Parole, forme e tracce storiche


Colloquio con Eugenio Lio, Rivista italiana della comunicazione pubblica, F. Angeli, Milano, maggio 1999.
Oggi: “Identità e storia”, in AA.VV., Italia ed Europa: identità e comunicazione, F. Angeli, Milano, 2000.


Domanda: Potrebbe configurare semioticamente il rapporto tra traccia e storia?

Risposta: Naturalmente bisogna distinguere lo statuto semiotico di traccia. È evidente che, se la traccia è una pura espressione, se non è correlata ad una organizzazione di contenuto, per un semiologo non ha nessun interesse… il mondo è zeppo di marche.
Le faccio un esempio che mi ha sempre commosso molto: la nozione di astroblema. L’astroblema denota l’insieme delle tracce di tutti gli impatti che la terra ha ricevuto da meteore esterne (blepso in greco vuol dire ferisco). Naturalmente se queste tracce vengono riunite e si fa un calcolo dei luoghi in cui vengono prevalentemente ricevuti gli impatti si costruisce un significato. Una traccia è, allora, quella forma dell’espressione cui è correlato un contenuto organizzato.
Se lei è arrivato alla Stazione di Bologna avrà visto, non senza sorpresa, che è stata ricostruita la stazione ma c’è una specie di sbavatura coperta da un vetro che è la traccia dell’esplosione del 1980. È stata ricostruita come una ferita, come traccia di quell’evento e chi la guarda non constata solo che lì c’è stata un’esplosione, ma coglie anche tutta una serie di valori associati altamente sistematici. Quindi da questo punto di vista è evidente che è traccia di qualcosa, di un significato.
Un significato può essere, noi diciamo, specifico o numerico. Faccio un esempio molto banale che prendo da Prieto. C’è una macchina da scrivere in un museo della storia di Berlino con vicino scritto: macchina che è servita ai resistenti durante il nazismo.
Poi lei va al mercato e trova la stesso modello di macchina da scrivere; è la stessa ma non è la medesima, perché sono storicamente diverse, cioè la prima è stata in contatto con quelle determinate persone, è stata usata in quella situazione eccetera.
Già, ma come lo capisco? Dove sta la storia?
Sta nell’etichetta vicino che spiega cosa è accaduto. Se non ci fosse quell’etichetta che spiega che è un apparecchio servito ai resistenti contro Hitler non ci emozionerebbe tanto. Difatti lo stesso oggetto identico che troviamo al mercatino non ci commuove, ma diventa un oggetto comune.
Lei ha due tracce identiche ma una sola diventa numerica nel senso di storicamente determinata perché c’è un altro testo che lo prova. Ecco perché sostengo che la storicità è un problema di intertestualità.

D.: Nel suo ultimo libro, La svolta semiotica, parla sovente di segmentazione del significante, in che senso? Potrebbe fornirne un esempio?

R.: Io penso che il concetto di segno sia un ostacolo epistemologico. Mi spiego: i segni (l’unità di significante e di significato) non hanno senso se non vengono definiti in relazione ad altri segni, quindi interessanti sono i sistemi di segni (questo lo diceva già Saussurre).
Inoltre i segni non hanno senso se non vengono scomposti in piani indipendenti, cioè una forma dell’espressione e una forma del contenuto, diversamente isomorfizzabili.
Il terzo passo è di dire: “Signori, i segni sono soltanto delle connessioni storicamente variabili e molto interessanti proprio perché storicamente variabili”.
Ma segni di che cosa?
Di relazioni che vanno ricostruite e che sono d’ordine sia paradigmatico, (sistemi di significati), sia sintagmatico (processi di significazione).
Questi sistemi e questi processi possono essere rappresentati da segni di natura molto diversa, quindi noi dobbiamo andare al di là del segno scomponendolo nelle sue parti.
Do un esempio: la parola in-de-com-poni-bil-e, è la parola più decomponibile che esista: hai in/de/com/ponere/ibil e poi hai anche il plurale, dunque e oppure i; cioè hai le lettere e/i finali del singolare/plurale; l’ ibil che è il suffisso di possibilità o di potenzialità; hai il radicale che è ponere; hai in-de-com che sono, fra l’altro, ordinati sintatticamente dato che non è possibile dire de-con-in-ponibile: quindi hai una sintassi del prefisso.
Un segno è morfologicamente così complesso nel suo formato, ha tante categorizzazioni semantiche e sintattiche, tante logiche interne che la prima cosa da fare è decomporlo.
Fin dove decomporlo?
Non ci sono delle unità ultime della semiotica, salvo quelle che la semiotica stessa si costruisce attraverso i propri mezzi e per i propri scopi.
Le parole sono le entità più misteriose di tutte, sono dei composti, sono già esse dei processi, con modifiche, con significati diversi, con elementi che cambiano l’un l’altro, esattamente come un racconto.
Un mio amico diceva che vi sono dei verbi algonchini che sono come dei piccoli poemi imagistes, e aveva ragione: la parola non è affatto l’unità, è una delle possibili unità.
Dò un altro esempio: pomme de terre è una parola o una frase? Una parola, però non è 1 parola.
Allarmi? È una parola perché è attaccata; ma allarmi è: alle-armi, sono due parole; è vero ne abbiamo fatta una, ma allora il comportamento quale è: pomme de terre se lo scriviamo tutto attaccato è una parola?
La cosa più misteriosa del linguaggio, più difficile da costruire sono le parole. Rovescerei l’ipotesi: partiamo dai testi e decomponiamoli fino a che è necessario. Fin dove?
La mia risposta è molto semplice, fin quando l’analisi è suscettibile di approfondire un significato; fin quando, così facendo, noi mettiamo in evidenza degli elementi che non avevamo previsto nel loro funzionamento.
Do un esempio che mi diverte sempre molto: l’anno scorso/ un anno fa, prova a fare: un anno scorso oppure l’anno fa: evidentemente non va.
Perché l’articolo determinativo e l’articolo indeterminativo si comportano così bizzarramente davanti ad una frase che ha esattamente lo stesso senso?
Non lo sappiamo, però è un fenomeno sistematico, correlato, dato che in una frase va bene l’articolo indeterminativo, ma nell’altra no e viceversa…
Quello che possiamo dire è che questa frase, assolutamente banale, improvvisamente mostra di essere misteriosa perché c’è una regola che non conosciamo; questa correlazione di elementi, pone una domanda sul piano del significante a cui noi dobbiamo dare una risposta sul piano del significato.

D.: Ne La svolta semiotica lei sostiene che molteplici possono essere le forme di testualità, ad esempio il monumento o la città, che, come diceva Roland Barthes “è un discorso”.

R.: Il problema del monumento, che lei pone, è un problema molto delicato. Innanzitutto ha delle proprietà: la salienza fisica, oggettiva è la più evidente, ma c’è qualcosa di più, una dimensione in qualche misura comunicativamente efficace. Cioè, la città non è solo lì per rappresentare qualcosa, ma è retta da fenomeni di alta ritualità, positiva (la passeggiata in centro, la manifestazione politica) e negativa (la possibilità di non mettere la macchine nel centro storico) ed entrambi sono fondamentali.
Etimologicamente la parola monumento deriva da moneo nel senso di persuadere/dissuadere, suggerendo così che è il luogo del valore non solo della rappresentazione.
Insisto molto su questo, la città è un luogo di investimento del valore.
Noi diciamo spesso che l’analisi semantica prevede tre livelli: figurativo, astratto, timico.
Quello figurativo è abbastanza evidente nel caso della città; quello astratto è il piano soggiacente: noi camminiamo su un piano, noi pratichiamo il figurativo, ma in realtà stiamo camminando sull’astratto. Basti pensare alla città sotto, tutto quello che c’è di vita tecnico-comunicativa nella città.
Oltre a questa città su cui camminiamo c’è la città timica: i semi timici, come li chiamiamo noi, cioè il gusto e il disgusto, sono centrali per la significazione: dire l’uomo economo è un complimento, dire l’uomo è avaro è un’offesa. Hanno lo stesso significato ma dal punto di vista timico sono diversissimi.

D.: Lei scrive: «Per discorso intendiamo quel testo – di qualunque sostanza espressiva – che, oltre a rappresentare qualcosa, rappresenta e iscrive al suo interno la forma della propria soggettività e intersoggettività» (La svolta semiotica, p. 63).
Quale è il rapporto tra enunciazione e costruzione dell’identità dell’interprete?

R.: La problematica enunciativa ci dà l’accesso ad una concezione non obiettivista, secondo cui c’è da una parte l’oggetto e dall’altra il soggetto o l’intersoggettività.
Se lei guarda un quadro, un panorama, o una costruzione urbana le prospettive sono state calcolate: è chiaro che il testo propone dei posti di enunciazione (di osservazione nel caso dell’immagine) e delle relazioni.
Prendiamo il dipinto Las Meninas di Velasquez: il pittore spagnolo sta dipingendo un quadro di cui noi vediamo solo il retro; poi guarda verso qualcosa e tra i personaggi rappresentati, alcuni si guardano tra loro e altri guardano fuori.
Ora, Foucault dice: lo specchio che c’è alle spalle di Velasquez rappresenta il re e la regina, quindi il pittore spagnolo sta guardando davanti il re e la regina che si riflettono sul fondo nello specchio.
Se andiamo a guardare la struttura prospettica del quadro, vediamo che il quadro non cade sullo specchio, ma cade a destra, sulla mano di un personaggio, che tra l’altro si chiama Velasquez, il quale sta su una porta vicina allo specchio, sollevando una tenda che si trova anch’essa nello specchio e guardando verso di noi che siamo là dove pensava Foucault: accanto al re e alla regina.
Ma insomma dove siamo noi spettatori?
Stiamo o davanti allo specchio, e allora saremo al posto del re e la regina, o un po’ vicino, secondo la prospettiva, alla sinistra del re e la regina ma comunque nello stesso spazio.
Ecco un esempio molto chiaro in cui ci sono dei testi che costruiscono degli spettatori in posizioni non sempre univoche.
Ho l’impressione che grandi città, grandi spazi urbani costruiscano diversi tipi di spettatori i quali possono o no occupare posti diversi. Ecco perché molti di noi vivono in città diverse, perché vengono a inserirsi in posizioni preparate dal testo, il quale nutre in qualche misura le sue relazioni.
Quando i Piemontesi decidono di fare a Roma Via del Corso e Via Nazionale, quando Mussolini decide di fare l’Altare della Patria e di spingere i Fori Imperiali verso il Colosseo, una delle ragioni era evidentemente di natura positiva: mostrare la glorificazione dei due poteri; l’altra era quella di deviare dal Vaticano, di spostare il baricentro della città, il suo ordinamento simbolico. La spazialità dell’architettura articola delle gerarchie simboliche, costruisce delle identità.
Il buon osservatore può stare solo in un punto: ci sono degli spazi costruiti con una iscrizione vuota del tipo “se vuoi vedermi bene c’è un solo punto in cui potrai stare”.
Ovviamente questo non impedisce al soggetto di stare dove vuole, di non accorgersi neanche che gli è stato proposto un contratto di lettura.

D.: Che ruolo ha la dimensione passionale nella comunicazione messa in atto da un testo?

R.: È molto importante: è chiaro che i segni rappresentano qualcosa, è una banalità; ma mettere in evidenza esclusivamente la dimensione rappresentativa, che è poi l’atteggiamento dei cognitivisti, ottunde uno degli aspetti fondamentali delle cose umane che è quello non soltanto di rappresentare qualcosa, ma di far sapere qualcosa a qualcuno e di trasformare l’azione dell’emittente e del ricevente.
Faccio un esempio banale: nel diritto un evento viene connesso ad una norma, ma in realtà alla norma non viene mai connesso l’evento, ma solo una rappresentazione dell’evento pensata in funzione di una certa norma piuttosto che di un’altra. Che un omicidio sia preterintenzionale, intenzionale o addirittura non sia un omicidio sono tre descrizioni di una stessa cosa: c’è uno che ha ammazzato un altro; ora, le tra fattispecie, come si dice in gergo giuridico, sono tre ricostruzioni che vengono pensate in funzione della norma cui verranno associate con conseguenze strepitose sul piano pratico.
Limitare il linguaggio, o altri testi non linguistici, agli aspetti indicativi significa dimenticare il modo imperativo, ingiuntivo, il modo ottativo, ovvero tutti i modi in cui il testo, oltre ad indicare qualcosa, mira ad agire per una trasformazione.
Perché azione e passione?
Questo è un problema molto discusso e che oggi può sembrare una banalità; tuttavia agli inizi degli anni ’70, nel periodo fortemente razionalistico e fortemente logicizzante era una eresia.
Come si presenta il concetto della passione?
È molto semplice, si trattava, come per tutti i concetti, di sottrarlo ad una relazione in modo crearne un’altra; è chiaro che se tu sottrai un concetto da una relazione, la nuova modifica il concetto stesso (come diceva De Saussurre).
Noi abbiamo staccato l’opposizione ragione-passione, non per escluderla, poiché fa parte della storia occidentale, ma per sospenderla, in modo da focalizzare un problema diverso.
Ponendo in evidenza la dimensione dell’affetto, cioè di quanto affetto dà, noi mettevamo in evidenza la correlazione di azione e passione, il fatto cioè che la passione è il punto di vista sull’azione in quanto ricevuta; tentavamo nel linguaggio, ma anche in comportamenti semiotici non linguistici, di mostrare che ci sono momenti attivi, e momenti passivi.
Un monumento fa fare delle cose: la presenza enorme dell’Altare della Patria fa sì che alcune cose non si possano più fare (per esempio impedisce la vista dei Fori Imperiali) e delle altre sì (libera uno spazio, mette in moto intorno a sé dei circuiti).
È evidente che noi pensiamo gli edifici come attori quindi attivi e passivi, cioè ricevitori di azioni oppure prontamente attivi.
L’esempio del monumento mostra che azione e passione non sono antropomorfe, sono concetti non antropomorfi, questo è l’aspetto cruciale,
Noi abbiamo lavorato su questa dimensione passionale valorizzando il carattere modale (volere, potere, dovere); quello temporale (rimpianto, desiderio, attesa, vendetta, la puntualità della passione: l’orrore, la duratività: l’angoscia), tutte hanno una identità temporale. La sensorialità, la dimensione estesica della passione: il furore è calore, la vendetta è un piatto che si mangia freddo; c’è insomma una estesia immediata che fa parte della definizione della passione.
Tutto questo ci serve per descrivere una passione non soltanto dal punto di vista paradigmatico, delle sue componenti, ma sintagmatico e questo credo che sia un salto qualitativo straordinario rispetto alle analisi precedenti.

D.: Il concetto di identità include una ineliminabile dimensione locativa (di identificazione territoriale) e una dimensione integrativa (di sintesi memoriale della propria storia); che ruolo ha un testo nella istituzione della bipolarità dentro-fuori propria della costituzione di un processo sociale di identificazione?

R.: Il problema dell’identità è per me uguale al problema dell’alterità: non si dà alcuna identità se non in relazione ad un altro rispetto a cui ci si definisce, che può essere un tu, quindi reversibile, o un egli, cioè obiettivamente considerabile.
Se l’identità locativo-integrativa diventa un luogo in cui l’io dice io e basta, allora questa identità non è una vera identità.
Capisco l’identità locativa soltanto se c’è un’alterità dei luoghi, se c’è un tu, un dirimpettaio. Non esistono identità in sé.
Anche la città si può leggere così: ci sono i non-luoghi, ovvero gli spazi che non sono per nessuno; ci sono i luoghi dove stanno gli altri; ci sono i luoghi degli altri intimi o, come diceva Simmel degli ebrei degli stranieri intimi, coloro, cioè, che sono fuori, ma di cui hai bisogno perché capiscono meglio la tua realtà; ci sono dei luoghi fortemente identitari, in cui il fuori è escluso.
Ecco non vorrei che l’identità locativo-integrativa si intendesse come staticità; noi abbiamo statico e dinamico come categorie.
Faccio un esempio: io sono un pendolare, ho un’identità dinamica, ho un dinamismo iterativo, mentre vi sono quelli che hanno identità a perdere, come i vagabondi, su cui si è lavorato molto in sociologia delle città, nella scuola di Chicago.
Un giorno con Eco e Le Goff, siamo andati un mese in Cina abbiamo visitato la Grande Muraglia. Prima scoperta: il muro non è affatto un muro, è una strada e quindi è percorribile; secondo: i barbari si fermano, quando si fermano, gli uccelli no, le malattie neanche.
Allora in che misura è insulare è questa locatività? Questa locatività è porosa, per usare una definizione che ha dato Cacciari. Questa porosità è la vera identità.

D.: Secondo lei c’è un nesso tra costruzione dell’identità e capacità/legittimità normativa del potere istituzionale? Può tentare di delinearlo?

R.: Certo. L’attore-istituzione, per usare una nozione della teoria narratologica, definisce degli spazi di legittimità, ma soprattutto si definisce sulla base degli spazi di legittimità. Naturalmente bisogna distinguere il potere-potenza, cioè il potere che non fa accadere più niente salvo erigere delimitazioni e steccati, e arresta la trasformazione.
Una delle cose più affascinanti delle istituzioni è l’amnistia… penso che la cancellazione della memoria sia fondamentale.
Noi stiamo esagerando, stiamo investendo nella città come se fossero dei teatri della memoria e questa tendenza è motivata da una cultura che ha perso la sua capacità profetica, programmatrice. La nostra cultura non è capace di utilizzare l’amnesia, non è più capace cioè di distruggere le cose, di cambiarne la forma, di prendersi la responsabilità della costruzione perché non si ha il coraggio di costruire il futuro.
È l’idea di Benjamin: vai al futuro perché il futuro ti serve a scegliere ciò che è pertinente del passato e di qui vai nel presente.
Tutte le società senza futuro sono annegate nel passato, più confuso perché più vasto. Nel futuro tutte le alternative sono possibili, ma quando ne hai scelta una, le altre spariscono; al contrario il passato è un pandemonio, sono successe tante di quelle cose che scegliere cosa sia pertinente nella costruzione del presente è un problema.
La mia idea è molto semplice: tu torni al passato dal futuro, dalle scelte che fai.

D.: La salvaguardia dei testi non potrebbe costituire una modalità di comunicazione pubblica, sia a livello di offerta di servizi e sia, allo stesso tempo, di autolegittimazione dell’istituzione?

R.: Guarda, prendiamo un caso clamoroso: agli inizi dell’800, quando Venezia finisce nelle grinfie dell’Austria, comincia la fabbricazione di una serie di monumenti: il grande e bellissimo monumento a Tiziano, quello di Canova, poi, a Vicenza, quello a Palladio. Il progetto culturale della Repubblica di Venezia sotto l’Austria era di costruire un passato storico glorioso e rivendicarlo nei confronti dell’Austria.
La costruzione di monumenti quindi è essenziale, fa parte di un atto assolutamente coerente.
Questo è un caso perfetto di comunicazione pubblica, ma non nei confronti di una comunità che sa già; si tratta di una azione istitutiva, di un atto performativo; è, come si diceva prima, una azione-passione.
Da questo punto di vista è fondamentale tenere conto che il monumento ha una efficacia che riguarda la costituzione di una comunità: Kosellek ha parlato del monumento come segno a futura memoria.
Götz, che è un famoso artista contemporaneo e che fa molti monumenti, ha fatto due opere molto bizzarre in Germania.
Gli avevano commissionato un monumento in ricordo della cultura ebraica davanti ad un Parlamento locale. Lui ha preso dai registri i nomi di tutti i vecchi cimiteri ebrei in Germania, alcuni dei quali non esistono più, poi ha scritto su dei sampietrini il nome del cimitero, quindi ha girato i sampietrini, costruendo un grande monumento che in realtà è una spianata di sampietrini in cui le cose sono scritte sotto, dunque non in vista.
C’è stata una vera lite con i commissionari che hanno preteso che almeno si mettesse per iscritto il nome della piazzetta in ricordo dei cimiteri ebrei.
Mi sembra una formidabile metafora della memoria: la memoria deve essere attiva e quindi anche memoria a sparire, cioè, se vuoi vivere, la memoria deve restare come traccia di quello che è sparito; Götz voleva che ci fosse questa memoria attiva ma in qualche modo invisibile. Si dirà che lui vive in stato di allegoria; sì, è vero, lui vive in stato di allegoria ma questa allegoria è costitutiva.
La comunicazione comporta la presentazione, l’azione e la passione e soprattutto la trasformazione, quindi la trasformazione di chi guarda e di chi ascolta. Ecco io ho l’impressione che una cultura apparentemente senza progetto quale è la nostra può difficilmente permettersi di definire comunicazione un restauro, ci vuole qualcosa di più, ci vuole un impegno superiore.

D.: Secondo lei quale è il grado di cooperazione fra comunicazione pubblica e semiotica?

R.: Io credo che la semiotica si interessi alla produzione, elaborazione, trasmissione, ricezione, interpretazione dei messaggi, cioè di qualunque forma espressiva dotata di significato e capace di trasformare gli emittenti e i riceventi. Se noi pensiamo che la comunicazione sia questo allora la comunicazione e la semiotica sono per me la stessa cosa, cioè la semiotica è la teoria della comunicazione. Ma se la comunicazione esclude tutti questi aspetti per situarsi solo sul livello della trasmissione di elementi già elaborati, e non si preoccupa delle dimensioni della interpretazione, traduzione, trasformazione del testo, allora la comunicazione diventa una specie di ideologia di riporto dei pubblicitari e non mi interessa molto.
Io ritengo che sia veramente una originalità della teoria comunicativa e della semiotica pensare che la comunicazione sia un quadro di cui il linguaggio è solo una parte, mentre i linguisti pensano la comunicazione esclusivamente sul piano linguistico. Ci sono cioè elementi non linguistici fortemente comunicativi, l’esempio della Stazione di Bologna, ricordato all’inizio, è un caso significativo di efficacia comunicativa con delle modalità non solo linguistiche.
Quello che mi sembra utile nel caso della comunicazione pubblica è di differenziare molto nettamente la comunicazione istituzionale da quella con un ritorno immediato economico-finanziario con tutti i suoi sistemi di costrizione. Questa differenziazione è fonte di una straordinaria libertà/servitù, perché fa sì che vi siano dei temi fondamentali da trattare e poi degli altri di pertinenza altrui; questo suscita problemi tremendi di invasione di campo, poiché la pubblicità oggi sta penetrando in tutte le direzioni.
Oliviero Toscani, ad esempio, sottrae alla comunicazione pubblica la dimensione istituzionale e la gioca sul piano di pura comunicazione pubblicitaria, sostenendo che è lui a fare la comunicazione istituzionale; questo è un problema molto serio.
Quindi in questo momento il problema di cosa sia comunicazione istituzionale è l’oggetto della comunicazione istituzionale stessa; la comunicazione istituzionale è davanti all’attacco degli altri tipi di messaggi che tendono di invaderne il campo; è necessitata a definire i propri limiti, che non sono limiti a priori, limiti definiti.

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