I linguaggi della televisione


Da: Il Grillo, programma televisivo di RAI Educational, puntata del 28/01/1998.


Fabbri: Buongiorno, mi chiamo Paolo Fabbri, insegno Semiotica all’Università di Bologna. Al corso di laurea del DAMS e mi interesso di problemi di costruzione del significato e della sua trasmissione. Come sono arrivato a questo tipo di studi e di ricerche? Per due ragioni: la prima, sono figlio di un ufficiale che è morto nell’ultima guerra mondiale, per il nostro paese, e penso che studiare e riflettere e trasmettere cultura sia, in qualche modo, un modo di continuare questo impegno; secondo, sono il fratello del direttore di una delle più grandi discoteche italiane e mi sono sempre interessato ai problemi dello spettacolo e della relazione ai giovani, sia che fosse nell’università sia che fosse fuori dall’università. L’ultima cosa è che ho pensato che lo studio dei problemi di comunicazione e di significato fossero essenziali, oggi, per capire cosa succede nel mondo. Verso questo atteggiamento io conservo una certa curiosità. La curiosità è una passione e vuol dire che, quando sapete qualche cosa, voi conservate la voglia di passare a saperne un’altra. Ecco un professore di semiotica che ha conservato della curiosità. E adesso dovremo parlare di linguaggi televisivi. Io adesso vorrei che guardassimo insieme una scheda che ci preparerà alla discussione.

– Si visiona la scheda.

PRESENTATORE: La televisione organizza la propria offerta al pubblico attraverso una griglia oraria detta palinsesto. La selezione dell’offerta avviene utilizzando alcuni criteri di natura sociologica ed altri di tipo economico. In ogni caso il fine sembra essere quello di creare consenso attorno al medium stesso e poi ai valori che esso veicola. Per far questo divide il pubblico in target. Immaginando un’offerta, basata sui gusti di tale pubblico, ecco allora che si offrono soap operas al pomeriggio, pensando a casalinghe trafelate e bisognose di rilassarsi, godendo di una storia sentimentale e/o intricata, per dare loro l’agio d’immedesimarsi con belle attrici o di gratificarsi, quando la serie proposta è di quelle tristi, constatando che, in fondo, i propri congiunti sono meglio di quelli della famiglia che si vede in TV.

PRESENTATORE: Il vero e il falso sono nella televisione di oggi un solo genere?

PRESENTATORE: L’offerta tuttavia è limitata dalle risorse economiche che l’editore di televisione mette a disposizione per l’acquisto e la produzione di programmi. Questo ha facilitato la moltiplicazione di programmi realizzati in studio e lo sfruttamento, in chiave spettacolare, delle autocelebrazioni dei beniamini del pubblico.

PRESENTATORE: Quanto va in onda è dunque un misto fra ipotizzate rischieste dell’utente e le necessità editoriali?

PRESENTATORE: Nella speranza di creare un pubblico a propria immagine e somiglianza la televisione arriva a utilizzare la finzione anche nel reale. Gli applausi a comando ne sono un esempio abbastanza evidente. Creano consenso e inducono ad un atteggiamento imitativo. Del resto si è anche arrivati a ricostruire un pezzo del Muro di Berlino, per poterlo riabbattere in diretta con adeguata colonna sonora. Creare le immagini che vanno a sedimentarsi nell’immaginario di ciascuno di noi dà alla TV un potere straordinario. Il pubblico assorbe questa lingua e i suoi valori o riesce a interagire con essa?

– Fine della scheda, inizia la discussione.

Fabbri: Bene, avete avuto una scheda di riferimento, che ci servirà per la discussione. Vorrei aggiungere due o tre cose che potrebbero essere utili per chiacchierare poi insieme. La prima è quest’idea che la televisione, oltre a insegnare, non solo, ma a informare, a divertire – grandi funzioni che conosciamo – insegna soprattutto se stessa, tant’è vero che ha creato una memoria collettiva. Molto spesso noi sappiamo di cose che sono accadute alla televisione e ci divertiamo a riguardarle. Un secondo punto fondamentale è il cambiamento di atteggiamento nostro. Cioè oggi siamo più liberi, dato che abbiamo il telecomando, rispetto alla televisione o no? Altri due punti, gli ultimi. In prima questione, il consenso che la televisione riesce a creare o il dissenso tocca a delle questioni fondamentali. La musica, la sua efficacia, lo spettacolo del dolore altrui. Bene qual è il nostro atteggiamento e il vostro, rispetto a questo?

STUDENTESSA: Il linguaggio della televisione influisce molto sul linguaggio della vita quotidiana. Ed anche per questo motivo il filosofo Popper afferma che la televisione appunto è una cattiva maestra. Secondo Lei la TV può avere un ruolo educativo, dal momento che non c’è un interscambio con il pubblico a casa?

Dunque, un interscambio attivo non c’è ancora. Di fatto c’è un interscambio, che è appunto dovuto al fatto che noi, oggi, possiamo scegliere infinitamente di più di quanto non scegliessimo una volta e, molto probabilmente, una televisione interattiva è davanti a noi. Cioè, la vecchia televisione, cioè la vetero televisione, come la chiama Eco, era una televisione in cui noi stavamo seduti a ricevere informazioni. La televisione attuale è una televisione in cui, attraverso il telecomando, la scelta tra programmi è molto vasta. È dal ’77 in poi che questo accade. Indubbiamente è molto più, più partecipativa da parte del nostro punto di vista. Le nuove tecnologie sembrano proporre la possibilità di utilizzare la televisione in maniera più interattiva. Questa è la questione. Quanto a Popper, Popper è un uomo che ha quasi novant’anni, secondo me guarda pochissimo la televisione ed ha un’idea molto precisa, cioè pensa che la televisione è fatta a scopi eminentemente educativi. Io credo che effettivamente la televisione pone dei problemi interessanti a chi educa oggi. Le do un esempio: io stesso. I miei studenti sono, oggi, persone che vedono quantità enormi di immagini. Quindi il problema non è che io debbo far sapere loro quali immagini sono. In compenso tocca a me contestualizzarle, cioè dire il senso di queste immagini, aiutarli nella scelta e dar loro delle definizioni di significati. Questo sì. Questo non ritengo che la televisione possa farlo senza che ci sia un insegnamento qualificante. Quindi non tocca alla televisione di insegnare, tocca agli insegnanti insegnare l’uso della televisione.

STUDENTE: L’uomo ha creato i mezzi di comunicazione, quali la televisione, per due scopi: innanzi tutto comunicare e per poter diffondere le notizie nel mondo. Quindi, diciamo che ha messo la tecnica al servizio dei suoi bisogni. Tuttavia ogni tecnica è un rischio. Lei non crede che la generazione moderna, che tanto si affida a questo potente mezzo, possa subire una manipolazione intellettuale da parte del mezzo televisivo?

Dunque, è vero che – intanto grazie per aver sottolineato l’aspetto tecnico -, cioè la televisione è effettivamente un mezzo, e, come tale, le sue evoluzioni tecniche hanno un’influenza enorme sulla televisione stessa. Questa è una banalità, però va ribadita, ma non va esagerata neanche. C’è stato un momento in cui un altro studioso, non solo Popper, ma anche McLuan, diceva: “Il mezzo è il messaggio”. Cioè, non è importante cosa trasmette la televisione, l’importante è che trasmette certe forme, certe immagini, e così via. Anche questa posizione mi sembra esagerata. Piuttosto il problema della televisione oggi è di vedere se ha o no un’influenza su di noi. Evidentemente ha un’influenza su di noi. Questo è chiaro. Ci fa vedere certe cose, e altre, ma non come una volta, in cui si poteva dire che un linguaggio condizionava il nostro modo di pensare. Noi confondiamo spesso l’atteggiamento di riceventi con un atteggiamento passivo, ma l’atteggiamento passivo non è necessariamente quello di uno che riceve. Si può ricevere selezionando. Cioè c’è una passività attiva, se oso dire. Quindi il nostro problema non è tanto che noi riceviamo informazioni, è come sappiamo selezionarle e come sappiamo ridefinirle. L’evoluzione tecnologica ci darà delle possibilità, in futuro, di diversi tipi di pensiero e di organizzazione. Utilizzeremo, penso, sempre più lo schermo, persino per dei videogiochi. Io però non ce l’ho affatto coi videogiochi. Io penso che i videogiochi attivino, per esempio, delle capacità di inferenza, delle capacità empiriche di induzione, molto più importanti di quanto non si creda. Non sono, a priori, contro la tecnica.

STUDENTE: Come pensa che si possa creare una sorta di integrazione tra il retto funzionamento della televisione e le esigenze critiche dell’individuo?

È chiaro che, se uno guarda solo la televisione, sarà molto difficile. Ma, grazie al cielo, non guardiamo soltanto la televisione. E, oltre alla televisione, leggiamo libri, e continuiamo a farlo, andiamo al cinema, continuiamo a farlo, ascoltiamo la radio, chiacchieriamo fra noi, leggiamo i giornali, e così via. Quindi la televisione sta in un insieme di media, che in qualche modo la informano e la modificano. Quindi non credo. Non è un atteggiamento pessimista, come hanno molto spesso gli intellettuali, i quali ritengono, secondo me, formati in un’abitudine, diciamo nel vecchio mondo del libro, che è un mondo antico, un mondo che ha mille anni dietro di sé, ha molta difficoltà di avere a che fare con quell’informazione complessiva, simultanea, sincretica, che è l’immagine e la musica.

STUDENTE: Si dice che la televisione non sia solo uno strumento di informazione, ma anche di formazione. Secondo Lei, il suo ruolo è solo quello di assecondare i gusti del pubblico, o piuttosto quello di formarlo, diffondendo anche un altro tipo di cultura, soprattutto quella di non facile accesso. Ad esempio mettendo in onda programmi che abbiano, come tema, teatro, narrativa o comunque programmi culturali.

Certo. Io sono per la televisione culturale, lavoro anche per la televisione culturale, sono consulente per una televisione culturale. Naturalmente il problema è complesso. Se lei va ad un chiosco di giornali, trova riviste pornografiche, ma anche riviste di archeologia, riviste di sport o specializzate negli eventi violenti, dei coltelli, ma anche riviste di psicoanalisi. Cioè, in altri termini, la televisione, essendo un vasto sistema di mercato, ha indubbiamente una larga capacità di scelta. Tocca a noi decidere, se compriamo riviste pornografiche o riviste di psicoanalisi. Insisto: il problema della formazione televisiva si pone su un altro livello, che è la questione del linguaggio. È possibile formare usando l’immagine? Questo è il grande problema, perché l’immagine è un tipo di visione simultanea. Mentre la lettura è lineare e occupa tempo, nell’immagine noi leggiamo immediatamente e simultaneamente tutte le informazioni. Ora la domanda è: come conserviamo queste informazioni? Questo sì che è il problema. Cioè il problema non è essere informati. Ne abbiamo anche troppe di informazioni. È stato detto giustamente, nella scheda di presentazione, che siamo in una Babele dell’informazione. Questo rovescia completamente la situazione rispetto a una volta. Una volta chi voleva immagini fino a, non so, trenta, quaranta, cinquant’anni fa, aveva pochissime immagini a disposizione. Oggi ne abbiamo un quantità straripante. Pensate alle carte geografiche, che una volta erano rarissime e oggi vediamo carte geografiche da per tutto. Però il problema è che la gente non se ne ricorda. Quindi il problema non è tanto la quantità di informazione, quanto la selezione, la “pertinentizzazione” e la contestualizzazione delle immagini. Questo la televisione non può farlo da sé. Ha bisogno nella società e nella scuola di un aiuto importante.

STUDENTESSA: Le volevo chiedere, in molte trasmissione, come i talkshow, c’è la partecipazione del pubblico in sala. Le volevo chiedere, in base a quali criteri viene scelto questo pubblico, e soprattutto, secondo Lei, in futuro ci sarà la possibilità anche per il pubblico da casa di partecipare attivamente alle trasmissioni e, se sì, in quale modo?

Questa è proprio una delle evoluzioni dei generi, oggi. Cioè i generi televisivi e la loro forma si è evoluta nella direzione di una crescente presenza di pubblico, che va dal pubblico musicale alla Macao, dove tutti ballano, suonano, battono le mani e basta, ad altri che pongono domande e discutono. In qualche modo la televisione, anziché uscire fuori da sé e andare a parlare del mondo, introduce dei rappresentanti, degli spettatori, che sono lì, nei quali poi voi, in qualche modo, come spettatori fuori dal video, potete identificarvi, avere emozioni, consensi, discussioni delegate. Questa è una delle evoluzioni attuali della televisione. Quindi la televisione sente la necessità di introdurre dei rappresentanti del pubblico all’interno degli spettacoli. Ed è così che crea dei modelli di consenso. Avete visto anche nelle presentazioni l’indicazione di “Applausi”. Cioè le persone, che vengono alla televisione, molto spesso sono invitate a applaudire al momento giusto, cioè a dare un’immagine di consenso. Tant’è vero – non vi sembrerà paradossale – che certe volte quel tipo di pubblico selezionato, applaude prima ancora che gli si dica di che cosa deve applaudire o cosa deve applaudire. Cosa succederà in futuro? Io ho delle idee molto precise sull’argomento. Se questo tipo di televisione evolve tecnologicamente con una maggiore interattività, credo che ci sarà maggiore interattività nel pubblico. Questo naturalmente può avere due effetti. Il primo, devastatore: dipenderemo ancora di più dal pubblico nella definizione dei programmi. Uno, che in qualche modo però è fondamentale, darà al pubblico, anche sui gusti peggiori, il diritto comunque di interrompere una trasmissione che non gli piace. Bisogna saper giocare questi due poteri, ma la democrazia è questa. Nessuno ha l’ultima parola.

STUDENTE: Buongiorno, professore. Sempre più spesso si sente parlare di Auditel, in base al quale ci vengono forniti delle informazioni, dei dati, senza però alcuna specificazione riguardo alla loro composizione. Non ritiene sia più corretto dare al pubblico maggiori informazioni?

Sì. Vede, a questo un buon giornalista le risponderebbe che affluiscono tante di quelle informazioni, dentro una redazione di giornale, che il grande problema non è tanto averne tante, se mai è selezionarle e renderle pertinenti. Questo è il problema. Chiamano generalmente il redattore: gate kipper, cioè quello che tiene la porta, che fa passare o filtrare una cosa. Questo è il ruolo fondamentale. Che dire? Come fare questo? Nei gruppi di composizione dell’Auditel – sapete che è molto curioso questo – generalmente si usano criteri statistici. Ma se voi mettete in un sacco delle palline bianche e nere e poi le estraete a caso, anche a caso, le palline stan sempre lì. Ma le persone che vengono “compulsate”, come si dice, in casa, sono persone che stanno in casa. Quindi molto spesso l’Auditel è formato di una selezione di un pubblico che sta a casa. Chi sta a casa? Più spesso le donne, più spesso le persone di mezza età o di età avanzata, col risultato che molto spesso l’Auditel è composto statisticamente di un pubblico di gente che sta in casa, cioè non di ragazzi, meno di uomini, meno di gente impegnata nel lavoro. Ed ecco perché si dice scherzando che l’Auditel ha, come rappresentante perfetto, la famosa casalinga di Voghera, che è un personaggio mitico, ma che un giorno è stata portata in una trasmissione televisiva.

STUDENTESSA: Non le sembra che le esperienze simulate negli spettacoli televisivi spesso stiano sostituendo un rapporto critico e corretto che lo spettatore dovrebbe avere con la realtà?

Sì, sì, io penso che ci sia questo, evidentemente. È uno degli scopi della televisione, che è anche fatto per autogiustificarsi. Cioè la televisione deve creare uno spettacolo che, nello stesso tempo, giustifichi la sua funzione. E quindi evidentemente mette in scena un certo tipo di pubblico, che aderisce consensualmente – qualche volta in maniera entusiasmante, entusiasmata – allo spettacolo stesso. Sì, questo è vero. Però, per non essere critico, perché temo che le critiche alla televisione siano certe volte critiche veramente stereotipe. E le ascoltiamo molto spesso. Io ho l’impressione che però la televisione ci dà, qualche volta, delle immagini di assoluta drammaticità e di assoluta crudeltà, che vengono usate in maniera più o meno efficace. Questo vi invita, a volte, ad una responsabilità diretta. Cioè in alcuni casi mette in scena se stessa e mette in scena un pubblico già preparato al consenso, ma qualche volta vi dà delle immagini terribili, che vengono utilizzate in maniera più o meno diversa e che pongono delle questioni fondamentali, secondo me. Pongono le questioni di che atteggiamento abbiamo noi tutti davanti al fatto che vi vien data davvero un’informazione e quale posizione critica prendere. Per esempio, l’esempio di: ricordate quella pubblicità di Benetton, nella quale si vede i vestiti di un giovane, non so se croato o serbo-croato, ucciso durante la guerra fratricida, guerra civile, che c’è stata nella ex Iugoslavia. Come reagire ad un’informazione così? È una pura informazione? C’è uno che è morto, il mondo è crudele? Va bene. Oppure: ah, come è ben fotografata, come è carina, com’è efficace, come pubblicità! Vado a comprarmi subito un prodotto indicato da questa pubblicità. Questo è un problema serio. Cioè la televisione, mostrandoci, a volte senza mediazione, degli eventi tragici – la morte della principessa Diana – o degli orripilanti eventi dell’Africa, dove vediamo migliaia di morti, ci pone questa drammatica situazione: c’è una pietà che viene dentro di noi, la pietà. Non si può vivere pietosi, eh? Passa subito purtroppo. Abbiamo due possibilità: o agiamo o non agiamo. Come agire? Ecco io questo vorrei porvelo a tutti come un problema. Cioè, dopo che abbiamo visto gli orrori del mondo, abbiamo visto gli incidenti più brutali – una donna felice morire tragicamente contro un pilone, un giovane africano morire in maniera orribile dentro un fosso, massacrato da qualcuno -, cosa facciamo? Compassione, pietà. Come agiamo? Questo è un problema a cui la televisione a volte ci espone. Cioè i suoi messaggi a volte ci interrogano e ci pongono delle questioni etiche fondamentali.

STUDENTESSA: Lei pensa che sia la televisione a condizionare lo spettatore o viceversa?

Lei sa che quando, negli anni Sessanta-Settanta, Eco, anziché scrivere romanzi, pensava molto alla televisione, aveva detto, davanti alla solita domanda: “Ma la televisione fa male o bene ai bambini?”, lui aveva risposto: “No, sono i bambini che fanno male alla televisione, perché sono un pretesto per i dirigenti televisivi per raccontare delle cose assolutamente insensate, dicendo: “Ma lo facciamo per non fare male ai bambini””. Oggi il problema si pone e drammaticamente. Io ho l’impressione che il gioco sia reciproco. È chiaro che la televisione ha un’influenza sulle nostre vite, la prova che – le faccio un esempio, non dell’Italia – si fa sempre -, di un ‘altro paese -: nel ’94 i Francesi, che son tutti antitelevisivi, vedevano 21 ore di televisione settimanale. E pretendono di essere quelli che le guardano di meno. Quindi figurate se non ha una certa influenza. Dall’altra parte è evidente che, quando ci sono a certe televisioni, a certi orari, delle share, come si dice, delle presenze di milioni e milioni, è evidente che la gente non è così scema da farsi ingannare da uno spettacolo di bassissima qualità. Io ho l’impressione che è nel gioco reciproco di adattamento, nella trasparenza dell’adattamento, che si gioca il futuro di questo mezzo, e dando il massimo potere di scegliere allo spettatore. Oggi la televisione è molto spesso fondata sull’idea dell’esigenza dell’emittente. Credo che bisogna dare al ricevente tutti i suoi poteri. Ma non tutti gli intellettuali sono d’accordo.

STUDENTE: La televisione crea dei modelli di comportamento, ma crea anche talvolta degli stereotipi che danno una cattiva idea di modello, ma diciamo che come giovani, come rappresentazione dei giovani vengono rappresentate solamente due categorie, o quella degli studenti o quella dei fans esagerati. Perché invece non vengono quasi mai rappresentati i ragazzi comuni, quelli con i problemi quotidiani, che però non devono essere comunque portati all’esasperazione?

Dunque, lei ha due volte ragione. Proprio come esperienza personale mi diverte moltissimo vedere che tutte le volte che sui giornali o telegiornali si vedono le stragi del sabato sera, subito dopo vengono mostrate delle immagini di persone che si divertono, giocano dentro dei night club, delle balere eccetera, eccetera, e non sono mai le persone che li usano. Sono quasi sempre le cubiste, sono quasi sempre gli animatori che sono utilizzati da quelli che organizzano la festa, per far ballare gli altri. Quindi ha ragione, non è mai la persona reale, ma generalmente degli stereotipi, qualche volta delle caricature che vengono utilizzati. Ma non dimentichiamoci che uno degli scopi della televisione è il divertimento. Cioè molto spesso noi pensiamo in termini di informazione e di educazione. Una delle grandi funzioni della televisione – come di qualunque altro spettacolo – è di essere uno spettacolo. D’altra parte, anche nello spettacolo, noi non dobbiamo sottovalutare un altro aspetto, che mi sembra fondamentale: che attraverso quelle che sembrano cose spettacolari passano cose importantissime. Pensate alla musica. Io sono convinto, negli ultimi anni, da quando sono diventato adolescente, è arrivato il rock, ’54-’56, Elvis Prisley e così via. Quindi tutta la mia vita ha accompagnato, diciamo, negli ultimi cinquant’anni, ha accompagnato mezzo secolo di evoluzione del rock. C’è della gente che è completamente fuori dal rock. Molto spesso i politici. Non ora, oggi si usa di più. Cos’è successo? Nell’evoluzione della musica contemporanea si è creato, certo dei modelli di comportamento, anche esagerati e sciocchi, ma, per esempio, anche i modelli politici. Avete visto nella scheda il grande concerto di Pink Floyd sul Muro di Berlino, ma avremmo potuto citare gli omaggi a Mandela, avremmo potuto citare i grandi concerti rock per l’AIDS, e così via. Cioè, in altri termini, la musica ha creato dei modelli, diciamo negli anni Settanta, Ottanta per esempio, dei modelli di impegno politico, che non era una politica che veniva proposta dai politici. Ecco perché i politici italiani molto spesso si sono trovati sorpresi dal fatto che i giovani avevano un impegno politico, mentre loro dicevano che non l’avevano, che la politica gli proponeva dei modelli inutili.

STUDENTE: Un’altra domanda, professore, forse più scolastica. Volevo sapere perché l’informazione televisiva non viene utilizzata nelle scuole per far sviluppare negli alunni un senso critico verso le notizie che ricevono dall’esterno?

Io ti dico la verità sono sorpreso perché speravo che la scuola lo facesse – la scuola media superiore e inferiore -, lo facesse moltissimo. Il fatto che non lo faccia non è molto male. Insisto su questo. Non è soltanto l’informazione. La nostra epoca è l’epoca in cui forse abbiamo avuto il più grande numero d’immagine che si possa immaginare. Cioè siamo in un immaginario, nel senso Dizionario dell’immagine. Oggi è cambiata la funzione dell’insegnamento. Chi insegna, una volta dava delle informazioni a chi, non aveva nessuna informazione. Oggi chi insegna deve selezionare, contestualizzare, insieme ai propri studenti, le immagini, la grande quantità di immagini, che sono a nostra disposizione. Io spero che la scuola se ne renda conto, ma questo esige, da parte dei professori, un cambiamento radicale: di mettersi insieme agli studenti in una posizione selettiva e critica. Non vi dimenticate che la parola “intelligenza” viene da “ligere”, non da legare. Cioè intelligente non è quello che collega le cose, è quello che le sceglie. “Eligere”, “eleggere”, elezione. Cioè l’intelligenza è capacità di fare delle elezioni, cioè delle scelte insieme.

STUDENTE: Professore, le volevo fare una domanda. Oggi Internet e le nuove tecnologie si avvalgono di mezzi che una volta erano di solo appannaggio della televisione ed in più hanno nuove potenzialità. Facciamo un esempio. Ad esempio il supporto per i disabili, il giornale radio della RAI in questo momento ha approvato questo progetto e la stesura scritta di giornali radio, in modo che sia accessibile a tutti ed in particolare, anche con particolare riguardo verso i disabili, con delle particolari opzioni per le persone che hanno handicap riguardo alla vista, riguardo all’udito, eccetera, eccetera. Inoltre il vantaggio delle tecnologie come questa è di avere un continuo aggiornamento di tutto ciò che avviene in tempo reale. Ad esempio il fatto, lo sport, le pagine possono essere stese velocissimamente e mandate subito sulla rete. Il fatto dei canali: la libertà di scegliere un canale, oggi, da qualche mese, è una possibilità anche di Internet. E anche la velocità con cui si trasmettono informazioni, I dati Auditel possono essere fatti subito con delle statistiche molto veloci. Quindi la domanda è: sicuramente un giorno Internet e le nuove tecnologie sostituiranno la televisione. Quanto tempo ha di vita la televisione? Quanto vivrà ancora?

FABBRI: Questo è interessante, perché generalmente si pensa a “la televisione”. E questo è in qualche modo l’eredità, diciamo genealogica, storica, della vecchia televisione, dove c’era effettivamente un monopolio di un canale all’inizio, poi di due, poi di tre e poi anche di sei canali, perché é così che è andata in Italia. Ora invece è chiaro che un po’ per la televisione via satellite, che si sta generalizzando, poi il digitale che ovviamente, per la qualità dell’immagine, attirerà in futuro, sicuramente per l’Internet, avremo indubbiamente una moltiplicazione dell’offerta molto grande. Questo pone dei problemi a tutti, ivi compreso, come dicevo, il problema della selezione. Quindi noi siamo in questo momento in quella che Eco chiamava la “neo-televisione”, che non è più quella di una volta, ma non è ancora quella delle nuove tecnologie. Ecco un po’ l’aspetto contraddittorio, per cui certe volte molti giudicano ancora la televisione, che sta già cambiando nella direzione della nuova tecnologia, con i criteri della vecchia televisione. Questo è l’ibrido della situazione attuale. Quanto ci vorrà adesso? Qual’è la risposta giusta? Naturalmente dipende da una parte dallo sviluppo delle nuove tecnologie, che sono relativamente poco prevedibili. Basta pensare al fax, basta pensare alla posta elettronica. Sono cose che evolvono a grandissima rapidità e molto spesso non dipendono da noi, ma da scelte, direi, di globalizzazione economica. Dall’altra parte dipende anche dalle scelte dei governi e anche dalla pressione nostra per averlo. Io direi, in linea di principio, ma non credo che l’accelerazione sia così forte, che nei prossimi dieci anni si può contare su un cambiamento veramente importante nel modo di gestire una televisione più interattiva.

STUDENTE: Per diffondere di più i programmi culturali non sarebbe meglio mandarli in onda nelle ore di maggiore ascolto?

Sì. Naturalmente, se la televisione – ,quella di stato, voglio dire, quella che pretende di essere servizio pubblico – avesse quest’idea, a questo punto sarebbe molto semplice farlo. Ma si oppongono due cose. Primo che la nostra televisione non è una televisione di servizio pubblico. È una televisione imperniata sulla pubblicità. E da questo punto di vista è evidente che meno persone guarderebbero certamente, che so io, un buonissimo programma culturale, ma anche complesso, piuttosto che, per esempio, una partita di calcio che li appassiona di più. Se si parla invece di una televisione di servizio pubblico, ed io credo che sarebbe veramente importante e c’è un inizio, oggi, con le televisioni per via satellite, che hanno però un pubblico limitato, io credo che il problema di una posizione vantaggiosa, oraria, sia, sarebbe utile. Però non nascondiamoci un fatto fondamentale, che non è per il fatto che, se accendiamo la televisione ad una cert’ora, che la gente guarderà la cultura. Noi dobbiamo – e qui la scuola gioca un ruolo fondamentale – sensibilizzare le persone alla cultura. A me capita in certe circostanze di non seguire alcune trasmissioni culturali, che non mi interessano perché ho la passione per il calcio, e guardo il calcio, se c’è dall’altra parte. Questo non fa sì che io non sia un intellettuale e sia interessato comunque alla cultura. No, io ho l’impressione che data la potenza del famoso telecomando, oggi mettere anche in primissima serata una trasmissione di grande cultura non è l’automatica garanzia che la gente lo guarderà. Quindi il problema se mai è di creare col tempo una sensibilità di problemi culturali, di cui voi siete i primi, in qualche modo, portatori futuri. Cioè l’idea è: la cultura riguarda la nostra vita? Cioè ha a che fare con il nostro modo di vivere, con il piacere con il gusto, con la capacità di campare insieme? Cioè la qualità della vita è o no fondamentale per la cultura. Se la cultura non è adeguata alla qualità della vita, la gente non la guarderà. Se la cultura è pensata in maniera ascetica, come molto spesso è, per esempio il disgusto della maggior parte degli intellettuali per il rock – io non mi sarò mai arrabbiato abbastanza su questo -, disgusto per la musica di maggior parte degli intellettuali, i quali non distinguono – come dicevo scherzando prima -, non so, per esempio, i Pink Floyd dai New Trolls – e sto parlando di grossa roba, non parlavo di cose più sottili -, ebbene il disgusto generale per questo tipo di problemi, fa sì che ci sia una specie di ascesi, che non permetterà mai alla cultura popolare l’accesso in qualche modo alla qualità della vita che essa può produrre. Concludo. Se la cultura non è capace a rispondere alla qualità della vita, le assicuro che metterla in prima serata non servirà.

STUDENTESSA: Senta, focalizzando su un genere particolare televisivo, come la pubblicità, secondo Lei, la pubblicità da mezzo di sopravvivenza economica dell’ente televisivo sta cercando di proporre immagini, modelli, ma anche linguaggi, che vadano oltre di quello che è il banale processo di persuasione occulta? E, inoltre, sta cercando di divenire autonoma, superando quella che è la semplice finalità all’acquisto?

Dunque questo della pubblicità è un grossissimo problema, forse è una delle cose più complicate da discutere, perché effettivamente se la pubblicità avesse potere di convincimento automatico, in questo momento noi compreremmo esattamente tutto quello che ci viene proposto, cosa che non è vera. Dall’altra parte è vero che si è creato uno scambio di linguaggi, cioè dei momenti in cui, quando aprite la televisione, se non è ancora arrivato il logo pubblicitario non riuscite a distinguere se è un film o un pezzo di pubblicità. Ma questo è perché c’è una mimesi reciproca. Il linguaggio pubblicitario è molto efficace, il cinema spesso lo copia, il linguaggio pubblicitario copia spesso il cinema, perché il cinema è interessante. Quindi, effettivamente c’è uno scambio. Non sono però persuaso di questo potere straripante del discorso pubblicitario. Se vi mettete dal punto di vista dei pubblicitari, sapete che i pubblicitari fanno quello che si chiama la premeditazione dello sconosciuto, cioè devono premeditare qualcosa di cui sanno che, molto spesso, non sanno li esiti. È che noi guardiamo sempre le pubblicità che funzionano, ma se guardassimo la quantità di campagne pubblicitarie, con spese miliardarie, che non hanno mai funzionato, ci accorgeremo che la pubblicità è meno forte di quanto noi ci immaginiamo. Detto questo la pubblicità funziona. Forse il pensiero di una televisione prevalentemente pubblicitaria è quello che condiziona molti giudizi intellettuali, che provengono da persone nobilissime, come per esempio Bobbio, o, di recente, da Giovanni Sartori. Ma per questo sarebbe bene che voi ascoltaste l’intervento di un filosofo, che si chiama Starobinski, e che ha della televisione una opinione nettamente apocalittica.

– Si visiona una seconda scheda.

INTERVISTATORE: Il filosofo Karl Popper, campione del liberalismo occidentale, e Alekander Solzenicyn, rappresentante del tradizionalismo orientale, usano quasi le stesse parole per condannare la televisione. Parlano di veleno, di uno strumento che distrugge la civiltà. Come giudica professor Starobinski questa valutazione?

STAROBINSKI: È molto interessante che queste critiche provengano da due punti i vista così differenti. Quanto a me la mia prima impressione è che la televisione sia un mezzo, si può dire medium o media, straordinario, capace di fare da tramite con la realtà. Ma questo mezzo è di una tale efficacia nelle mani di chi lo utilizza, che può anche diventare un diaframma tra lo spettatore e la realtà. È uno strumento in cui la falsificazione, le deformazioni o le accelerazioni del ritmo possono interferire a tal punto da offuscare la realtà, fino a proporre all’utente una realtà sostitutiva. Per esempio, quando si tratta di giovani spettatori, che non hanno ancora una sufficiente esperienza del mondo, si può accusare la televisione di presentare un universo fantasmagorico e irreale. La televisione invece di educare la mente ad affrontare la realtà, spesso propone un’altra realtà. In tal modo l’impatto con le circostanze della vita si rivelerà deludente e persino traumatico. D’altra parte non vorrei accusare la televisione, più di altri media o più di altri veicoli di suggestione del mondo contemporaneo. Però ho l’impressione che con la massa di informazioni contraddittorie che circolano incessantemente, con gli stimoli che investono il singolo individuo e che raggiungono la mente attraverso lo sguardo, in modo caotico, sovrapponendosi gli uni agli altri, e subendo una contraffazione, alla fine il brusio, il rumore, diventi assordante, cessa di essere un messaggio comprensibile e diventa qualcosa di frastornante, come una randellata.

– Fine della scheda, riprende la discussione.

Fabbri: Beh, è una randellata. Ecco questa è l’idea che si fa un filosofo – che evidentemente è legato all’immagine pittorica, al libro – della televisione. Vi sottolineo che Eco, negli anni Sessanta, aveva lanciato uno slogan famoso. Diceva che gli intellettuali rispetto alla televisione si dividono in due gruppi: gli apocalittici – la randellata – e gli integrati, quelli che l’accettano come tale. Credo che ci siano delle posizioni più complesse. Resta vero che l’atteggiamento rispetto ai mass media, alla televisione non evolve. Nonostante i dibattiti, le discussioni, la gente ripete esattamente lo stesso tipo di analisi, che erano le stesse che si usavano nell’Ottocento quando si diceva: ora ci sono i libri popolari, rovineranno sicuramente i giovani che li guarderanno. Quando è nata la fotografia, quando è venuto il fumetto: “Oddio rovineranno sicuramente i giovani, creando una realtà fittizia”, eccetera, eccetera. Poi è arrivato il cinema: lo stesso tipo di osservazione, nuovo media, e così via. Succede cioè che i vecchia media diventano legittimati. Il cinema oggi nessuno dice che ruba o modifica, che è una randellata sulla testa dei giovani, e i nuovi media, come la televisione, sono colpevolizzati.

STUDENTE: Le tematiche proposte negli spot televisivi e nelle trasmissioni culturali sono proporzionate, diciamo, al benessere economico e alla condizione sociale del paese in cui questi stessi spot o queste trasmissioni vengono trasmesse. Quali potrebbero essere le eventuali differenze tra le trasmissioni, che vediamo in Italia, cioè la televisione che vediamo noi, e quella che si vede in un altro paese?

Beh, questo è interessante, perché è vero che la televisione crea una zona di pertinenza, per cui tutti giudicano la televisione del proprio paese e la ritengono cattiva quando pensano alla propria, e molto spesso buona quando la confrontano con quella altrui. È difficile da giudicare. Certo, la televisione, i messaggi di quel genere hanno due scopi: uno è proiettivo, cioè voi dovete proiettarvi in un mondo più ricco e più bello per volervi accedere, e l’altro identificativo, cioè voi volete una cosa perché ce l’ha una persona che è come voi. Quindi la pubblicità usa due strategie: quella di darvi oggetti proiettivi, che voi dobbiate sognare, e oggetti identificativi, a cui vi riferite. Quindi le strategie sono doppie: mostrare un mondo più ricco e mostrare un mondo uguale al vostro.

STUDENTESSA: Volevo chiederLe se per Lei l’immagine proposta dai video-clip che, diciamo, si impongono nella mente del pubblico riescono sempre ad essere mediati dai valori razionali dello spettatore stesso.

No, le dico la verità. Però, forse, non è del tutto indispensabile. Io mi ricordo di un video-clip di Michael Jackson, Bad – forse ve lo ricordate -, che mi sembra, mi è sempre sembrato strepitoso. Ora evidentemente siccome intenzionalmente fittizio, non credo che si debba darne un giudizio razionale. Noi dimentichiamo molto spesso che la televisione è, come la musica d’altra parte, è molto potente, perché dà un uso sollecito, un uso regolato delle nostre emozioni. Non voglio porre ragione-emozione, perché l’emozione è un modo regolato di qualificare i nostri sentimenti. La pietà, la compassione, l’indignazione, la rabbia morale, eccetera, sono delle cose che vengono suscitate dalla televisione. Personalmente i video-clip mi sembrano, dato che è un mondo intenzionalmente fittizio, uno dei modi più originali e singolari di utilizzare il mezzo dell’immagine, oggi. E so che molti registi importanti li fanno e che molti registi ci si ispirano.

STUDENTE: Allora brevemente vorrei farLe due domande. Innanzi tutto qual’è la libertà di uno spettatore televisivo, in quanto la televisione non è un mezzo con cui si possa interagire. Magari il telecomando è l’unica possibilità che si ha. Però insomma offrendo a tutte quante le reti bene o male lo stesso palinsesto la libertà è molto relativa.
E in secondo luogo: qual’è la funzione della pubblicità. Io leggevo, l’altra volta, in uno dei vari trattati di Majakovskij , che lui si meravigliava in quanto la pubblicità fosse un mezzo efficace e soprattutto abbastanza diretto. Adesso invece mi sembra che le cose siano un pochino stravolte, anche per l’evoluzione notevolissima nel mezzo. Io dico una sola cosa: i pubblicitari hanno questa drammatica posizione: se fanno pubblicità, non è detto che il loro prodotto cresca, ma, se non la fanno, è sicuro che diminuisce. Quindi sono tenuti evidentemente a farlo, ma, come dicevo prima, premeditando lo sconosciuto. Non sanno effettivamente cosa succede.

Il problema della scarsa omogeneità del programma. È vero, se ci sono mille programmi – perché son tutti uguali -, la libertà di scegliere sparisce. Cos’è la libertà di scelta? Io sono molto interessato a questa questione. Io credo che la libertà sia che nessuno deve avere l’ultima parola, il peggiore del mezzo è quello a cui non si può replicare. Quindi l’apertura di tutte le possibilità di replica, oggi, mi sembra essenziale. Quindi tutti i programmi televisivi, tutti i media che facilitano un’interazione sono potenzialmente buoni, soprattutto quando, nel caso attuale, i media propongono non tanto dell’informazione, ma delle procedure interpretative. Vi dò un esempio banalissimo. Durante i talkshow noi non è che ascoltiamo soltanto come la gente è, come pensa, cioè non li guardiamo soltanto. Ci interessiamo a delle situazioni particolari nelle quali noi diciamo: è in questa situazione qui, con un figlio che fa queste cose, con la sorella che fa queste altre, con la madre che si comporta così, come ci comporteremmo? Questa è la forza della televisione attuale: di proporre delle situazioni in cui noi siamo attivi nelle procedure interpretative. Credo che questa sia una delle modalità importanti: lasciandole aperte.

STUDENTE: Buongiorno, professore. Le volevo fare un’ultima domanda. La violenza, esternata dalla televisione, viene sempre di più a coincidere con la realtà di tutti i giorni. Lei non pensa che proprio la televisione dovrebbe modificare film o trasmissioni che inviano messaggi di violenza e soprattutto chiedersi perché sono proprio questi programmi ad ottenere un audience molto alto?

Dunque, senta, questo è un problema drammatico. Oggi uno come Popper dice: “Attenzione, non fate cose di violenza soprattutto perché se c’è un adulto che le guarda, un po’ di giudizio ce l’avrà, ma se è un bambino o un ragazzetto il problema diventa veramente grave”. Lasciatemi fare un differenza, che è questa: una cosa è vedere una scena violentissima in un film, dove la scena violenta si fa alla fine e poi il film finisce con la punizione del colpevole – e allora effettivamente le questioni cambiano completamente -, e una cosa è vedere un’immagine di grande violenza senza nessuna interpretazione, senza nessun filtro. Questo, secondo me, è una differenza enorme. Un giorno alla televisione, in uno studio sulla televisione, si era calcolato che c’erano non so quanti omicidi all’ora, ma alcuni omicidi erano Willy il coyote che veniva schiacciato nella lotta con bi-bip, e in altri casi erano veri e propri omicidi. Quindi bisogna distinguere tra omicidi reali, rappresentati come reali, e gli omicidi fittizi, rappresentati come fittizi. Quindi c’è un tipo di violenza che è, come posso dire, contestualizzata e che può essere persino molto importante da rappresentare. C’è un tipo di violenza invece, che è spettacolarizzazione della violenza, che ci mette in condizione di guardarla in maniera estetizzata. Allora la mia risposta e anche il mio consiglio è che, se guardate violenza, la sola cosa che dovete fare è parlarne, almeno parlarne.

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