emittenza e di ricezione, questo mi sembra importante. Ma è così anche nell’immagine, solo che nell’immagine non sono codificati in larga parte i sistemi espressivi (anche se non lo sono totalmente neanche nel linguaggio).
Le faccio un esempio molto semplice: “a me mi piace”. La gente dice “ma no, non si dice”. Perché? Perché raddoppia. Ebbene, e allora, se raddoppia? A me mi piace è un dativo, dativo di interesse si dice, vuol dire “a me mi piace davvero, veramente e proprio a me”, e questo significa che stiamo esprimendo una focalizzazione sulla problematica dell’interazione. Parliamo del piacere, parliamo della comunicazione del piacere, del suo ricevimento, e insistiamo sull’interesse e la passione che ne abbiamo.
Ma prendiamo la frase di un romanzo che dice “io non sono più quella che ha perduto mio padre”. Se fosse buona grammatica dovrebbe dire “io non sono più quella (o quello) che ha perduto suo padre”. Ma perché dice “mio”? Perché nel primo caso ha usato un termine assolutamente obiettivante, in terza persona, ha tolto per così dire il soggetto che parla. “Io”, il soggetto che parla, “non son più quella”, ecco che il soggetto diventa completamente obiettivato, “che ha perso”, voi direte: “suo padre”, perché è obiettivato. Invece no: “mio padre”, e si riferisce all’io iniziale. Questo significa che nei momenti di emozione, di passione, di ricordo doloroso, la soggettività ritorna e si marca nonostante l’obiettività.
Nella lingua questo gioco tra interazione soggettiva e obiettivazione è inscritto nei pronomi di persona, nei possessivi e così via. Anche nell’immagine c’è, solo che si devono guardare le strategie che vengono utilizzate.
Esempio. Torniamo al Fujiama. Se facciamo un diagramma scientifico è puramente obiettivato, è in terza persona. Ma se invece disegniamo qualcosa ci sono le tracce della nostra mano. Nessuno si preoccupa che un diagramma scientifico sia originale. A meno che non sia Darwin che lo ha fatto di mano sua, nel caso particolare di un diagramma noi non ci preoccupiamo di chi lo ha disegnato e che intenzioni aveva in quel momento: per noi è un atto comunicativo obiettivato, che viene trasmesso a un pubblico generico. Ecco però che se l’immagine per esempio è di profilo, un’immagine in questo caso figurativa classica, o ci guarda direttamente, cioè guarda chi la guarda, le cose cambiano completamente. Ogni storico dell’arte, ma anche ogni pubblicitario, guarda immediatamente se un’immagine figurativa vi guarda negli occhi o è di profilo. Perché quella di profilo racconta una storia, quella che è girata vi racconta una storia, cioè instaura una relazione di enunciazione con voi.
Nel famoso slogan di propaganda americana “I want you” la persona non era qualcuno che rappresentava l’atto di richiedere ai cittadini presenza. Si rivolgeva direttamente a chiunque guardasse l’immagine. Ecco dunque quest’idea: le strategie di enunciazione, che possono essere di tipo obiettivante, soggettivante o intersoggettivante, sono vere nel linguaggio, a livello discorsivo, quanto nell’immagine. Solo che mentre il linguaggio ha ormai morfologizzato, stabilizzato delle forme specifiche, addette a questo, l’immagine non ne ha in generale, ma certi generi specifici ce l’hanno. Faccio un esempio ancora una volta di questa idea della frontalità/profilo delle immagini. Le immagini che vi interrogano, instaurando un rapporto io/tu comunicativo di enunciazione, non sono necessariamente così. Per esempio nella pittura vascolare greca classica sono tutti di profilo, vi guardano soltanto gli ubriachi, i morenti, gli omosessuali, solo una certa classe di persone vi guarda, gli altri si guardano. Nella pittura egiziana classica la maggior parte dei personaggi sono tutti di profilo, ce n’è uno solo che vi guarda: il traditore. Allora quali sono le strategie con cui l’immagine ha utilizzato in maniera diversa certe disposizioni per creare gli effetti di intersoggettività che noi chiamiamo enunciazione? Non dimentichiamo che per noi l’enunciazione è l’inscrizione della dimensione intersoggettiva all’interno dei testi e dei comportamenti. Ecco, questo è l’importante. Le immagini hanno la loro strategia intersoggettiva e il discorso anche. Dopodiché, quando immagine e discorso si mettono insieme si possono, come dire, calcolare le strategie che volete utilizzare. Nella pittura bizantina il 90% dei personaggi vi guardano di fronte. Cristo per definizione vi guarda di fronte, Pantocrator, anzi vi segue con lo sguardo quando vi muovete: è l’immagine frontale per definizione. Però se guardate la pittura bizantina, o qualunque immagine con un nome scritto sotto, il nome non dice “io sono San Paolo”. Dice “San Paolo”. È, cioè, completamente obiettivato. L’enunciato obiettivato è il linguaggio, mentre l’immagine usa le strategie intersoggettive.

Le immagini hanno un’efficacia simbolica diversa da quella dei testi verbali?

Questo è un problema molto serio perché naturalmente implica cosa intendiamo per efficacia. Intanto intendiamoci sul fatto di non ributtare da una parte all’altra efficacia e verità, perché certo una delle opposizioni classiche è espressa da frasi come “il linguaggio dice la verità”, “l’immagine dice la verità”, “il linguaggio dice il vero più delle immagini” eccetera. Io credo che non sia quello il problema. Chiamiamo anche la verità un effetto, dopodiché poniamoci nei termini dell’efficacia. Di solito riflettiamo sul problema dell’efficacia in termini cognitivi, ci chiediamo cioè: “l’immagine fa sapere qualcosa?”, “il linguaggio fa sapere qualcosa?”. Ma abbiamo torto, perché l’immagine e il linguaggio sono profondamente emotivi ed emozionali. Naturalmente c’è l’idea che l’immagine sia più emotiva del linguaggio, e questo è un vecchio sospetto. Ancora una volta è perché non diciamo mai prima a che tipo di immagine e a che tipo di linguaggio ci riferiamo. Il linguaggio verbale con l’intonazione è altamente emotivo, può essere utilizzato in modo altamente emotivo. L’immagine ridotta a livello di un diagramma o di uno schema è scarsamente emotiva. Quindi dire che l’immagine è più emotiva del linguaggio, come al solito, è uno dei problemi classici derivati dal fatto di non avere decostruito e ricostruito cosa sia semioticamente un’immagine. Una volta trovato il livello giusto, le cose possono essere fatte.
Il problema fondamentale che noi ci poniamo è se il linguaggio in qualche modo traduca il sensibile. Parlo dell’efficacia nel senso di un’efficacia non solo cognitiva e informativa (abbiamo già parlato prima di questo) ma sensibile, e credo che in questo caso dovremmo tenere conto di qualcosa di molto importante: linguaggio e immagine non portano solo informazioni. Questo lo credono solo i filosofi del linguaggio. Io credo che ci sia una fenomenologia dell’immagine e della parola, e che questa fenomenologia abbia a che fare con il modo con cui noi percepiamo e sentiamo le immagini e la parola. Allora sì che siamo nel mondo dell’efficacia.
Il problema si pone sia nell’emittente sia nel ricevente, in chi per esempio ha sentito fortemente la signora che dice “io non sono più quella che ha perduto mio padre”: lì è evidentissimo che c’è stato un fenomeno emotivo che ha permesso che si ritornasse dall’obiettivazione alla soggettivazione. Il linguaggio ha offerto alcuni suoi strumenti per tradurre un’emozione, però ha conservato una rottura dell’enunciazione, che è quella che ci capita quando ci si rompe la voce raccontando qualcosa che ci ha molto emozionato. Questa rottura si fa dentro il linguaggio, però segnala una sensibilità emotiva, percettiva, che la precede: ecco l’efficacia. Facciamo un esempio del modo con cui il sensibile viene espresso visivamente. Uno degli effetti più normali nell’immagine, penso alla fotografia, è il tremblée. Se volete rendere l’ipotesi che a un certo punto è successa una cosa emozionante, prendete la macchina, la fate ballare un po’ e fate un effetto, si dice di bugée, di mosso, segno mosso come diceva Eisenstein. Evidentemente è una simulazione, ma è una simulazione molto efficace. The Blair Witch Project era molto divertente perché mostrava con il movimento della mano nell’immagine tutti i segni di paura, di terrore o di fretta che aveva chi riprendeva. Quindi evidentemente l’immagine aveva inscritto quello che il corpo provava come efficacia. Io direi che è un’immagine realista, più realista di così? Voi direte è un effetto, appunto stiamo parlando degli effetti.
L’altro problema è quello della lettura. Puškin ha detto una volta una frase che credo tutti potremmo sottoscrivere: “sull’immaginazione verso le mie lacrime”. A volte piangi più al cinema o leggendo qualcosa di quanto non pianga nelle circostanze dure della vita. Perché nelle circostanze dure della vita non capisci quando è il momento giusto di piangere. Che sia proprio l’ultima volta che ci vedremo? Magari c’è un’altra volta nella vita. Mentre al cinema no, è proprio l’ultima volta. Allora piangete davvero, mentre nell’altro caso non piangete perché vi illudete, errando, che quello sia l’ultimo incontro. In qualche modo i testi di finzione propongono i momenti giusti nei quali mettere le nostre emozioni. Ciononostante le emozioni ci sono, eccome. Sappiamo che è una finzione, sappiamo che ci hanno costruito i tempi per depositare le nostre emozioni, ma tanto piangiamo lo stesso: sono lacrime vere su immaginazione.
Quello che vorrei dire, e questa è una cosa che non si dice di solito, è che la relazione fra fusis (la realtà, la natura) e logos (il linguaggio) in questo caso è paradossalmente non nella corrispondenza fra il cane e la parola cane, ma tra il modo in cui lo dico, l’enunciazione, e il modo in cui lo ricevo con il mio corpo. Sta in questo la verità. Non c’è relazione più forte tra la natura, cioè il modo in cui il nostro corpo percepisce, soffre, riceve emozioni e agisce, e la lettura, la scrittura, la parola, la produzione di fotografie o immagini, le quali sono vere, o meglio sono efficaci, sono reali. Io sono molto irritato con quelli che si pongono il problema della relazione fra la parola cane e il cane e se lo pongono in termini di verità, dimenticando che c’è una verità nel linguaggio e nei segni. La gesticolazione è un esempio perfetto, la gesticolazione esprime dei contenuti, ma li esprime con il nostro corpo. Quindi nelle gesticolazioni siamo profondamente coinvolti. Ci sono gesti che ci trascinano, che abbiamo fatto, intonazioni che ci trascinano. Allora, per concludere, la relazione fra i linguaggi e i segni e la realtà non va misurata nella capacità di rappresentarla, va misurata nella capacità che ha il nostro corpo, la nostra sensibilità, di tradurre nei linguaggi, di ripresentarli, diciamo, nei coinvolgimenti fenomenologici della produzione e della lettura. Lì sta la relazione tra il logos e la fusis, cioè tra i linguaggi e simili e la realtà. È la fenomenologia del linguaggio e non la filosofia del linguaggio.

Le immagini possono estendere la conoscenza ma anche direzionarla, selezionarla. Che peso hanno i motori di ricerca nell’influenzare pratiche di fruizione, produzione e organizzazione?

Questo è un tema che riguarda proprio l’organizzazione cognitiva. L’abbiamo già detto prima: quelli che lavorano sui grandi motori di ricerca, quelli che hanno inventato YouTube, secondo me sono convinti che oggi l’informazione passa non più attraverso la lettura, ma attraverso un’interazione, abbiamo detto sincretica, tra lettura, immagine e musica. E credo sia lì che la questione va cercata, cioè in questa interazione. Credo che se oggi stiamo parlando e non è solo un’intervista scritta è perché pensiamo che effettivamente sia così che la nuova informazione sarà fatta. Bene, il problema dei motori di ricerca può essere preso, come noi diciamo spesso, a livello paradigmatico: le grandi enciclopedie, la Wikipedia è perfetta. Dall’altra parte invece possiamo considerare i grandi racconti. I grandi motori di ricerca lavorano sul piano del paradigmatico e le enciclopedie sul piano sintagmatico, i racconti. Però siamo anche capaci all’interno di ogni racconto, punto per punto, con l’ipertesto, di creare, di fare un paradigma su ciascun punto del sintagma. L’ipertesto è una gigantesca paradigmatizzazione del sintagmatico. Credo che l’immagine giochi un ruolo fondamentale, ma ritengo che non dobbiamo esagerare il suo ruolo. Non siamo nel mondo dell’immagine, è un errore. Sono d’accordo con Baudrillard quando diceva quella frase banalissima a proposito della televisione “io di immagini non ne vedo, vedo persone che stan sedute e chiacchierano”. Quindi di immagini non ne vedo: sento parlare, parlare, parlare. E guardate che se vi mettete alla televisione in gran parte vediamo gente che parla. Quindi chiamare la nostra “civiltà dell’immagine” è un errore. Baudrillard diceva paradossalmente – era a Roma quando lo diceva – che la grande civiltà dell’immagine è il barocco romano. Quelle sì che erano persone che producevano immagini stupefacenti. Ma adesso, a parte il paradosso di dire che il barocco è stato un momento di immagini e che la nostra epoca è un momento di tutte chiacchiere, difendiamola questa complessità. La nostra è un’epoca in cui ci sono poche immagini e tutte ancorate da una enorme quantità di discorsi.

Come agiscono le immagini nella creazione, definizione e diffusione di conoscenza?

L’ho detto: da sole pochissimo e malissimo. C’è un esempio molto semplice. La maggior parte delle fotografie sono praticamente illeggibili senza testo e anche il loro effetto è molto scarso. Susan Sontag di recente ha scritto sulla fotografia, la fotografia è un esempio assolutamente perfetto di questo. Ricordo sempre una frase che mi è stata detta a Los Angeles: il 70% del bilancio di Hollywood è speso nello scrivere e riscrivere sceneggiature, il 30% nel girare immagini.

Quali prospettive offre la semiotica della cultura nell’analisi dei fenomeni di traduzione e ibridazione?

Questo mi eccita molto perché evidentemente sono cose sulle quali sto lavorando ora.
È chiaro che è un problema che ci siamo posti da molto tempo. Mi aiuta a mettere in luce due cose. La semiotica prima di tutto è costruttivista, non è decostruzionista: mira alla costruzione di concetti e quindi non è post-moderna. Perché? Perché come dice Latour forse non siamo mai stati veramente moderni e abbiamo bisogno di diventarlo. Cioè che la post-modernità, sempre per riprendere il suo più grande creatore concettuale, che è Lyotard, non è un problema di tempi. Non è che siamo dopo la modernità. La post-modernità è un momento della modernità, si chiama modernità riflessiva, che anzi torna a “prima” della modernità per interrogarsi sui suoi fondamenti.
La semiotica è una disciplina che si interessa ai fondamenti della modernità, dunque è anche qui “non post-moderna”, a meno che il post-moderno non sia appunto interrogarsi sui fondamenti della modernità riflessiva.
Ora, nella modernità riflessiva è stato detto dai post-moderni che non ci sono più grandi racconti, che i racconti si sono frantumati. Non è vero. Un racconto fondamentale è la globalizzazione. Oggi siamo dentro al grande racconto della globalizzazione, che si dà sotto il modo della generalizzazione: tutti mangeremo McDonald eccetera. Ritengo che questo non sia vero, e che siamo invece in un vastissimo movimento di traduzioni culturali e di creazioni di ibridi culturali. Per non dire delle banalità del tipo “sì ma quando ero di recente in India in un buco ho letto Industani Times e si leggeva: l’esercito italiano si batte senza speranza contro l’immondizia, e che quindi nel buco più lontano della terra sapevamo tutto sull’immondizia a Napoli. Dobbiamo sapere come la gente le riceve, queste cose, come le ricicla, come le fraintende e così via. Come sono state selezionate? Come sono state trasmesse? Io credo che per far questo dobbiamo pensare in termini di ibridazioni culturali, cioè che la grande globalizzazione non è un’utopia: è un’eterotopia, direbbe Foucault, cioè è un modo per cui il confronto con l’altro ci fa capire chi siamo. E nei confronti con l’altro che ci fanno capire chi siamo ci sono due possibilità: una è turistica e l’altra invece è speculativa. La semiotica pensa che bisogna riflettere i problemi costanti di ibridazione e di traduzione culturale.
Perché diciamo traduzione e non pura interpretazione? L’interpretazione non ha regole. Uno interpreta come gli pare. La traduzione le regole ce le ha. Basta pensare alle lingue, se voi non sapete le regole di una lingua non traducete. Quindi il concetto dell’ibridazione è un risultato a mio avviso affascinante che rinnova costantemente i contenuti: anche le cattive traduzioni sono interessanti in quanto rinnovano i contenuti. Allora cosa succede? Che la globalizzazione attuale è sottoposta a un’enorme attività di traduzioni, anche sbagliate, e di ibridazioni. Come? Per non dire le banalità che dice sempre la comunicazione dobbiamo avere dei concetti. Questi concetti per me sono molto interessanti: sono i concetti di creolizzazione. Da molto tempo in semiotica si è detto che dovremmo utilizzare i concetti linguistici di creolizzazione e pidginizzazione ed estenderli ai sistemi semiotici. Per esempio abbiamo pidginizzazione quando due lingue, incontrandosi, per potersi intendere impoveriscono l’una l’altra, impoverendosi abbastanza da permettere una comunicazione a livello molto basso. È vero, ma come accade, come succede? Oppure: è noto che invece due lingue, dopo essersi doverosamente impoverite, quando invece hanno bisogno di maggiori comunicazioni più sofisticate, addirittura inventano lingue nuove, si rimorfologizzano, risemantizzano, e si chiamano lingue creole. Quello che mi interessa molto oggi è cosa succede nel mondo quando si creolizzano sistemi di segni non linguistici.
Faccio un esempio preciso. Ci si è accorti negli studi di linguistica, nei contatti linguistici e semiotici, che per esempio in una grande piantagione schiavista nel Sud, mettiamo nei Caraibi o in Africa, la persona dominata con la sua lingua (poniamo un dialetto africano) e la persona dominante, con la sua lingua europea (portoghese, spagnolo o inglese) scambiavano in qualche modo i linguaggi e con il tempo hanno creato lingue creole. Ma è successo un fenomeno che ci interessa molto: le lingue dominate hanno mantenuto la loro grammatica e hanno preso a prestito soltanto il lessico dei dominatori. Sono stato in India di recente e ho visto signore che tenacemente continuano a portare il sahri, però tutti gli accessori sono occidentali: le scarpe, le borse, gli orecchini, le cinte, i guanti. Mi ha molto colpito perché è come se qualcuno avesse mantenuto la propria grammatica ma avesse cambiato tutto il lessico. Ecco, abbiamo la possibilità non di trasporre il linguaggio negli altri sistemi di segni ma di studiare tutti i sistemi di segni utilizzando fenomeni di contatto, ibridazione culturale. Come si fa? Prendiamo un esempio preciso. Nelle famose piantagioni la parola del padrone era indubbiamente presa a prestito: era parola di prestigio, ma non veniva utilizzata come tale, veniva distorta. Basta guardare il black english attuale che distorce completamente le parole e le usa anche nell’intonazione a modo proprio, è quella che si chiama – noi la chiamiamo – rilessificazione: muta, cioè, il lessico.
Come vengono rilessificati, per così dire, tutti i segni occidentali, una volta arrivati in altre culture? Come vengono inscritti nelle grammatiche delle culture altre? Ecco, ho la vaga impressione che, per capire davvero cosa succede oggi a livello culturale nei fenomeni in cui rendiamo simile il concetto di mondializzazione e di globalizzazione, dovremmo vedere cosa succede in questi casi. Ma questi fenomeni di ibridazione e metissaggio che raccontiamo, che vediamo normalmente, sono linguaggio oggetto. Quali sono le categorie metalinguistiche, metasemiotiche di cui abbiamo bisogno per analizzarli e renderli interessanti? Un altro esempio banalissimo: cosa è successo quando il formato del Grande Fratello inventato dagli olandesi è stato trasposto in Italia? Cosa è stato mantenuto della sintassi narrativa, cosa è stato cambiato del lessico, per così dire, nelle immagini nostre, quali regole sono state cambiate? Se non abbiamo categorie, tutto quello che possiamo fare è giornalismo di serie B, nel senso che i giornalisti almeno ci sono stati. Quindi l’idea della necessità di un approccio a vocazione scientifica nella semiotica mi sembra fondamentale.

Il Lisav (Laboratorio Internazionale di Semiotica a Venezia) ha proposto un ciclo di seminari ai visitatori della Biennale Arti Visive 2007. Potrebbe parlarci di questa esperienza di traduzione e di comunicazione?

Sì, con piacere, perché era la prima volta che succedeva una cosa del genere, cioè che gli universitari si interessassero in questa maniera della Biennale di Venezia. La Biennale di Venezia è ancora uno dei grandi momenti di incontro con le arti contemporanee, ma ha delle modalità singolari. Viene inaugurata in giugno e chiude in ottobre, è visitata da un centinaio di migliaia di persone. Il catalogo è già pronto quando parte la Biennale. Succede che molto spesso le installazioni di artisti non corrispondono al catalogo che è stato dato, le fotografie non certamente. Ma questo non sarebbe grave. La cosa più importante è che i critici d’arte che hanno preparato e scelto, che hanno già fatto il lavoro prima, sono là all’inaugurazione e poi il giorno dopo se ne vanno a fare Basel, Kasell. Cosa succede? Che il pubblico a Venezia si ritrova ad avere a che fare con specialisti della comunicazione, che gli spiegano qualcosa delle intenzioni, e con le interviste degli autori, che a volte sono, come tutte le interviste, non proprio oggettive, dicono cioè quello che l’autore pensa che si debba pensare rispetto al proprio lavoro. Sono utilissime, ma fanno parte del linguaggio, fanno parte, noi diremmo, del corpus da analizzare.
Ora, di solito gli universitari intervengono giustamente o come critici o come curatori, ma raramente nelle analisi delle opere, che vengono invece fatte all’università. Allora noi abbiamo proposto, molto semplicemente, di creare dei seminari all’interno della Biennale per il pubblico, prendendo alcune opere e cercando di spiegarle, cioè di dimostrare come sono. Naturalmente non è che abbia avuto un grande successo di pubblico, e questo è il minimo che si può dire. Ma l’alternativa è un pubblico che è in mezzo a oggetti eccezionalmente disparati nel mondo e negli stili e davanti ai quali i giudizi sono o prescritti oppure di tipo puramente soggettivante. Prendere il catalogo e leggere parola per parola è l’ultima cosa che succede, anche se il catalogo della Biennale è uno dei libri più venduti in Italia. L’industria non è veramente interessata a questo problema di comunicazione col pubblico. Il pubblico si trova perfettamente disarmato, disarmato perché i grandi salon dell’Ottocento erano d’accordo su cos’era scultura, c’era un salon della scultura e pittura e cinema, per parlare del Novecento. Oggi no. Oggi ci sono i video e le installazioni, non si sa più cos’è pittura e cos’è scultura. Primo. Secondo, l’arte contemporanea è profondamente concettuale e sensibile, cioè pone sfide molto sofisticate all’organizzazione del senso e della sensibilità in tutti i sensi della parola “senso”. Questa è una sfida in cui l’opera non è una risposta, ma è la domanda. Se non c’è qualcuno che si incarica non dico di fornire una risposta, ma di dare una indicazione sulla forma della questione, le risposte sono insensate.
La mia idea è che l’arte contemporanea è diventata un laboratorio di senso e di sensi e credo che valga la pena di interrogarla. Ho tenuto un corso intero sul problema del disgusto nelle arti contemporanee, mostrando come la sensibilità nell’arte contemporanea viene messa alla prova direi quasi come un laboratorio. E naturalmente questo fa sì che un pubblico si presenti senza avere nessun consenso preliminare di conoscenza che gli consenta la valutazione estetica differenziale. Quindi tutto quello che può fare è ricalcolarlo sulla base di categorie estetiche precedenti e, come è noto, è proprio il contrario di quello che fa l’arte contemporanea, è scoprire che un signore che ha preso un teschio e lo ha coperto di diamanti, che costano più della corona d’Inghilterra, Damien Hirst, ha fatto una cosa che è un memento mori e dire che è un memento mori è un assurdo perché è qualcosa che trapassa radicalmente il problema. Allora ritengo che trattare l’arte contemporanea come un laboratorio di significato mette i semiologi in una necessità di traduttori necessari. Deleuze diceva di intercessori. Ci abbiamo provato. Come tutti i tentativi iniziali non ha successo. Spero che continui.


Riferimenti delle opere citate nel testo e bibliografia d’interesse

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BECK ULRICH, 1999, Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Carocci, Roma (ed. orig. 1997)

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CORRAIN LUCIA (a cura di), 2004, Semiotiche della pittura, Meltemi, Roma

CORRAIN LUCIA, VALENTI MARIO (a cura di), 1991, Leggere l’opera d’arte, Esculapio, Bologna (ed. orig 1984)

FABBRI PAOLO, 1998, La Svolta Semiotica, Laterza, Roma-Bari

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FABBRI PAOLO, 2004, Segni del tempo, Meltemi, Roma

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