Scienza, quante storie!


Da: (con Licia Gambarelli), Ricerca e Storia, n. 22, 06/11/2002.
http://magazine.enel.it/res/arretrati/arretrati/fabbri_interv.shtml


Esperimenti come grandi romanzi, ricercatori come scrittori. Un’ipotesi affascinante sulla natura dell’indagine scientifica. Parla il semiologo bolognese.

«LA SCIENZA, in tutte le sue facce, dalla progettazione di un esperimento all’atto divulgativo, è abitata dalla narrazione». L’ipotesi, suggestiva, è di Paolo Fabbri, docente di Semiotica dell’Arte alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna. Una posizione emersa in un’accesa discussione in una tavola rotonda organizzata all’ultimo Spoletoscienza. All’incontro hanno partecipato, oltre a Fabbri, Arjun Appadurai, autore di Modernità in polvere (Meltemi 2001), Mauro Ceruti, filosofo, e Jerome Bruner, psicologo culturale autore di vari saggi e libri sulla narrazione tra cui La fabbrica delle storie(Laterza 2002).

Professor Fabbri, Jerome Bruner sostiene che «il modo più naturale di organizzare l’esperienza e la conoscenza è in forma narrativa»: conosciamo attraverso storie. In che modo il sapere scientifico è narrativo?

Fare scienza consiste nel produrre ipotesi sulla natura, nel verificarle, nel correggerle e in questo senso si può considerare un genere narrativo. La scienza, per fare un esempio, utilizza forme narrative quali gli esperimenti concettuali, i gedanken experiment, i quali hanno lo stesso valore concettuale di un esperimento di laboratorio, solo che l’esperimento di pensiero è narrativo.

Ci può fare un esempio concreto di come la scienza si presenti come pratica narrativa, come racconto?

Trasferiamo sempre i nostri tentativi di comprensione scientifica in forma narrativa. Prendiamo il paleontologo Stephen Jay Gould, che ho avuto l’onore di ricordare pochi giorni fa qui a Spoleto insieme a Jerome Bruner, Mauro Ceruti e Paolo Rossi: con la sua teoria degli “equilibri punteggiati” Gould ha inventato un nuovo “plot” narrativo per l’evoluzione biologica delle specie. Ci ha raccontato che i cambiamenti evolutivi avvengono durante brevi periodi di mutamento, in cui si verifica un’esplosione di forme biologiche, seguiti da lunghi periodi di stasi in cui non c’è evoluzione. Quello ideato da Gould è un plot che rimette in forma e che da una strutturazione temporale al concetto di evoluzione.
Le storie, in questo caso storie di scienza, hanno il grande valore di distogliere da un modo quotidiano di pensare le cose e di configurare nuovi modi di guardare il mondo.

Le storie sono prodotte da narratori che hanno un punto di vista. Il discorso è altrettanto vero nel fare scienza?

L’osservazione scientifica è vincolata dall’oggetto, ma le possibilità di spiegazione e senso non sono predeterminate. Lo scienziato ha l’obbligo di aprirsi al rischio narrativo: non va in cerca di una mappa dettagliata del territorio indagato, ma elabora punti di riferimento, nodi concettuali, per forzare il territorio, per scoprire nuove qualità e potenzialità del suo oggetto d’indagine. Lo scienziato, in fondo, come passa dall’esperimento in laboratorio al paper? Raccontando questo esperimento, dopo aver fatto esperienza narrativa.
Succede poi che il linguaggio che usa sia ammantato dalla logica dell’oggettività, ma credo che gli effetti di questo “oggettivismo scientista” a volte siano il prodotto non delle necessità del discorso scientifico, ma di una cattiva divulgazione.

Se il “fare scienza” è un processo legato ai soggetti e ai contesti, come si può risolvere il mito di una scienza oggettiva portatrice di verità universali?

Esistono ontologie regionali. Quello che è oggettivo è una costruzione localizzata ed è una condizione di verità che vale all’interno di un certo contesto. Si dice che la spiegazione è oggettiva mentre l’interpretazione è soggettiva: io non credo in questa distinzione. In qualche modo la relazione è semplicemente di questo genere: spiegare meglio per capire di più. Spiegare è indispensabile per capire. Il nostro “voler sapere” è dovuto al continuo lavoro di costruzione di mondi possibili che hanno attinenza con la realtà.

Dunque con la narrazione ne va dell’identità della scienza?

«L’identità della scienza non è sull’essere, è sul fare», dice Jerome Bruner, un fare attivo e passivo. Perché ci sia identità ci deve essere permanenza nel tempo, e che cos’è questo se non il racconto? Fare scienza è narrare la scienza, è progettarla, costruirla. La scienza non è qualcosa che esiste la fuori nella natura, non è un’essenza, ma è uno strumento della mente di chi conosce.

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