Natura, naturalismo, ontologia: in che senso? Conversazione con Gianfranco Marrone


Da: Gianfranco Marrone (a cura di), Semiotica della natura. Internaturalità e significazione, Mimesis Edizioni, Milano, 2012 (in corso di pubblicazione), pp. 25-40.


Paolo, la questione della natura come effetto di senso discorsivo e culturale, per la semiotica, sembra per certi versi scontata e per altri ancora da affrontare. Da una parte infatti ‘natura’ è termine di una categoria semantica, e come tale ridefinito volta per volta dalle relazioni che contrae con gli altri termini della categoria. Dall’altra però i semiologi non sembra abbiano tratto le dovute conseguenze teoriche e pratiche da questa idea, provando a parlarne per esempio, come fanno studiosi come Latour e Descola, di ‘nature’ al plurale. Eppure, nel celebre saggio sul mondo naturale Greimas1 era stato molto chiaro: il mondo naturale è il mondo del senso comune, ossia della significazione, quello per cui si può far semiotica al di là della linguistica (non a caso si trattava di un saggio sulla gestualità, programma mai più ripreso dalle ricerche successive). Come possiamo riarticolare la questione?

Credo che sia il caso di riaffrontare semioticamente la questione della natura nei termini tradizionali che Algirdas Greimas aveva posto. Secondo Greimas da una parte c’è il mondo naturale, che è una serie di linguaggi diversi intrecciati fra di loro, e dall’altro c’è la lingua naturale, con i suoi compiti specifici. Essendo entrambi macrosemiotiche, fra di essi non c’è una relazione rappresentativa, cioè referenziale, ma traduttiva, una continua connessione intersemiotica. Detto ciò, per definire meglio i termini del fenomeno, credo occorra evitare alcuni equivoci differenziando, come faceva sempre il primo Greimas, quello della Semantica strutturale2, fra semiotica e semiologica. ‘Semiotica’, oltre a essere il termine generale che indica la disciplina, designa un qualsiasi linguaggio, verbale e non. Col termine ‘semiologia’ si intende invece tutta la dimensione che ha a che fare con la relazione di tipo fenomenologico al mondo naturale. Si tratta così, rispetto al problema della natura, di tornare alle origini della riflessione sulla significazione, che sono appunto fenomenologiche, evitando al tempo stesso le derive cognitiviste di certa semiotica attuale, la quale finisce per confondersi con la filosofia del linguaggio. La natura, per la semiotica, è sempre mediata dall’esperienza fenomenologica.

È la physis di Coquet…

Appunto. Questo lavoro di cui dicevo è stato fatto in grossa parte da Jean-Claude Coquet3, il quale addirittura parla di ‘predicati di realtà’. Coquet ha insistito sul fatto che, oltre al problema della soggettività come istanza enunciante, c’è quello della relazione col mondo naturale: una relazione che è mediata dalla percezione, intesa non al modo cognitivista ma al modo, appunto, fenomenologico, permettendo altresì il sorgere della significazione. Credo si tratti di un punto importante. Il problema, secondo me, non è tanto oggi quello di discutere, come si fa spesso, sulla dialettica soggettale/oggettale, e sul fatto che Greimas avrebbe lavorato più che altro su un’oggettivazione del senso, salvo reintrodurre in un secondo tempo la problematica della soggettività, ma soltanto sotto forma di enunciazione enunciata, testualizzata. Su questo credo d’aver regolato i conti nelle mie introduzioni ai libri di Benveniste4 e dello stesso Coquet5. Più importante semmai approfondire la relazione fenomenologica col mondo naturale, la quale pone un problema molto delicato che a Coquet sfugge: il problema della traducibilità. Coquet dice: da un lato c’è il mondo sensibile (tragicamente individuale, personale, dove manca tutta la dimensione della intrapatia…) e dall’altro quello delle istanze enuncianti. Ma come si passa dall’uno altro? È la stessa domanda che si poneva, in un contesto di tipo visivo, un filosofo come Michel Foucault, quando sosteneva che la fenomenologia ha insegnato a vedere ma non si è mai posta il problema del che cosa vede chi sta lì a vedere6. Si tratta insomma di chiarire come avviene il passaggio dalla fenomenologia alla semiotica, dal mondo del sensibile a quello della significazione, da quelli che Coquet chiama i predicati di realtà (dati nell’esperienza percettiva) ai predicati di soggettività (dati entro un dominio già semiotico). Coquet, che pure ricostruisce molto bene la derivazione fenomenologica della semiotica, e il ruolo decisivo di Benveniste in questo snodo, non affronta questo punto. Riconosce all’ultimo Greimas, quello dell’Imperfezione7, di aver superato il dominio dell’immanenza per lavorare sulla dimensione della sensibilità. Ma poi non discute il nesso fra sensi e senso, fra percezione e significazione. Nesso che secondo me è di tipo traduttivo: cosa che apre un problema, molto delicato, su cui c’è ancora da lavorare.
Faccio un esempio, preso da quella notevole filosofa delle scienze che è Isabelle Stengers, la quale sostiene che il modello dello scienziato è il diplomatico. Il diplomatico è uno che è costretto a trattare fra due mondi, da un lato il mondo della scoperta scientifica e dall’altro quello del mondo naturale, ossia, per essere chiari, da un lato nuove ipotesi, tutte da discutere ed eventualmente da stabilizzare, circa il mondo e dall’altro vecchie ipotesi già attestate. Questa relazione non è rappresentativa, non è l’incontro tradizionale tra un soggetto e un oggetto, ma appunto fra due mondi, o se si vuole fra due visioni del mondo, che il diplomatico, con le proprie strategie, deve saper e poter mettere a confronto, in modo da lasciar emergere, nel passaggio traduttivo, nuove sostanze e nuove qualità delle cose. Lo scienziato, come il diplomatico, non fa emergere ciò che è nascosto nella realtà ma traduce fra forme di discorso, ipotizzando nuove forme di funzionamento del mondo che sta costruendo in opposizione a un mondo già dato. Ecco, la relazione al mondo non è altro che traduzione fra sistemi semiotici, esattamente come la relazione fra lingua naturale e mondo naturale. In questo la semiotica può dare un apporto importante, perché sa come trattare i fenomeni di traduzione, sa offrire al diplomatico strategie preziose, sa offrire alle procedure di indagine e di scoperta modelli formali di avanzamento.

Probabilmente, il tema di fondo per discutere la questione della natura e della naturalità, a partire da cui spesso si dividono le posizioni, è appunto quello della materia in Hjelmslev8. Grosso modo, c’è chi la intende come qualcosa di pre-semiotico, che sta prima rispetto alle formazioni linguistiche e culturali (sorta di base biologica o fisica comune alla diversità delle lingue e delle culture). E chi invece la pensa, alla maniera kantiana, come una specie di noumeno: qualcosa che, se sta prima, è solo perché puramente pensabile, ma che soltanto dopo le varie formazioni linguistiche e culturali può effettivamente darsi come condizione di possibilità delle traduzioni (cfr. il celebre esperimento delle diverse frasi per dire ‘non so’). Per questa seconda posizione la natura è una specie di presupposto, supposto essere prima ma poi prodotto dal discorso…

Sì, il passaggio dal percettivo al linguistico è in realtà un passaggio da un linguistico a un altro linguistico, o meglio da una semiotica a un’altra. Da cui appunto la traduzione. Non ci sarebbe allora un pre-semiotico dal quale emerge il semiotico, una materia da cui a un certo punto si genera la significazione, ma il senso c’è già, e si tratta solo di metterlo in condizioni di significare. La interpretazione del celebre purport hjelmsleviano – tradotto col termine ‘materia’, non a caso – è allora essenziale. Per Hjelmslev la materia non è il pre-linguistico (o pre-semiotico) che va formato ma la condizione di possibilità della traduzione fra lingue; sta dunque, per così dire, dopo le lingue stesse, dopo che esse si son formate, come loro premessa astratta.
Cosa che si coglie meglio ripensandola nei termini dell’ipotesi fenomenologica classica: la materia non esiste senza un soggetto che la percepisce, ma tale soggetto è a sua volta materia, fa parte del mondo che percepisce, non si trova in una condizione di esteriorità rispetto al mondo ma ne è inerente. Il mondo non è “là-fuori”, alla maniera cartesiana, di modo che il soggetto, se ce la fa, compie delle operazioni di intelligibilità verso di esso. Il soggetto è nel mondo già da subito, la lingua esce dal nostro corpo, ma il corpo fa parte del mondo, e contribuisce a produrne la carne mentre lo percepisce con strategie proprie. La percezione è orientata, situata, strategicamente costituita, esattamente come la traduzione, che si compie sempre per qualche ragione, con qualche scopo, secondo certe pertinenze piuttosto che altre. Da qui la differenza con i cognitivismi oggi imperanti, che pensano la percezione come fenomeno ‘puro’, non situato. E da qui l’interesse del recupero della nozione di ‘semiologico’ prevista da Greimas a proposito della percezione sensibile del mondo naturale.

Proviamo a dare un esempio dal mondo del discorso culinario…

Una cosa è trattare il cibo come un insieme di calorie che esisterebbero in modo obiettivo, per così dire in natura. Un altro è considerarlo come una serie di qualità sensibili per un soggetto situato strategicamente che lo sta mangiando, lo ha mangiato, lo mangerà secondo propri valori culturali preesistenti all’atto percettivo dell’ingestione. Le calorie, non a caso, sono state inventate a un certo punto, entro una precisa concezione epistemologica che è quella ancor oggi imperante, ma nulla toglie la possibilità di reintrodurre invece, per pensare il cibo, tutta la dimensione delle qualità sensibili, e dunque della soggettività – che è inevitabilmente culturale. Il cibo è un ottimo esempio per trattare la questione della nostra relazione fenomenologica al mondo, non foss’altro perché lo inghiottiamo, diventiamo cioè tutt’uno con esso, interagendo con un fenomeno parallelo come quello della cucina, che è questione di trasformazione delle materie del mondo in funzione della loro ulteriore trasformazione entro il nostro corpo. Non a caso Greimas9 consigliava di ripensare il cibo e la cucina in relazione con l’antica alchimia, indicazione utilissima perché mostra, per esempio, come la cucina attuale non è pensabile esclusivamente secondo la dimensione della chimica dei suoi componenti ma, semmai, dell’alchimia delle sue operazioni di trasformazione delle sostanze del mondo, della traduzione fra sistemi semiotici. La trasformazione culinaria delle materie, come aveva indicato Françoise Bastide10, è formazione e deformazione al tempo stesso, ossia passaggio da una sostanza formata in un certo modo (poniamo strutturata) a un’altra sostanza formata in un altro (destrutturata). La natura, per così dire, è la prima sostanza che viene modificata in funzione di una valorizzazione, della costruzione cioè concomitante di un oggetto di valore e di un soggetto che mira a congiungersene. Quando si fa una zuppa si passa da tanti componenti ciascuno con la sua strutturazione interna a una nuova sostanza che, destrutturandoli tutti, viene valorizzata come gustosa. Quei componenti sono natura e la zuppa cultura. Ma potrebbe essere anche il contrario, se l’operazione culinaria prevedesse (come per esempio nel caso di certa pasticceria) un passaggio dal destrutturato (zucchero, farina, latte) allo strutturato (crema). Zucchero e farina sono natura e la crema cultura. Lévi-Strauss, col suo celebre triangolo culinario, l’aveva colto perfettamente. La cucina sta la dimensione semiologica di cui parlava la Semantica strutturale.

A partire dalla dimensione semiologica della Semantica strutturale, però, le strade si sono divise, e lo stesso Greimas ha provveduto a distinguere diverse direzioni di ricerca. Da una parte ha parlato, come abbiamo detto, di un mondo naturale come macrosemiotica che entra in relazione traduttiva con la lingua naturale; dall’altro ha ridefinito il semiologico con la nozione di figuratività (articolando sostanze del mondo come aria, acqua, terra e fuoco e ripensando tali articolazioni come altrettante assiologie o sistemi di valori); da un altro lato ancora ha detto che il mondo naturale è il mondo del senso comune di cui occorre fare una sociologia, ossia una sociosemiotica. Cosa che ha fatto sì che, quando i semiologi parlano di /natura/ opposta alla /cultura/, la pensano sempre entro la dimensione figurativa più banale (laghi, fiumi, foreste…) e non entro quella sociale e sociosemiotica. Se ho capito bene, la tua proposta è perciò quella di tornare indietro per ripensare insieme, riarticolandole, queste tre cose, intrecciando il sociale con il naturale, il semiotico e la percezione… Non c’è da un lato la sociosemiotica e dall’altro la teoria della percezione, ma una sola problematica.

È esattamente questo il problema. Motivo per cui andrei ancora più a fondo, per esempio, con il trattamento sociale e culturale della figuratività, mostrando come fa per esempio Michel Serres, che possiamo opporre i solidi ai liquidi. I liquidi hanno certe capacità mitiche di essere apprezzati, i solidi altre. Ma senza questo apprezzamento, senza questa valorizzazione sociale pregressa non ci sarebbero da una parte i solidi e dall’altra liquidi. Percepiamo solidi e liquidi come sostanze diverse perché li valorizziamo diversamente. Così, quando in cucina compiamo operazioni di trasformazioni di sostanze come sminuzzare, spezzettare, polverizzare, montare, tagliare a rondelle etc., stiamo lavorando su sostanze già valorizzate, ossia su prodotti mitici, mica naturali, o per meglio dire naturali perché miticamente pensati come tali. È la frase famosa che chiude le Mitologiche di Lévi-Strauss: accendere un fiammifero è mediare fra la terra e il cielo. Se possiamo pensare agli elementi della natura come entità oggettive, è perché prima le abbiamo demitologizzate, oggettivate. Non ci sono prima le cose del mondo e poi la loro mitologizzazione, ma il contrario: prima viene il mito, poi la demitologizzazione, di modo che le cose del mondo iniziano ad apparire come oggettive, naturali nel senso banale del termine.

È la negazione di ogni opposizione fra fatti e valori…

Le strategie di oggettivazione sono molto diverse da quelle differenziali. L’oggettività non è il realismo. L’oggettività è quella serie di convenzioni discorsive che vengono usate sia nelle scienze dell’uomo sia in quelle delle natura in vista della comunicabilità dei loro risultati. Per poter mettere in comunicazione le ricerche degli scienziati delle varie parti del mondo, ci deve essere una base condivisa, un terreno sul quale poterle mettere in comune un minimo discorsivo: che è ciò che chiamiamo oggettività. Dunque un prodotto ad hoc, per specifiche esigenze pratiche. Così, per esempio si sono fatti moltissimi esperimenti per studiare il fenomeno dell’ingestione, diciamo così, cannibalesca: ci si chiede per esempio se i vermi che mangiano carne di verme la tengano in qualche modo in memoria. Il problema era quello di comunicare questi vari esperimenti, mettendo in relazione laboratori anche molto lontani. Per questo si è creata l’oggettività, si è cioè assunta l’ipotesi della memoria cannibalesca come dato oggettivo – salvo poi ammettere che non era dimostrabile, e modificare così l’oggettività stessa del reale. L’oggettività è funzione di una strategia di comunicazione.
Il problema allora diventa: perché postulare una referenzialità precedente al senso, a partire dalla quale – non si sa come – il senso stesso a un certo misterioso punto viene generato? Dal nostro punto di vista le cose stanno alla rovescia: la referenza è un effetto di discorso, un effetto di senso che ha ricadute pratiche talvolta molto pesanti.
Faccio due esempi. Il primo è quello, abbastanza celebre, che dà Ulrick Beck. C’è una zona del mondo molto particolare, mi pare intorno alla Indonesia, in cui c’è una nebbia fittissima dovuta a fenomeni atmosferici curiosi, incendi di foreste e variazioni climatiche complesse. Si tratta di nominarla. Se la si chiama fog, si tratta di un problema ecologico, e bisogna spendere un mucchio di soldi per cercare di eliminarla. Se invece la si chiama haze, cioè nebbiolina, allora le cose possono restare come sono, nessun problema, la gente sopravvivrà lo stesso. La definizione, il nome che si sceglie per definire il medesimo fenomeno, provoca delle conseguenze fortissime, di modo che, a ben vedere, la realtà che il linguaggio costruisce non è più la stessa. Il secondo esempio è quello della scomparsa di Plutone, che da un po’ di tempo in qua non è più considerato come un pianeta. Dato che non è visibile, se ne era ricostruita l’esistenza attraverso calcoli molto complessi. Dato che c’erano delle perturbazioni dalle parti del pianeta vicino, mi pare sia Nettuno, s’è pensato che da quelle parti dovesse esserci un pianeta, Plutone appunto, e ne hanno postulato l’esistenza. Attualmente però hanno ridefinito i criteri con i quali si decide che cos’è un pianeta, e hanno visto che Plutone non li rispetta, così lo hanno declassato a uno di quei milioni di semplici roccioni che si aggirano nell’universo e che chiamano ‘pianeti nani’.

Comincio a sentire i sedicenti nuovi realisti che s’infuriano…

Sì, ci avviciniamo per questa via alla polemica lanciata da Maurizio Ferraris contro Bruno Latour a proposito della tubercolosi di Ramsete III. Latour sarebbe colpevole di aver detto che il faraone egizio non è morto di tubercolosi perché a quell’epoca non se ne conosceva l’esistenza, confondendo così epistemologia e ontologia, interpretazioni e fatti. Ma Latour non aveva parlato delle cause specifiche della morte del faraone, bensì del senso della morte presso gli Egizi. Ramsete, per Latour, non è morto di tubercolosi nel senso che la sua morte è stata allora vissuta, pensata, valorizzata non come morte per malattia ma come evento religioso, magico. Del resto, un antropologo come Evans-Pritchard ha da tempo di mostrato come presso gli Azande nessuno moriva di morte naturale ma ogni persona veniva uccisa, moriva cioè per cause accidentali legate all’universo di senso di quella popolazione. Anche se un azande cascava da un albergo, era perché qualcuno gli aveva lanciato una maledizione facendolo di fatto cascare. Ragionamento imbattibile. A meno che non cambi la credenza e la gente non inizi a pensare l’idea di morte naturale entro un universo di senso d’altro genere.

I cosiddetti realisti risponderebbero che la tua idea delle strategie di nominazione, in fondo, è semplice nominalismo, oltre il quale la realtà continua a restare così com’è. La realtà è sempre là in agguato, con tutte le sue inenarrabili sfighe (il vaso che cade sulla testa, il terremoto inaspettato, lo scoglio che fa affondare la nave…), a prescindere dai nomi e dalle interpretazioni che le diamo. Cosa rispondere a questa logica dello sfigato che è l’atteggiamento realista?

È chiaro che noi possiamo e dobbiamo rispondere all’interno del nostro paradigma, che è quello della scienza della significazione, e non di una filosofia del linguaggio o di una filosofia tout court. Direi che vanno presi in considerazione due punti. Il primo è quello della relazione fra mondo reale e mondi possibili. Per me, riprendendo Nelson Goodman, è chiaro noi viviamo non in un mondo reale ma fra tanti mondi possibili, che non solo sono possibili ma sono tanti, plurali, costruiti perciò da discorsi, e da discorsi di discorsi. Senza alcuna eventuale riduzione a un solo mondo presunto reale, più reale degli altri. All’inizio anche la semiotica aveva provato a ragionare in termini riduzionisti, di modo che, per esempio, Louis Hjelmslev aveva provato a ricostruire dei radicali semantici di numero limitato e validi per ogni lingua, e dunque una sorta di semantica universale che stesse alla base di tutte le parlate del mondo. Ma non c’è riuscito. Certa sociolinguistica, addirittura, ha provato a vedere se le semplificazioni delle cosiddette lingue pidgin sparse per il mondo (quelle che si parlano fra persone che non si capiscono, giusto per intendersi un minimo) vadano sempre nella medesima direzione, verso cioè gli stessi significati per ogni dove. Come se i parlanti pidgin fossero, è il caso di dirlo, degli sfigati che possono dire al massimo sempre le stesse povere cose. Ma è stato dimostrato che non è così. Di conseguenza, come fa appunto Goodman, sarebbe forse il caso di dire, un po’ meglio, che non ci sono tanti mondi possibili ma, più semplicemente, tanti mondi, e tutti reali, o quanto meno attuali. Il fatto stesso di immaginare un mondo – come fa la scienza che ipotizza mondi possibili sui quali poter sperimentare – significa attualizzarlo, di modo che ci sarà anche un mondo dove i vasi cadono all’ingiù per finire sulla testa degli sfigati che passano di là giusto in quel momento.

Potremmo dire allora che il reale, per gli iettatori realisti, è il possibile imprevedibile, qualcosa che accade nonostante non ci aspettassimo che potesse accadere, dunque è sempre un mondo possibile che malauguratamente si è realizzato.

Certo. È la ragione per la quale uno come Goodman sostiene che non esistono immagini mentali ma sempre e soltanto segni. Se io dico che ho l’immagine mentale, poniamo, di un cubo che gira, il cubo c’è per il fatto che io l’ho manifestato nelle mie parole. Ho applicato un significante a un significato e ho ottenuto un segno, non un’immagine mentale – cosa che Ferdinand de Saussure aveva chiarito benissimo. Dunque esistono tanti mondi, e tutti reali, ma, forse potremo aggiungere, non tutti con lo stesso grado di realtà.
E qui la semiotica aiuta parecchio. In semiotica abbiamo infatti la teoria delle modalità, grazie alla quale distinguiamo il virtuale dall’attuale e dal realizzato. Ci sono cose nel mondo che non sono virtuali né realizzate e che restano allo stadio della attualizzazione. Così forse andrebbero un po’ meglio intese proprio le immagini mentali di cui parla Goodman, entità attuali senza essere ancora realizzate, manifestate con una precisa sostanza dell’espressione, poniamo, visiva oppure verbale. Per tornare un attimo alla cucina, sappiamo che spesso vengono portate a tavola pietanze che nessuno mangia, preparate per esser mangiate ma poi riportate via senza che nessuno le abbia toccate. Sono cibi attuali, non virtuali, perché qualcuno li ha preparati, ma nemmeno realizzati, perché nessuno li ha mangiati. Così, questa tripartizione proposta dalla semiotica permette di aggirare ancora di più la dialettica fra possibile e reale, mondo reale e mondi possibili, che è una delle basi teoriche più forti del realismo. Dal nostro punto di vista, nel mondo reale c’è una gran quantità di mondi differentemente modalizzati: mondi virtuali, altri attuali, altri infine realizzati, altri ancora che tornano nello stadio della virtualità, e così via incessantemente.

Parlavi di un secondo argomento da opporre ai realisti.

Sì, se il primo tema è appunto questo, direi paradigmatico, della pluralità dei mondi con diverso grado di realtà, l’altro, di carattere sintagmatico, è quello di cui parla Umberto Eco. Eco dice, citando Peirce: noi andiamo avanti nei nostri tentativi di spiegazione del mondo o di comprensione di noi stessi, ma sempre in una maniera asintotica: non ci arriveremo mai del tutto tuttavia possiamo avvicinarci a poco a poco a qualcosa che è dell’ordine della verità. In questo quadro, in che cosa consisterebbe il reale: sarebbe ciò che appare ogni tanto e che ci dice di no, che certe tesi sedicenti esplicative del mondo non si possono proprio sostenere, che certe cose non si possono dire. Il reale, per Eco, è l’impossibile. È ciò che dice di no, punto e basta. Se però introduciamo anche qui la batteria delle modalità, ci accorgiamo immediatamente che il reale è ciò che dice di no, ma all’interno di una precisa strategia, o forse, meglio, di una controstrategia. Da una parte ci sarebbe la strategia dello scienziato, quella di tentare tutti i trucchi che riesce a organizzare per far uscire il reale dalla scatola nera. Dall’altra ci sarebbe la controstrategia del reale stesso, che è quella di dire di no, di non uscirne, di mettere in moto i suoi trucchi per tenersi nascosto. La dimensione della conoscenza è quella dove ci sono due attanti, un Soggetto e un Antisoggetto, che si contrastano fra loro con tutti i mezzi a loro disposizione, vincendo ora l’uno ora l’altro, incessantemente. Ma quando blocchiamo il processo in una sorta di fermo immagine, ecco che da una parte c’è il soggetto della conoscenza e dall’altro il reale da conoscere.

Siamo all’aforisma di Eraclito per cui la Natura ama nascondersi e il filosofo deve svelarla…

Certo, di modo che all’ideologia realista che pensa per fermo-immagine rispondiamo che la conoscenza è un processo di azioni, di carattere narrativo, le quali si succedono sulla base di specifiche modalizzazioni.

I fatti più o meno sfigati rivendicati dai realisti, al contrario, sono sempre singoli, staccati dai contesti sintagmatici e narrativi entro cui avvengono. È un fatto che l’acqua bolle a cento gradi: ma chi ha acceso il fuoco? e per quale ragione? Come per gli Azande, il vaso casca in testa, ma magari perché qualcun altro ha lanciato una maledizione.

Per non dire del fatto che nessuno si preoccupa, nell’esperienza reale che ai fanatici del realismo dovrebbe piacere tantissimo, se sono proprio cento i gradi che bisogna raggiungere per buttar giù la pasta: a noi è sufficiente che ci siano e le bolle e gli spaghetti possano ammorbidirsi per il tempo che è scritto nella loro scatola prima di mangiarli. In ogni caso, al realista serve il fatto puro, cioè depurato da ciò che lo ha prodotto, cioè – appunto – fatto, della ragione per cui è accaduto, e di tutti gli altri fatti che lo sostengono o che gli si oppongono. A questo proposito François Rastier dice giustamente che l’ontologia è qualcosa che ha dimenticato tutto il processo di costruzione che l’ha posta in essere. E si bea dei fatti e delle cose in sé.

Siamo così al tanto vituperato costruzionismo, spesso confuso con una specie di immaginazione sociologica da bricoleur, un po’ folle e molto visionaria, per la quale tutto è una ‘costruzione sociale’, pure la legge sulla caduta dei gravi…

È bene chiarire questo punto. La disposizione semiotica è fermamente costruzionista, ma non nel modo caricaturale con cui talvolta viene descritta. La narratività per esempio è un processo di significazione che costruisce oggetti, costruisce soggetti e costruisce soprattutto le loro relazioni. Questa posizione teorica è perciò molto differente da quella, presunta nichilista, dei decostruzionisti. I realisti, combattendo il decostruzionismo, mettono dentro anche la nostra posizione, che è molto diversa, perché, appunto, costruzionista. Se il decostruzionista può talvolta ricadere in posture teoriche dove tutto finisce per essere uguale a tutto (anche se in una visione anche qui un po’ semplificatoria), di fatto ricadendo in rischi di nichilismo in qualche modo pericolosi, il costruzionista no, non mira a distruggere ma a costruire, a indicare le procedure di costruzione della significazione umana e sociale, dei valori per nulla equivalenti che tali procedure mettono in gioco, delle relazioni intersoggettive che ciò comporta, dei processi passionali coinvolti e via dicendo. Dire che il reale è una costruzione semiotica non significa dire che è artificioso, meccanico, tendenzialmente impostore, fatto di simulacri segnici che non rinviano a nulla. Nient’affatto.
Vuol dire semmai che la significazione si produce nell’interazione fra sostanze e forme, ossia fra cose, corpi, materie, tecnologie, discorsi, affetti e quant’altro. La significazione è realissima, non foss’altro perché è efficace, genera forme di azione e di passione, sistemi di senso che sono sistemi di potere, forme di dominio. Non vedo perché tutto ciò dovrebbe essere nichilista, se non addirittura, come talvolta ci viene incautamente rimproverato, negazionista.
Dal nostro punto di vista, occorre perciò distinguere il realismo, che è problema di ontologia, dal verismo, che è un problema di sincerità. Se la prima posizione è diametralmente opposta alla nostra (ricorderei il vecchio saggio di Jakobson sul realismo nell’arte, dove descrive tutti i vari modi, spesso opposti fra loro) in cui si può essere realisti, la seconda possiamo condividerla. Perché è ancora una volta un problema strategico o, per dirla ancora con Goodman, di correttezza descrittiva. Goodman lo dice molto chiaramente: la verità è solo una minima parte di una descrizione di un certo modo, la quale descrizione ha semmai come obbiettivo formale la correttezza, in funzione ovviamente di ciò che si intende raggiungere, delle pertinenze che si mettono in gioco. La verità è elemento dell’efficacia discorsiva, e non il contrario.

Insisterei sul costruzionismo e sulle accuse, anche politiche, che vengono a esso rivolte di essere forse involontario difensore delle tesi negazioniste: “se dici che la verità è costruita, anche i lager possono essere dimostrati esser stato un falso storico!”. Così come si accusa il postmoderno di essere la teoria implicita del populismo mediatico (“avete voluto la liberazione della donna? ecco le escort in parlamento!”), analogamente si indica il costruzionismo come anticamera del nazismo. È quel che leggiamo sui giornali, a firma di illustri pensatori, ma anche su saggi a prima vista più profondi… Il primo impulso sarebbe di rispondere che il naturalismo o l’ontologismo, professando un’unica Verità, assumono un atteggiamento di indiscutibile autorità discorsiva che sfocia, se non nella dittatura, nell’ipse dixit mediatico…

Ripeto, la problematica costruzionista non può essere scambiata per una posizione negazionista. E va precisato anche, a questo proposito, che non basta assumere la posizione di un Geertz che dice di essere anti-anti-relativista. Non è quello il problema, ma semmai di professarsi orgogliosamente costruttivisti, senza per questo essere relativisti. Il relativista vero è pigro, perché dice che tutto va bene, anything goes e cose del genere. Il costruzionista non fa che lavorare, deve costruire: soggetti oggetti sostanze forme dispositivi valori etc. etc. E questa continua attività costruttiva è funzione di valori e della loro continua comparazione e valutazione. Per cui, appunto, non diciamo affatto che i valori sono tutti uguali, ma che sono tutti diversi. E alcuni sono migliori o peggiori di altri anche in funzione dei lori esiti pratici, sociali, politici, passionali e così via. In altri termini, una cosa è la significazione, che è costruzione formale di dispositivi semiotici più o meno efficaci, un’altra il valore, che è questione etica. Dire che il nazismo era una costruzione semiotica complessa, a suo modo molto sofisticata, non significa accettarne il sistema di valori. Dire che il sistema parentale indiano dove si bruciano le giovani vedove si basa su una costruzione semiotica molto elaborata non vuol dire accettarlo, e meno che mai approvarlo. Esattamente come quando parliamo, possiamo perfettamente valutare se certi modi di dire di una lingua siano più o meno efficaci, costruiti, di quelli di un’altra. Tant’è che le lingue, così come costruiscono certe espressioni, molto spesso le abbandonano perché non efficienti. La semiotica costruisce sistemi di valori, o per meglio dire ricostruisce le forme di costruzione dei sistemi culturali di valore, mostrando come essi possono essere costruiti ma anche distrutti, perennemente trasformati, anche sulla base di conflitti. Non esiste il valore, ma conflitti di valore, così come non esiste la realtà, ma realtà che entrano in conflitto fra loro, di modo che qualcuna di esse vince e qualcun’altra perde. E se ci sono conflitti, ci sono comparazioni, valutazioni giudizi continui. Altro che relativismo. È una banalità, ma non capisco perché ci tocca ripeterlo in continuazione. Basta con queste argomentazioni capziose: l’idea che tutti i valori sono uguali non l’ha mai sostenuta nessuno, è una caricatura. Perché dovremmo dirla? Per carità.
Più interessante semmai tornare sul problema della verità, che è problema serissimo, a patto che se ne disegnino i confini, se ne colgano bene i tratti e le pertinenze. La verità è una sottocomponente, nemmeno principale, della dimensione discorsiva, che spesso può essere trascurata, Prendiamo la lingua: la verità è importante solo nell’indicativo, ma negli altri modi del verbo – congiuntivo, imperativo, condizionale…– il problema della verità non si pone. La maggior parte degli enunciati linguistici non possono essere sottoposti al giudizio di verità e falsità. Sono atti (efficaci o meno, corretti o meno), non constatazioni (vere o false). Difficile sostenere che non sia così… Abbandonando nozioni come quelle di verità assoluta e di certezza, che hanno ossessionato tanta filosofia, la problematica del realismo cade da sola.

Una cosa forse che potremmo aggiungere è il problema del soggetto dell’enunciazione veritativa. Quando i realisti parlano di Scienza (rigorosamente al singolare e con la maiuscola), dimenticano, o fanno finta di dimenticare che non esiste una scienza ma molteplici, e che sarebbe molto più corretto parlare di discorso scientifico, entro cui sia gitano lingue e testi, pratiche di laboratorio tecnologie, flussi di finanziamento, convegni e controversie e così via. In altre parole, uno dei problemi è chi parla la scienza, e a nome di chi lo fa.

Fra l’altro, si parla sempre di scienziati come attori individuali, mentre la scienza è un attore per forza di cose collettivo. Come le archistar oggi ci sono le sciencestar. Con tutto quel che comporta in termini di riscontri mediativi, rilanci operativi, imposizioni di autorità discorsive. Proviamo invece ad affrontare la questione così: una delle più forti resistenze che si sono avute alla semiotica, già dai suoi inizi, stava nel fatto che essa si proponeva come una critica dei sistemi ideologici sottesi alla cultura mediatica, e parlava di linguaggio bianco, di grado zero della scrittura, di purezza comunicativa e simili, che non era la rincorsa di un linguaggio oggettivo ma di un linguaggio per così dire sbiancato, depurato dalle connotazioni ideologiche. L’idea era che si potesse costruire un sistema metodologico che facesse frizione con i discorsi ideologici, in vista di una purificazione comunicativa generale. Barthes diceva, nel brusio della lingua c’è il presentimento di una società senza classi. Dunque, l’eliminazione di un sistema di valori portava su un altro sistema di valori, non andava verso l’oggettività ma verso un altro modi di organizzare la società e la cultura. E sin qui la semiotica era accettata. Poi però – dopo Barthes, con Hjelmslev, Greimas e altri – si è rivista questa utopia semiologica in fondo abbastanza banale, e si è ipotizzato non la costruzione di un metalinguaggio esterno alla lingua, sedicente oggettivo, ma di un linguaggio interno al linguaggio stesso che potesse permettere l’interdefinizione concettuale. Non dunque un metalinguaggio giudicatore esterno, in nome di criteri di verità e falsità, da livelli diversi del linguaggio, tutti interni a esso, fra loro interdefiniti. Questa ipotesi della semiotica di seconda generazione, del tutto ragionevole, è stata violentemente respinta in nome della idea che esiste una sola scienza dell’uomo, il cui discorso è indiscutibile, che era (è) il marxismo. Le resistenze contro la semiotica, in nome di una verità unica di tipo scientista, è dunque precedente al realismo più o meno nuovo di cui oggi tanto si discute. E venivano dal marxismo zdanoviano diffuso nella società occidentale. L’idea di Greimas, del resto, non era affatto scientista, lui parlava della vocazione scientifica della semiotica, ossia pensava di lavorare in vista della scientificità, non dentro di essa, ma una scientificità maestosa, quella delle scienze esatte dell’Ottocento e dei trionfi della fisica di primo Novecento.
La sociologia della scienza di Latour ha spostato in modo molto pesante tutto il dibattito. Latour, che non a caso proveniente dalla semiotica e dalla etnometodologia americana (di origine fenomenologica), ha mostrato – studiando i laboratori e le pratiche delle scienze – che le forme di scientificità interne ai discorsi delle varie scienze sono molto diverse: la scienza per la mineralogia non è la stessa della botanica o della chimica o della astrologia. Non c’è epistemologia comune per il semplice fatto che ci sono pratiche strategiche diverse, non comparabili se non con fortissimo rischio del riduzionismo, non a caso, naturalistico. Oggi per esempio l’epigenetica – figlia di quella genetica da cui son venute fuori tante ipotesi scientiste sui destini comuni della specie umana – nega l’idea di destino e spiega che i geni si trasformano secondo i differenti ambienti sociali entro cui gli esseri biologici vivono, crescono e muoiono. Ci sono insomma molte scienze per nulla scientiste.
D’altra parte, parallelamente, alcune ricerche antropologiche recenti mettono in crisi anche quelle convinzioni scientifiche che sino a poco tempo fa consideravamo indiscutibili, come per esempio alcuni leggi della percezione. Ci sono culture in cui non esistono spigoli, nelle quali gli inganni percettivi che noi consideriamo evidenti non lo sono per nulla. Le variazioni antropologiche sono molto più forti delle leggi della percezioni presunte universali.

Rientrano qui i tuoi studi sul camouflage?

Certamente, occuparsi di camouflage significa porsi problemi relativi alla verità e alla sincerità ma considerandoli a partire da una prospettiva rovesciata. Come diceva Goffman per studiare l’ordine sociale è bene considerare il punto di vista del ladro, il quale, dovendolo trasgredire, deve conoscerlo benissimo. O, come diceva Goodman, per studiare l’originale bisogna studiare le copie. La questione della verità e della sincerità, analogamente, comporta variazioni enormi: si può essere perfettamente sinceri sul piano soggettivo e scorretti su quello sociale; ma anche falsi sui criteri di verità, o scorretti nei criteri di metafora etc. etc.. Una di queste è il travestimento per camouflage, interessantissimo fra l’altro perché va dai microbi (i quali per entrare nel corpo devono ingaggiare strategie di camouflage con gli anticorpi) agli insetti (che hanno tattiche figurative molto più complesse), dalla caccia umana alla guerra. Con esso si può studiare il mondo della iterazione strategica conflittuale a partire dal travestimento e dalle sue innumerevoli figure. Studiando i giochi del sembrare, di costruzione dell’altro, dei simulacri di sé e delle rappresentazioni mirate si capisce molto meglio il mondo della scienza e del discorso veritativo come un fenomeno fortemente e costitutivamente strategico. Piuttosto che pensare a un mondo ontologicamente esistente è più interessante pensare a un mondo dove sono in ballo, rispetto alle nostre azioni e organizzazioni, tutta una serie di resistenze specifiche.
Cosa che va bene per gli umani come per i non umani. Che è un modo diverso di tagliare il limite fra la cosiddetta natura e la cosiddetta cultura.


Note

  1. Greimas 1970. torna al rimando a questa nota
  2. Greimas 1966. torna al rimando a questa nota
  3. Coquet 20… torna al rimando a questa nota
  4. Fabbri … torna al rimando a questa nota
  5. Fabbri … torna al rimando a questa nota
  6. Foucault … torna al rimando a questa nota
  7. Greimas 1987. torna al rimando a questa nota
  8. Hjelsmlev 1947. torna al rimando a questa nota
  9. Greimas 1983. torna al rimando a questa nota
  10. Bastide … torna al rimando a questa nota
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