Semiosi: “facoltà di linguaggio e di letteratura”


Da: Fausto Curi, L’Isola del Nuovo. Cinquant’anni da Palermo e dal Gruppo 63. Interviste, riflessioni, giudizi, Mucchi Ed., Modena, 2013.


Tu sei un semiologo e la semiotica è addetta all’intero universo dei segni. Tu però hai un particolare interesse per i messaggi letterari. Si tratta di una tua personale vocazione, oppure, come da certi aspetti sembrerebbe di poter evincere, la semiotica italiana, francese e russa è particolarmente incline all’universo letterario?

Semiologo sì, e non pentito – da evitare, come il convertito – anche e soprattutto perché la disciplina è fuori moda, anche se sembra ancora vintage la critica alla semiotica.
Semiotica e letteratura: va premesso che il paradigma semiotico ha la lingua biforcuta, come la dantesca fiamma infernale di Ulisse e Diomede. Capita di rado, secondo lo storico delle scienze, T. Kuhn.
Il filone della semiotica che fa riferimento alla epistemologia di C. S. Peirce diffida del linguaggio verbale – si interessa di più alla visibilità, soprattutto diagrammatica. La corrente saussuriana, dove io bagno, ha come oggetto i sistemi di segni e trova la sua centralità nelle lingue. Queste vengono studiate non a livello lessicale o frastico – come fa la grammatica chomskiana – o di una retorica ristretta alle metafore – come nelle semantiche cognitive, ma a livello testuale. Per Saussure, lo ricordo, “Semiologia = morfologia grammatica, sintassi, Sinonimia, Retorica, stilistica, lessicologia ecc. (in quanto il tutto è inseparabile)“. A questa semio-linguistica, “marcata” discorsivamente, si riferisce fin dal 1966, R. Barthes, riassumendo le ricerche sulla testualità poetica e narrativa: “la specificità della letteratura la si può postulare solo all’interno di una teoria generale dei segni” (Critica e verità).
Sulla Poesia portavano infatti le prime ricerche di semiolinguistica letteraria, da R. Jakobson (la nota analisi degli Chats di Baudelaire a due mani con C. Lévi- Strauss è del 1962) a J. Lotman (la traduzione della Struttura del testo poetico uscì da Mursia, una collana diretta da L. Ancheschi e da L. Pareyson). Ed erano dedicati alla Narratività i primi numeri semiologici di Communications (Bremond, Barthes, Eco, Greimas, Todorov, ecc.). Per quella vena semiotica, esiste una “facoltà di letteratura” così come c’è una facoltà di linguaggio.

Tu non ha fatto parte del Gruppo 63, ne hai seguito però con una certa attenzione le vicende. Che giudizio ne dai oggi sia come semiologo sia come uomo di cultura?

Nel 63 ero laureato da poco a Firenze – dove frequentavo gli amici Pignotti e Miccini – e ricordo l’impressionante articolo di U. Eco su Rinascita, che figura nella recentissima antologia sul Gruppo 63. Contro l’asimbolia del discorso tardo-marxista il giovane Eco avanzava argomenti teorici validi ancora oggi, contro la risacca neo-realista – che taccia di “relativista” il costruttivismo relazionale della semiotica. Per un’indagine sulla situazione culturale – era l’impegnativo titolo – apriva un orizzonte di ricerche sulla cultura popolare e l’industria culturale in cui mi riconoscevo, con le mie curiosità e i miei impegni d’allora. Il ’63 era l’anno ruggibondo del Gruppo omonimo, ma anche di E. Presley, della minigonna e delle nuove mises dei Beatles; dell’assassinio di Kennedy e del discorso di Martin Luher King: I have a dream. Del Nobel per la chimica ad un italiano, Giulio Natta e l’Oscar e i Golden Globe a Nabokov e a Kubrick per Lolita. Era la temperie psichedelica della coscienza amplificata in moda e in musica. C’era un civismo della disobbedienza culturale e un tensione arrischiata alla sperimentazione della quale la generazione soprannominata “nettuniana” da Eco era l’ante-signana. Condividevo senza riserve l’attenzione ai metalinguaggi, allo sdoppiamento discorsivo che fa “rinvenire” la lingua. Attenzione necessaria ancor oggi nella crisi generale del commento, nell’opinionismo ossessivo dei blog, nei fattoidi volatili a cui il Gruppo 63 aveva proposto di sostituire la ricerca e la verifica in comune. Non è un caso se ho partecipato a Firenze, nel 67, all’assegnazione dell’effimero premio Fata – il controcanto dello Strega – alla peggior opera dell’anno – vinto, per il cinema, anche da Pasolini – e che venne sospeso per insorgenza editoriale.
Nel Gruppo 63, come nella bora triestina di Svevo, spirano molti soffi. Datano di quegli anni l’amicizia durevole con Eco, Barilli – poi colleghi al DAMS di Bologna – Furio Colombo e Nanni Balestrini; con lui continuo a condividere l’idea che vivere una società del rischio e del principio di precauzione, non significa la conclusione della sperimentazione culturale, politica e sociale. (Oggi solo la pubblicità, il mercato dell’ arte e la moda recitano la retorica del trasgressione!). Per questo ho collaborato e collaboro a riviste vicine al Gruppo, Quindici e ad Alfabeta 1 e 2 e al Verri. (Di Quindici mi attirarono i propositi del primo numero: essere “parziale e contraddittorio“, “diffondere dei dubbi e di rovinare alcune certezze” e asserire che “la letteratura è un punto di partenza per affrontare nella maniera più lucida possibile tutti gli aspetti – culturali e politici – della conservazione linguistica“).
Anche se non mi è mai riuscito, come giurato di diversi premi letterari, ad ottenere un premio per autori del Gruppo 63, penso che a questa esperienza, detta d’avanguardia, abbia provocato uno sciame sismico e uno spostamento tettonico nella letteratura; che sia un “classico”, che non finisce di dire quello che ha da dire.

Negli anni in cui il Gruppo 63 è al lavoro, la semiotica, in Italia, non è ancora nata: il primo scritto di Eco in materia, Appunti per una semiologia delle comunicazioni visive, è del 1967. Il Gruppo 63 era avido di teorie nuove e nuove discipline, o di teorie e discipline non ancora sperimentate in Italia come la linguistica di Saussure, l’antropologia di Lévi-Strauss, ecc., che poi usava molto liberamente. Tu credi che una conoscenza non superficiale della semiotica, se fosse potuta esistere, avrebbe potuto giovare alla cultura e al lavoro degli aderenti al Gruppo?

Permettimi qualche precisazione e rettifica. In Italia l’affermazione istituzionale della disciplina è del 1971, con il Centro internazionale di Semiotica e Linguistica di Urbino (fondato da C. Bo, P. Paioni e da me) e l’Associazione di Studi Semiotici (erano pres. G. Devoto, vice-pres. U. Eco, segr. A. Rossi). Il contributo di U. Eco, “Per una indagine semiologica del messaggio televisivo”, Rivista di Estetica, maggio-agosto, 1966, era il resoconto di un convegno perugino del 1965, a cui abbiamo partecipato con altri studiosi di media. Ma le conoscenze di semiotica strutturalista erano già largamente presenti nel personale, per così dire, del Gruppo 63, nel Verri o in Nuova Corrente. Poiché venivo da oltre Chiasso – nel ’65 ero élève titulaire de l’Ecole Pratique des Hautes Etudes di Parigi – riuscivo ad apprezzare la magistrale analisi di U. Eco su J. Bond (1965) e a convincermi che la prima versione dello strutturalismo veniva fraintesa dalla formazione storico-filologica italiana – che analizza i testi e non la discorsività (È il caso ancor oggi, dell'”ecdotica” dell’ultimo Contini). Anche il formalismo, di cui si sparlava, era in realtà lo studio delle morfologie dei contenuti culturali, cioè un semantica antropologica, che conviveva, contraddittoriamente, con la componente fenomenologica rappresentata da Merleau- Ponty. Questo equivoco ha impedito agli esiti teorici del Gruppo 63 di influenzare, – sopratutto nella riflessione sui generi, lo stile e l’immagine – l’apporto semiotico alle ricerche di poetica, narratività e di traducibilità tra diverse sostanze espressive. Il risultato sta in un recente giudizio di Lavagetto: la semiotica avrebbe dato agli studi letterari solo qualche acrobatica descrizione di brevi testi di poesia – una sofisticata parodia di se stessa. È quindi autorizzato il dimenticatoio o il passaggio in seconda visione. Mi sembra invece che il rigetto di una terminologia indefinita, – per mantenere le mani libere di un’interpretazione parametrica, tutta ad hoc ed eccetera e incapace di calibrare e integrare i piani di lettura – abbia contribuito alla lamentata liquidità del discorso critico.

Tu sei stato allievo e sei amico di Umberto Eco. Come vedi  la sua posizione odierna sulla relazione tra semiotica e letteratura nella sua scrittura teorica e romanzesca?

Amico di Umberto si, anche se Derrida ha scritto tutto un libro a partire dall’enunciato sconsolato:”amici non ci sono più amici“. Allievo no, per la poca differenza d’età, che gli anni assottigliano. Quanto a quegli anni “ruggibondi”, apprezzo ancora i suoi luccicanti articoli nel Diario minimo del 63. E per l’esperienza  di allora, rammento che al mio ritorno dall’EPHE l’ ho assistito con un seminario strutturalista nell’insegnamento fiorentino di Decorazione ad Architettura (1966). L’ho fiancheggiato poi nei tempi della guerriglia semiologica e ho recensito su Quindici il suo primo libro di semiotica.
Alla tua domanda risponderei che oggi Eco ha abbandonato le pantomime della razionalità – l’abduzione ecc. – e mira a un doppio riconoscimento: come romanziere storico, (post)”manzoniano” e come filosofo del linguaggio – tale è per lui la semiotica teorica, improntata a C. S. Peirce. È mia privata opinione, e me ne sono spiegato, che nella narrazione – dove padroneggia le regole di molti generi – Eco risolva spesso i rompicapi della sua teoria, versione epistemologica del suo capolavoro estetico l’Opera aperta (v. la fuga illimitata e asintotica degli interpretanti). Di semiotico permane un’originale moralità fenomenologia (non una morale!) del segno; prospettata in una luce erudita e verbivora. È, per giovarsi d’una formula sua, un disdicevole salto del gambero?  Io ho smarrito  il piacere erudito della lettura dei suoi racconti: il pastiche con cui riesce ancora a mascherare il gioco ma non più il soggetto – una delle regole del Gruppo 63. È demerito mio?

La tua ammirazione per la poesia di Elio Pagliarani si spiega anche con il fatto che siete tutti e due romagnoli (non vi sarebbe, naturalmente, nulla di riprovevole), o è del tutto indipendente da tale circostanza?

Avanti negli anni, Pagliarani, nel suo blasone autobiografico, s’era accorto, come me, che essere romagnolo “qualche significato ce l’ha“. I comuni ricordi di Rimini sotto le bombe alleate, i fuochi e dei cimiteri globalizzati della Linea Gotica? Le immagini perdute della spiagge in “A tratta si tirano“? I patemi teatrali: “Pietà di noi e orgoglio con dolore“? O la pietrosa, savoranoliana invettiva degli Epigrammi ferraresi: “Tutte le volte che Dio sta per punire i peccati del mondo manda avanti la parola“? Penso più all’amaro verso che ritorna nella Ballata di Rudi: “Ma dobbiamo continuare/ come se/ non avesse senso pensare/che s’appassisce il mare“, che vale per me il più bel verso della letteratura francese: “Elle est retrouvée. /Quoi?- L’Eternité /C’est la mer allée /Avec le soleil” (Rimbaud).
Per la sgualcita semiotica letteraria il contributo offerto da Pagliarani “fu certificato per molti segni” (Ancora da Savonarola): la relazione tra il verso e l’immagine, (“Le parole hanno la sorte dei colori“, Rudi), ma più ancora la prosodia e il genere. Elio sapeva che “…le rime paion fatte a denti,/ e mostra pettinar vari costumi” (Fecaloro). E che era necessario uscire dalla “fisarmonica spalancata” del suo verso lungo per “riacquistare facoltà di articolazione più variegata” (Esercizi platonici); “Il verso si fa compiacente, niente più facile di questo, ma io lo spezzo” (Come la luna l’alone), fino alla prosa scandita di Walter che va in pensione? None, none. Più rilevante dal punto di vista della linguistica saussuriana, divaricata tra langue e parole, l’asserto che “arricchire il vocabolario non significa necessariamente arricchire il discorso poetico” e che c’era urgenza di ripensare le forme intermediarie di genere, come il poemetto e la poesia didascalica e narrativa (la Sintassi e i generi, 1959). Dare accoglienza e cittadinanza a nuove parole, ampliare l’area sintattica non basta. Il verso libero non è free, gratuito. Per Pagliarani occorreva ed occorre sperimentare nuove norme: “recitativi drammatici pluringuistici”, come il dramma in versi (T. S. Eliot) – su cui ha molto riflettuto J. Lotman a proposito dell’E. Onegin di Puskin – al fine d’imprimere al “discorso tensione, durata, ritmo diversi“, cioè altra “tonalità” e “struttura“. Un genere diverso che “imponesse strutturalmente barriere espressive all’io di chi scrive, che privilegiasse l’oggettività“. La pratica teorica – un organon, non un canone (Kant) – dell’enunciato e dell’enunciazione.
Ps. Prenderei se non le distanze, almeno un certo agio nel suo giudizio su Pasolini, sul cui narcisismo e decadentismo di narratore concordo piuttosto con A. Guglielmi, “Pasolini maestro di vita”, Il Verri, 1960.

Le indagini dedicate alle opere di poesia e di narrativa degli autori del Gruppo 63 hanno colpevolmente ignorato la semiotica, oppure ne hanno tenuto conto per quel poco che poteva spettare a dei critici di letteratura?

Una risposta sensata implica che si spartisca il giudizio o l’auspicio dell’ultimo Barthes, 1974: “la letteratura non può più essere Mimesis e neppure Mathesis, ma soltanto Semiosis, avventura dell’impossibile linguistico, in un parola, Testo” (R. B. di R. B).
E che ci senta non in sinergia, ma in allergia con la critica epitetica specializzata nel bricolage di aggettivi-marca; critica di gusto che fa promozione culturale, prende il linguaggio corrente per universale e schiva la diversità di parola.
Detto questo, mi spiace che per molti soffi del vento del ’63 la semiotica non sia stata falsificata, ma messa soltanto fuori corso, come si dice della lira dopo la conversione all’euro. (È stato l’ultimo Calvino, sotto l’influenza parigina dell’ULIPO di Queneau ad integrare la combinatoria narrativa di Greimas e poi di Ricoeur). Questa postura irriflessa ha impedito agli autori del Gruppo di accogliere gli ulteriori sviluppi della semiotica: tra i dossi e le buche del percorso, la ripresa fenomenologica del sensibile e del patetico e soprattutto l’integrazione ai modelli delle istanze d’enunciazione (Benveniste). Il risultato di queste discrepanze e lacune è davanti agli occhi e nelle orecchie di tutti: l’insalata USA dei Cultural Studies per cui everything (theoretical) goes: complessità per dialettica, polisemia per ambiguità, storytelling per narratività, opposizione per differenza, metafora per (tutta la) retorica, enunciazione per soggettività e così via, lepidamente; a effetto e/o a vanvera. Mala sorte del prefissi: “meta”, non è un livello articolato del discorso, ma un indice quantitativo – il computer è una metamacchina che stiva metadati!; “post-“, come in postmoderno è un indicatore cronologico e non, come intendeva il suo sténtore Lyotard, un ripensamento della fondazione concettuale del modernismo, ecc. Transeat.
Credo però che esista un luogo dov’è praticabile il confronto delle lingue agli altri sistemi di segni – una “scienza degli effetti di linguaggio“: la letteratura comparata, dove i problemi di tradizione, traduzione (linguistica) e traduzione (semiotica) sono vivamente sentiti, se non proprio riflettuti. Le improvvise giustapposizioni ridestano la parte ridando vita al tutto. In tempi di globalizzazione, l’esperienza testuale non dev’essere quella dell’uniformità – non si può dir di tutto senza tautologia – ma dell’eterotopia. (Nel pensiero della Cina classica, meno ossessionato di noi dall’ontologia e dalla trascendenza e più dalla relazione intersoggettiva, la figura retorica centrale non è la metafora, ma l’allusione). La traversata delle scritture per dire qualcosa di sensato sulla singolarità e la molteplicità dei sensi dovrebbe essere almeno “profilata”. Allora la semiotica potrebbe seguire, come una guida? Quale semiotica? Quella che per RB dovrebbe avere “qualche rapporto con la passione del senso: la sua apocalisse e /o la sua utopia“. Legata con doppio filo (e segno) ad una letteratura capace di “prendersela a cuore”; e anche “a male”.

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