Due parole sul trasporre


Intervista a cura di Nicola Dusi, Versus. Quaderni di studi semiotici, numero 85-86-87 (monografico: “Sulla traduzione intersemiotica”, a cura di N. Dusi e S. Nergaard), 2000, pp. 271-284.


ND1Vorrei iniziare riprendendo il problema di cosa è traducibile e cosa no, pensando alla traduzione intersemiotica come ad un processo di trasformazione tra testi, che avviene su diversi livelli, ed all’intraducibile come a una sfida per i linguaggi, come insegna Lotman…

PF A un certo livello puoi tradurre, ad altri livelli no. Il problema dell’intraducibile si pone come questione complementare al tipo di livello. E’ chiaro che c’è dell’intraducibilità ma, siccome la traducibilità è la scelta di livelli di transduzione tra diverse sostanze, si può benissimo immaginare che ci sia una serie di altri livelli in cui la transduzione non può essere compiuta.
Quando Lotman spiega che l’intraducibile è una riserva per traduzioni future, vuol dire semplicemente che si tratta di ricostruire in un secondo tempo nuovi tipi di livello che permettono nuovi tipi di traducibilità. Se dici qui ho trovato un livello traducibile, invece qui non si può fare, significa che dovrai costruire un altro tipo di modello, in cui questi due livelli possono essere rimessi insieme. L’idea importante è che l’evoluzione della traducibilità avviene perché nel frattempo c’è un’evoluzione generale di tutti i sistemi simbolici: storicamente si ritraduce sempre. Si ritraduce perché, essendo cambiate alcune caratteristiche della lingua di arrivo e della lingua di partenza, ci si trova nella condizione di poter compiere delle operazioni di traducibilità dato che all’improvviso si sono creati nuovi tipi di pertinenza. A questo problema vorrei associare l’idea di esemplarità di una traduzione.

ND A proposito dell’esemplarità ricordo che citavi Goodman2

PF. Sì, proprio riguardo alla questione dell’esemplificazione. I nuovi tipi di contesti in cui si è trasformata la cultura consentono all’opera di esemplificare proprietà che prima non ci sembravano pertinenti. Quello che è transducibile ad un certo punto esemplificava delle proprietà del testo di arrivo e di quello di partenza, mostrava che a quel livello era possibile tradurre. Quando cambia la cultura, e si trasforma la lingua, diventano improvvisamente esemplificabili altre proprietà che non lo erano prima. Perchè è chiaro che sono i nuovi, mutati co-testi, che aiutano a formulare esemplificazioni di livello che prima non si potevano fare.
Questa è un primo punto molto importante. Il traducibile ridiventa riserva di traducibilità futura: la traduzione riesemplifica, in funzione dei nuovi co-testi, le pertinenze che consentono nuovi tipi di traducibilità.
C’è però un altro problema da porre accanto a quello dell’intraducibile o non-traducibile. Che cos’è il contrario della traduzione? Ho trovato un esempio molto interessante in Genette (1994) di contrario esatto della traduzione, quindi non di ‘intraducibile’, ma di ‘contrario del traducibile’, cioè il racconto borgesiano Pierre Ménard autore del Quixote, in cui si trasporta il primo testo in una seconda versione identica.

ND Vuoi dire che l’antitraduzione è la copia?

PF Meglio: la copia senza copiare. In un certo senso è trasporre l’uguale. Genette fa una osservazione interessante sulla controtraduzione, dice che è una sola versione con due storie. Per esempio, se prendi un racconto in italiano di Calvino puoi avere la versione francese che è la sua traduzione; nel caso dell’antitraduzione, invece, tu hai una sola versione che è quella di Pierre Ménard, che però rinvia a due storie indipendenti. Genette spiega che il caso della riscrittura del Don Chisciotte di Ménard è un caso di antitraduzione perché una storia con due versioni è una traduzione, mentre due storie con una sola versione è quello che produce Ménard: lui crede di rinarrare la storia, ma in realtà è sempre una versione e una versione sola.
Lo strutturalismo ci ha insegnato a pensare sempre un concetto e il suo contrario, o il suo sub-contrario. In questo caso abbiamo quindi non solo l’intraducibile, cioè l’impossibilità di fare due versioni, ma l’antitraduzione, quando due storie apparentemente diverse hanno una versione sola. Dal punto di vista logico, trovo che ci dovrebbe essere un momento in cui finalmente si integra alla discussione su traducibile e intraducibile anche la controtraduzione.
La controtraduzione è quando si ha una sola versione che – paradossalmente – in realtà rinvia a due storie diverse perchè Ménard è qualcuno che ha voluto riscrivere il Don Chisciotte e ha riscritto esattamente la stessa cosa, parola per parola, ma non voleva tradurlo, voleva semplicemente raccontare un’altra storia.
Per questo Genette (1984) può dire che “l’obiettivo del tradurre è conservare al massimo quello che l’originale esemplifica, al di là di quello che esso dice”.

ND Quindi la traduzione è una trasformazione ed una magnificazione del testo di partenza?

PF La traducibilità mi interessa non come fedeltà, ma come trasformazione. Vorrei riprendere Hagège (1985), per il quale la traduzione è “un’attività di modellamento dei tratti caratteristici delle lingue che contribuisce a creare tratti di altre lingue”. L’idea di Hagège è che la traduzione non è il passaggio tra due stati, bensì un’attività che trasforma le lingue di partenza e di arrivo, perchè mettendole in correlazione, scegliendo nella prima alcuni elementi esemplificanti della seconda, è come se introducesse nella prima lingua i tratti della seconda, dato che si è costretti a scegliere nella prima degli elementi che sono pertinenti per la seconda. Facciamo un esempio, l’analisi di Greimas (1987) del racconto di Calvino in Palomar, in cui si parla del “guizzo” (Calvino 1983). Greimas spiega che il guizzo non lo si può tradurre in francese: cosa succede in questo modo? Si introduce nella lingua italiana un concetto di singolarità che prima non c’era, cioè prima un parlante italiano non sapeva che il ‘guizzo’ era intraducibile; nel frattempo, entra nel francese l’impressione che alla lingua manchi qualcosa.
Un altro esempio, quello dei termini ‘tempestivo’ e ‘intempestivo’: nel francese non c’è ‘tempestif’. Se lo fai notare introduci nel francese la coscienza della mancanza del contrario, che prima non c’era. Oppure pensa alla parola ‘privacy’. Dal momento che scopri che in italiano la parola ‘privacy’ non si può tradurre, puoi introdurre una parola orrenda che è la ‘privatezza’. Ecco perché diciamo che la traduzione modella i tratti caratteristici della lingua che contribuisce a creare per il fatto stesso che introduce tratti di altre lingue.

ND Dunque la traduzione riconfigura in qualche modo la lingua di arrivo e quella di partenza, in termini semiotici si potrebbe forse dire che rende attuali dei valori semantici virtuali…

PF La traduzione è un segnalatore morfologico, vent’anni fa se avessero detto ‘privatezza’ non sarebbe stato accolto, oggi invece possiamo dire che la parola ‘privacy’ ha fatto scoprire una mancanza, ha reso necessario il termine, ha rimodellato la lingua italiana facendo accettare un nuovo termine. Si possono introdurre formanti che non avevamo, a patto che li si rimodelli, come spiega Hagège, quando dice che la traduzione è il luogo dove si modellano le lingue, in tutti i sensi della parola, nel senso che c’è un modello della lingua utilizzabile, ma virtuale. La traduzione è un atto trasformativo, certo, è un processo di trasformazione: non è più allora solo la resa dei significanti, ma è la resa dei significati che ha la funzione di trasformare anche la forma dei significanti, e addirittura di scoprire significati che non ci sono.

ND Eco, recentemente3, accenna a questo problema quando parla dell’adattamento-trasmutazione, dicendo che c’è una “conoscenza per manipolazione”: il testo di partenza viene manipolato, viene trasformato, e quindi si aprono nuove possibilità dell’interpretazione.

PF Però Eco (2000) esclude che sia traduzione, lo chiama adattamento. Per Eco è un tipo di interpretazione, mentre ai linguisti sembra relativamente ovvio che tutte le traduzioni siano un adattamento.

ND Ricapitolando: la traduzione è un segnalatore morfologico, è sempre adattamento, e nel suo farsi riconfigura la lingua.

PF. Vediamo ora di porre alcuni problemi fondamentali, sulla base di analisi esemplari. Strettamente legata a questa nozione di operazione trasformativa c’è l’idea che la traduzione ha sempre aspetti artistici, è una ‘ars traducendi’, se pensiamo alla distinzione che fa Foucault (1976) tra le scienze e le arti, le arti del fare. La traduzione è un’arte del fare, che mette in crisi i discorsi scientifici perchè evidentemente c’è un aspetto di modificazione.
La traduzione rompe con la nozione di relatività linguistica, perchè nella teoria della relatività linguistica è come se tu considerassi che due lingue hanno ciascuna una loro organizzazione specifica del mondo, invece la traduzione dimostra, nello stesso tempo, che ci sono delle ‘relatività linguistiche’ (la prova è che ci sono delle cose che sono impossibili da mettere in traduzione), ma nello stesso tempo questa relatività linguistica è costantemente trasformata dall’operazione traduttiva. Quindi l’idea di Sapir e Whorf (Whorf 1956) che una lingua provochi, rappresenti, una visione del mondo unica va ridiscussa: ci sono visioni del mondo, ma sono costantemente tras-formate dall’atto traduttivo.
In questo senso quando si dice che non è possibile la comunicazione perché una cultura ha una visione del mondo incompatibile con un’altra lingua-visione del mondo, bisogna rispondere che l’attività di traduzione permette di dimostrare che queste visioni del mondo sono continuamente traducibili perché comunque trasformabili.

ND Questo vale anche riguardo all’intraducibilità scientifica tra paradigmi, cioè al problema dell’incommensurabilità?

PF Anche qui l’idea è che ci sono dei livelli incommensurabili e quindi – momentaneamente -intraducibili, ma anche livelli in cui c’è traducibilità.
Rifacendomi a recenti ricerche cognitive e cerebralistiche, vorrei mettere in evidenza l’importanza della teoria dell’enactment (cfr. Lakoff e Johnson 1999; Edelmann 1992) per comprendere la transduzione. L’idea di enactment ci salva. Se per definizione tutte le nostre esperienze sono polisensoriali e specificabili solo nel cervello, allora è del tutto banale che le trasduzioni si possano fare. La semiotica, pensando al segno come ad una struttura di contenuti che può essere formata da sostanze dell’espressione differenti con delle loro sintassi, aveva già azzeccato una teoria della percezione per la quale ogni attività umana è un enactment polisensoriale. La teoria dell’enactment, cioè dell’azione incarnata, parte dal punto di vista della polisensorialità e solo successivamente distigue tra i sensi. Dà quindi come normale un’idea polisensoriale della traduzione, che per noi è anche polifonica, polisemica, e ci dà delle indicazioni chiarissime sul fatto che una traduzione è sempre una traduzione inter-sensibile, un’azione incarnata di tutti i sensi complessivi.

ND Questo è il contrario dell’approccio che distingue tra specificità dei linguaggi…

PF Sì, è il contrario rispetto a partire solo dalla lingua naturale e distinguere le sue relazioni e estensioni con l’immagine, la musica, il gesto, dicendo che da un lato sta la lingua, dall’altra il mondo naturale. Già Greimas (1968) diceva che ‘lingua’ e ‘mondo naturale’ sono due macrosemiotiche in costante traduzione. Certo il linguaggio ha una sua specificità, quella che ricorda Benveniste (1974) parlando di “doppia articolazione”, ma in realtà la traducibilità è possibilissima, perchè viviamo in un mondo polisensoriale. Quindi ora possiamo ribadire, grazie alle nuove ricerche cerebrali, le possibilità anzi l’ovvietà della transduzione.
Jakobson diceva, come d’altra parte altri, c’è la traduzione linguistica e poi c’è anche la transduzione. Ma questo non è il punto di vista moderno. Il punto di vista moderno è al contrario ammettere che viviamo nelle trasduzioni, e che una parte di queste è la traduzione linguistica, con la sua sintassi.

ND Dici che non ti interessa l’equivalenza o la fedeltà, però la traduzione si definisce anche come un passaggio di qualcosa che viene riconosciuto come simile, a diversi livelli. Cosa passa allora a livello intersensoriale? Abbiamo spesso accennato, durante i seminari bolognesi4, alle “configurazioni figurali”.

PF Certo, può esserci equivalenza ad un determinato livello, ma dipende dai diversi casi. Nel racconto Clone di Cortàzar (in Tanto amore per Glenda, 1980), ad esempio, si prende a modello l’Offerta Musicale di Bach, si crea una equivalenza tra “strumenti” e “personaggi”, e poi si riproducono le relazioni degli strumenti, nel pezzo musicale, come strategie ed azioni dei vari personaggi.
Oppure prendiamo il linguaggio dei segni: Greimas (1966) spiega che il lessema ‘testa’ ha alla base i semi di “estremità, superatività, sferoidità”, il gesto dei sordomuti per dire ‘testa’ presenta proprio le caratteristiche di ‘estremità’, ‘superatività’, ‘rotondità’ (e ‘solidità’): in questo caso, i semi che caratterizzano la parola ‘testa’ nell’analisi semantica al livello linguistico sono gli stessi che puoi ritrovare a livello visivo.

ND Ci sarebbe allora una traduzione sempre possibile a livello di semi nucleari, se ci poniamo a livello semantico, che poi cambia e si contestualizza nei classemi, almeno nei termini della semantica strutturale.

PF Certo, cambia nella configurazione classemica e, soprattutto, dei formanti figurativi e nelle sostanze espressive, ma a livello semantico si mantiene una equivalenza.

ND Allora si possono tradurre almeno delle categorie di base del significato. Nella traduzione intersemiotica però non c’è soltanto un problema di traduzione del contenuto, ma anche delle diverse materie e sostanze dell’espressione…

PF A livello del significante sensibile, e questo è un altro punto fondamentale, la semiotica ora ha il vantaggio di poter parlare di una autonomia della sintassi figurativa (cfr. Fontanille 1999).
Ad esempio, prendiamo un caso di sinestesia per rendere verbalmente un certo tipo di musica, come fa Proust (1905): “Mi giungeva la musica da lontano come un profumo dell’etere. Com’è lontana Gerusalemme”.
Se trasduciamo dobbiamo porre il problema di una sintassi figurativa caratteristica del profumo. La frase di Proust cosa vuol dire? Così come il profumo può arrivare a “effluvi”, la musica può arrivare a “folate”: allora avremo la sintassi della folata olfattiva, e la sintassi della folata sonora, che entrano da due diversi canali sensoriali.

ND Vuoi dire che si può avere una traducibilità intersensoriale, ad esempio a livello aspettuale e ritmico?

PF Nel mio esempio è una stessa sintassi della musica e del profumo che serve a trasmettere degli elementi fondamentali, a livello aspettuale e ritmico: qui si può operare la traducibilità, ma bisogna riconoscere una autonomia a questo livello.
François Rastier, nella sua relazione al convegno AISS 2000 di Castiglioncello, portava l’esempio della passione della “noia”. La noia è non-“borné”, cioè aspettualmente qualcosa di “non limitato”, ed è “durativa”, che non comincia e non finisce. Se fosse “borné”, da una parte avresti l'”attesa”, non la noia, perchè l’attesa sai quando comincia, e nella noia invece tu cominci e sei già annoiato, e hai l’impressione che eri già annoiato fin dall’inizio, e non sai quando dovrà finire. Nell’attesa, invece, non sai quando dovrà finire, ma sai quando ha avuto inizio: l’attesa è una passione durativa (cfr. Pezzini 1998). Ecco, questo “non-borné” che caratterizza la passione della noia si può rendere benissimo a livello musicale: si possono tradurre il figurativo e il musicale e puoi rendere la noia come un attacco e un ritmo che non sai bene quando sono cominciati, ad esempio con un modo soffuso, lento, dilatato, con un inizio insensibile e una fine insensibile.

ND Ci sarebbe una sintassi figurativa di uno stato passionale, una sintassi figurativa della musica, e questo permette una traducibilità…

PF C’è una sintassi figurativa del senso dell’udito, come si può avere una sintassi figurativa del profumo, che ha le sue regole particolari, come dicevo, il fatto di arrivare a folate, oppure in modo lento, a piccole inoculazioni. Queste sono tutte ‘sintassi figurative’ di cui tenere conto. Quando hai dei tratti semantici da tradurre come borné/non borné, durativo/non durativo, che vanno trasportati al livello della sostanza dell’espressione, bisogna rispettare le sostanze dell’espressione e la loro particolare sintassi figurativa. Ma quella sintassi figurativa può sempre venire ‘staccata’, e portata su un altro senso, questa è la mia idea. Per questo penso che se consideriamo la teoria dell’enactment, affiancandovi la teoria della sintassi figurativa, possiamo capire come funziona la trasduzione. Lakoff e Johnson (1999) non hanno l’idea della sintassi figurativa e della sua distaccabilità in forma autonoma, che può per così dire venir staccata dal suo supporto e portata su un altro.
Se ad esempio vuoi rendere un pezzo musicale in fotografia, ormai puoi benissimo fare una foto di una cosa in movimento di quelle che lasciano una traccia, con dei segni mossi, segni confusi. Oppure si può rendere il segno confuso musicale in quello visivo, usando strategie figurative comuni, che sono in grado di trasdurle, posso infatti fare un accelerato in musica come nel visivo.

ND Tutto questo andrebbe esemplificato con delle analisi di casi di traduzione intersemiotica, in modo da ricostruire una prima fenomenologia.

PF Questo è un altro punto molto importante. Noi dobbiamo fare come nella linguistica, nella quale non ci si poneva il problema fondamentale della relazione tra linguistica, logica o altro, e si lavorava direttamente sugli esempi delle lingue. Dobbiamo allora trovare il più possibile esempi in cui queste cose avvengono, cioè si dà traducibilità intersemiotica. Uno studio fondamentale è quello di Jakobson su “L’arte verbale dei poeti pittori” (1970), un altro si trova nel testo di Pierre Boulez (1990), in cui si dice in maniera assolutamente limpida una cosa fondamentale: la traduzione tra pittura e musica è possibile, dipende dal livello che si sceglie di rendere pertinente. Ad esempio, Boulez mostra che nei lavori di Debussy c’è una prospettiva, c’è spazializzazione. Anche Sciarrino (1998) parte nelle sue analisi dall’idea che in musica la ‘profondità’ è una cosa banalissima, dimostra che c’è una ‘sintassi spaziale’ della musica, così come Jakobson diceva che si può trovare una sintassi spaziale soggiacente al linguaggio, dato che è fonetico, e si può quindi trasporlo in pittura. Quindi Sciarrino e Boulez sostengono che c’è una sintassi spaziale del musicale, e lo dicono come una banalità.

ND C’è però un problema rispetto agli “effetti di senso”, che non sono mai del tutto gli stessi, anche se c’è una sintassi figurativa e trasportabile.

PF Per questo bisognerebbe non tanto mettersi teoricamente a creare tipologie, ma cercare di conoscere i casi in cui si ha testimonianza di traduzione intersemiotica, e dai casi precisi estrapolare teorizzazioni. Non è sempre e solo a livello di massima resa di un testo in un altro che si può parlare di traduzione, perché se anche questa non si può dare, c’è sempre una traduzione anche ad un livello minimo.
Cambiamo esempio, pensando alla traduzione in culture diverse dalla propria. Si dice che Cristo arrivò su quell’animale a quattro zampe che aveva lunghissime orecchie, tanto è vero che gli esquimesi che non hanno mai visto il somaro lo hanno tradotto con coniglio (cfr. Nida 1964). Piuttosto che dire che Cristo è arrivato a piedi, siccome è arrivato sopra un animale, per gli esquimesi è meglio tradurre che è arrivato su un coniglio molto grande, che ha le orecchie lunghe ed è peloso, e ha quattro zampe. Però per altri è fondamentale che sia arrivato su un asino a Gerusalemme. Se vuoi fare la scelta di mantenere il senso dell’arrivare ‘umilmente’, dirai che Cristo è arrivato a piedi nudi, e togli l’asino. Ma cos’è più fedele, il coniglio o i piedi nudi? Quindi c’è sicuramente attività interpretativa nella traduzione, ma c’è anche una specificità dell’atto traduttivo, che va analizzata. Dopo aver interpretato devi tradurre, e questo diventa una attività supplementare. Cioè: l’interpretazione è una condicio sine qua non, ma non è la specificità dell’atto traduttivo, sennò si rischia di fare gli ermeneutici, e dire che ogni pensiero traduce un altro pensiero e non ci sarà mai un pensiero nuovo.

ND Torniamo al problema metodologico di come lavorare sulla traduzione intersemiotica.

PF Abbiamo detto che è fondamentale la questione degli exempla. Greimas (1987) spiega, giustamente, che considera il problema dell’estesia come fondamentale, ma vuole nutrire la problematica del sensibile non stabilendo dei sensi a priori (che cos’è l’udito, la vista, ecc.) ma lavorando su degli esempi precisi, che sono diversi brani letterari presi da Tanizachi, Calvino, Tournier, Cortàzar e altri, per estrapolare da lì una concettualizzazione.
Proviamo allora a fare una lista esemplare di elementi in cui si dimostra come è in corso, da una parte, l’enactment intersensoriale, e dall’altra parte indicare le analisi già fatte dei passaggi tra il figurativo, per esempio, e il linguistico, dal musicale al figurativo, e così via.
Dovremo mettere da parte un certo numero di elementi che ci diano queste indicazioni. Andando oltre l’analisi di Jakobson (1970), sul passaggio tra letteratura e visivo, Corrain e Lancioni (1999) hanno proposto un’analisi molto carina del trasferimento tra un quadro di Morlotti e una poesia. Il visivo può avere un supporto planare statico, oppure un planare dinamico, come il cinema, e qui ci sono i tuoi lavori (cfr. Dusi 1998; 2000). Poi abbiamo il visivo/musicale, con l’esempio di Boulez che analizza Klee, o il rapporto tra musicale/verbale-letterario con del racconto di Cortàzar, interessante, come dicevo, perchè è un caso di costruzione deliberata e di resa dall’uno all’altro. Un altro esempio di visivo/verbale, in cui è chiarissima la possibilità di traduzione, è quello del linguaggio dei sordomuti (cfr. Fabbri 1998; Volterra 1987).
Riguardo al non verbale, ci sono due punti fondamentali del passaggio tra verbale e visivo: il primo si trova ancora nelle analisi di Jakobson, il secondo è certamente dato dagli studi di Marin (1993) sui trasferimenti di enunciazione, con i problemi dello sguardo, della reciprocità, ecc.. Ovviamente questo vale anche per il cinema, come dice Metz (1991). In questi casi siamo di fronte alla traduzione non degli aspetti dell’enunciato visivo, ma a quelli dell’enunciazione visiva, ma potremmo anche dire che ci sono delle traduzioni dell’enunciazione musicale.
Dobbiamo infatti ricordare una delle cose fondamentali, la differenza tra tradurre l’enunciato e tradurre l’enunciazione, anche se quando si traduce da una cultura a un’altra, è evidente che le strutture enunciative possono non prestarsi alla stessa maniera.

ND Forse questo vale anche per lo scopo della traduzione. Lo si può verificare solamente nel testo, a seconda della struttura valoriale che emerge, dal tipo di enunciazione e costruzione discorsiva, per vedere che tipo di enunciatario “modello” il testo costruisce. Insomma lo scopo emerge dalla strategia enunciativa del testo. Del resto non sembrano esserci regole a priori per una “buona” traduzione.

PF Anche la retorica era così: era “l’arte di parlare bene”. Però oggi non la vediamo più in questo modo, la consideriamo una disciplina che studia le forme del discorso. Quindi noi studiamo le forme della traduzione, non studiamo le regole per tradurre bene. Studiamo diverse strategie di tipo traduttivo.
Poi ci può essere il problema che abbiamo definito qui: qual è il testo che riesce a mantenere il massimo di senso possibile tenuto conto dei mutamenti dovuti a “sintassi figurative” diverse. Ma questo è un problema di “ottimizzazione” del significato, non di meccanismi del significato. Benissimo. Potresti anche dire: “la migliore traduzione non è quella che ottimizza il significato, ma quella che mantiene i ritmi del significante”, e allora l’ottimizzazione non appare sul piano semantico, bensì su quello dell’espressione.

ND Quello che dicevamo sull’intraducibile che crea nuove possibilità del senso e nella lingua, partiva in fondo dal dibattito sull’intraducibilità della poesia…

PF Sì, ma io terrei salda questa posizione. Eco (2000) dice: c’è una traduzione nella quale siamo obbligati a essere fedeli, poi c’è la poesia, in cui ci si comporta come quando ho tradotto Queneau. In quel caso io posso anche non essere strettamente fedele, posso rivaleggiare o fare meglio, “giocare una nuova partita con lo stesso numero di mosse” (Eco 1983), è comunque una buona traduzione ma è soprattutto un altro testo. E allora torna in ballo Jakobson, che ha spiegato più volte che la poesia non è “scarto” dalla norma, anzi, la poesia è la realizzazione massima di tutte le risorse linguistiche possibili. “Scarto” è invece il linguaggio normale, in cui noi, rispetto all’uso straordinario che potremmo fare di questa macchina, che potrebbe servire per mandare su un ascensore, ce ne serviamo per suonare un campanello.
Cioè: dovremmo rovesciare l’ipotesi. A noi interessa la traduzione al massimo livello di tutti gli usi possibili, quindi la traduzione poetica è più interessante della traduzione quotidiana. La traduzione poetica sfrutta tutte le possibilità del significato e del significante, mentre la traduzione linguistica del linguaggio cosiddetto “normale”, “quotidiano” o “‘tecnico”, presenta delle restrizioni specifiche rispetto alle vaste possibilità della traduzione.

ND Dunque non va pensata una equivalenza termine a termine, e bisogna sempre pensare ad una reversibilità della traduzione, un riorientamento dello sguardo. Si potrebbe collegare questo discorso con il problema del livello poetico di un testo visivo e audiovisivo, come diceva Greimas parlando di semiotiche plastiche e semiotiche poetiche. Sono queste che permettono un diverso sguardo sui testi e una traducibilità che passi per il piano dell’espressione prima di tutto, proprio per garantire che il significato sia tradotto.
Volevo allora portarti alla pertinenza di un sguardo sui “sistemi interni” al testo, come momento chiave di quando si traduce. Una analisi testuale dei sistemi semisimbolici o figurali in gioco nei testi è secondo te una buona proposta per analizzare una traduzione?

PF A mio avviso è una proposta di assoluto avvenire, perché è la modernità che richiede un lavoro sulle traduzioni sistematiche, tipicamente sincretiche nelle attività di passaggio, che sono dappertutto. Non c’è solo la semiotica verbale con cui confrontarsi.

ND Un buon punto di vista è quello che propone Calabrese (2000) quando dice che una teoria generale della traduzione non è possibile, bisogna aprire ad una semiotica dei processi, lavorando sui sistemi locali, andando a vedere come sostenevi tu analisi per analisi, testo per testo, cosa è successo. Questo garantisce una fenomenologia della traduzione intersemiotica o intrasemiotica.

PF Certo, nonché un arricchimento teorico, con i concetti che vengono disimplicati dalle analisi. Non al contrario una decisione filosofica a priori di cosa sia traducibile e cosa sia intraducibile.

ND Però a tuo avviso che tipo di teorizzazione può risultare da un lavoro di questo tipo?

PF Ne emerge la possibilità reale di studiare queste cose nei fatti. Cioè sono traduzioni che si fanno e bisogna studiare la maniera in cui si fanno. Per esempio si è detto che la musica è una disciplina della linearità temporale e così i linguaggi, e questo li rende intraducibili con i sistemi spaziali. Se si dimostra, come ha fatto Jakobson, che la poesia è spazializzazione, oppure attraverso le analisi di Sciarrino su Beethoven si evidenzia come la musica sia spazializzazione, a questo punto la traducibilità tra poesia, musica e spazialità diventa ovvia.
Bisogna smettere di pensare in modo obsoleto alla musica o al linguaggio come lineari e al disegno o alla scultura come statici. Si può invece dimostrare attraverso le analisi testuali che, lungi dall’essere statico, il disegno o la scultura sono dei processi, e ci sono delle strategie poetiche come la rima o la ripetizione, che creano nella musica e nel linguaggio degli effetti di spazialità. A questo punto si torna a confrontare quello che sembrava spaziale con la musica, e quello che sembrava processuale con l’immagine e cambia tutto, cioè le traduzioni divengono possibili. Non ha più senso accettare la divisione tra “arti del tempo” e “arti dello spazio”, mentre l’incisione e la scultura, sono come la musica o il linguaggio, sia arti del tempo sia dello spazio, e le si può tradurre proprio per questo.

ND In tal modo la semiotica da un lato permette di uscire dagli stereotipi sulle differenze dei linguaggi, dall’altro diviene propositiva. Non è infatti una scienza normativa o statica del significato e del significante, ma è propositiva perché nel momento in cui si analizzano le diverse costruzioni interne dei testi, emergono nuove regole per nuove traduzioni. Si allarga il dominio della traducibilità?

PF Quando Deleuze (1981) dice che Bacon nei suoi quadri rappresenta dei “sistemi di forze”, forze in tensione, cioè dimensioni tensive, diventa facile pensare ad una traduzione musicale in cui ci sia una dimensione tensiva. Quando Rossini vede Venere e Adone scolpiti da Canova, dice “mi piacerebbe fare un pezzo di musica su di loro” (cfr. Fabbri 2000). Perché può dirlo? Perché ha percepito la tensione, e sa come svolgerla. Se pensi solo che una sia arte del tempo e l’altra dello spazio, la possibilità in questione non si pone neppure.

ND Chiudiamo allora sul problema del figurale nel linguaggio. Mi sembra collegabile a ciò che hanno proposto molte avanguardie artistiche che hanno sperimentato possibili intersezioni tra le arti. Quando si mettono assieme cinema e pittura, scultura e musica o poesia, voce e performance, si è sempre a mio avviso lavorato sulle tensioni, cioè su quelli aspetti che noi chiamiamo figurali, come d’altronde Ejzenštejn diceva chiaramente. Sarebbero livelli più astratti della significazione, in cui entrano in gioco delle “macro-relazioni” tra espressione e contenuto, dei contrasti e delle correlazioni tra serie di elementi concatenati nei due piani, tra categorie.

PF Infatti. Hanno sempre lavorato sulla traducibilità. L’importante è ribadire che è finito lo “specifico” dei linguaggio fondati su delle sostanze dell’espressione ontologicamente determinate. Oggi viviamo nel mondo delle traduzioni intersemiotiche, e la nostra semiotica vuol essere soltanto contemporanea. Il nostro progetto semiotico è quindi di capire cosa sta già succedendo. Mentre a mio avviso quello che è inquietante, e che oggi sta generalizzandosi, è partire da ipotesi contrarie, cioè che in qualche modo gli specifici sono irriducibili e intraducibili. Mentre noi sappiamo benissimo che, a un certo livello, si traduce tutto, e che la nostra società non fa altro.

ND Altrimenti vince la logica dell’Umbestimmtheit, dell’indeterminatezza maggiore o minore di un linguaggio su un altro, e non come forza propulsiva dell’imperfezione, ma come estetica del “non capisco cosa è successo”, cioè una estetica della vaghezza…

PF È l’estetica del tutto è impuro, tutto è vago, tutto è ibrido. Invece di voler sapere in che modo lo sono. Su questo io sono persuaso che chi dice “viviamo nel mondo in cui stiamo” è perfettamente adattato, mentre chi dice “cerco di capire come funziona” non è adattato al mondo in cui sta, tenta di tradurre i fenomeni di intelligibilità. In questo modo la semiotica persegue il suo progetto di intelligibilità del contemporaneo.


Note

  1. Lungo tutto il testo, Paolo Fabbri e Nicola Dusi saranno abbreviati rispettivamente come PF e ND. torna al rimando a questa nota
  2. Si veda Goodman (1968). torna al rimando a questa nota
  3. Si veda Eco, 2000. torna al rimando a questa nota
  4. Si vedano i saggi contenuti in Versus, 85-86-87, 2000 (monografico: “Sulla traduzione intersemiotica”). torna al rimando a questa nota

Riferimenti bibliografici

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