Rischiamo di diventare zombi. Per questo li amiamo tanto


A cura di Michele R. Serra, Il Fatto Quotidiano, 9 settembre 2015.


Un semiologo alle prese con i “mostri” per eccellenza: “Perfino le riviste di filosofia ne parlano”

Non che i morti viventi siano tutti uguali. Possono essere male in arnese e barcollanti, oppure capaci di spostarsi a velocità-Ferrari; più o meno intelligenti, organizzati ed evoluti. Rimane però un denominatore comune: gli zombi non parlano. “È il motivo per cui ho deciso di portarli al Festival della Comunicazione”, confida con un sorriso Paolo Fabbri, il cui intervento a Camogli è previsto per venerdì prossimo. La scelta si addice al personaggio: semiologo da sempre appassionato di cultura pop (del resto, esiste un semiologo che non lo sia?), in quarant’anni di ricerca e insegnamento non ha mai avuto paura di mescolare la poesia ottocentesca di Alfred Tennyson con James Bond, o gli anni della Seconda Repubblica con la saga di Transformers.
Al di là della premessa ironica, però, è difficile negare che gli zombi negli ultimi quarant’anni abbiano scalato molte posizioni nell’immaginario contemporaneo. “Una volta la Z voleva dire Zorro, oggi significa Zombi”, chiosa il professore.

A parte i vampiri, gli altri mostri non sembrano stare al passo con il successo degli zombi.

Beh, non bisogna pensare che gli altri mostri siano stati espulsi dalla cultura popolare… ma lo zombi appare più contemporaneo, è diventato il mostro per eccellenza. Tanto che se ne parla anche in campi inaspettati: ho sentito con le mie orecchie filosofi del linguaggio che usavano i morti viventi per ragionare intorno al problema della coscienza umana. Perfino le riviste di filosofia parlano di zombi.

Ai tempi dei primi film di George Romero, si diceva che i morti viventi fossero una critica alla società di massa, un invito alla ribellione. Oggi?

Dal punto di vista politico, l’orda di zombi rappresenta un’idea pre-sociale di totale uguaglianza: non esistono donne, uomini, bambini e anziani, nessuna differenza di razza. È la messa in scena di una società senza comunità: si muovono insieme, eppure in realtà sono una massa di singoli, non c’è alcun legame tra loro. Ma ogni lettura politica rimane riduttiva.

Allora cosa li rende tanto affascinanti?

Una volta il mostro era uno scandalo morale, oggi è uno scandalo scientifico-tecnologico. Lo zombi nasce con l’antica paura delle grandi epidemie, ma la sua contemporaneità deriva dallo stretto legame con le nuove possibilità di intervenire sulla genetica umana: grazie alla scienza, gli uomini si migliorano… oppure diventano morti viventi, come nel videogioco Resident Evil. Nello zombi però c’è di più: una messa in causa radicale della vita, un’affascinante erosione dei limiti. Basta pensare al dibattito sull’eutanasia o sull’aborto per capire che l’inizio e la fine della vita occupano da sempre un ruolo molto importante all’interno della società, dell’immaginario e delle credenze popolari. Curioso pensare che proprio mentre gli zombi si facevano largo barcollando fino al centro della nostra cultura, la chiesa cattolica abbia un po’ lasciato in disparte l’idea della resurrezione della carne.

Se è vero che ci piacciono tanto quelle orde di corpi marci, stupisce invece che il genere splatter sia passato di moda.

Lo splatter in realrà è ancora presente, soprattutto nelle serie televisive. Però c’è una differenza fondamentale rispetto al periodo d’oro del genere: negli anni Ottanta lo splatter aveva senso – anzi, faceva senso – perché si opponeva ai comportamenti standardizzati, introduceva un’estetica marcia e cruenta che ai tempi era davvero sovversiva. Oggi anche quella si è diffusa nel mainstream, e quindi non può più essere contro.

Parlare con lei fa pensare che i semiologi passino il tempo a guardare telefilm o a giocare ai videogame. Sembra un lavoro divertente.

In realtà non funziona proprio così. Ho appena discusso una tesi sul videogioco DarkSouls, ma non ci ho giocato per le centinaia di ore necessarie a finirlo. Il problema fondamentale della semiotica è elaborare strumenti descrittivi e interpretativi, non fissarsi su un singolo oggetto. Però, ad esempio, i videogame rimangono un campo affascinante, anzi alcuni rappresentano quasi un sogno per i semiologi: offrono al giocatore la possibilità di poter saltare alcune parti, avvicinare o meno personaggi secondari, perfino intervenire sul tempo della storia… In pratica è la realizzazione dell’idea di Propp, il racconto come combinazione di elementi intercambiabili. E poi, i videogiochi sono pieni di mostri.

Ma… tra tutti i mostri, non è preoccupante che i più popolari siano anche gli unici cannibali?

Claude Levi-Strauss diceva che la pace tra gli uomini è la sospensione del cannibalismo. Forse gli zombi sono lì a ricordarcelo.

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