La semiotica? Ci serve anche a capire l’Isis


Da: Donato Redatto, La Gazzetta del Mezzogiorno, venerdì 27 marzo 2015, p. 18.


Intervista con Paolo Fabbri nel centenario del grande critico francese
«Perché l’Italia non ama più Barthes»

«L’incomprensione radicale della dimensione simbolica del mondo, il positivismo e il naturalismo corrente ci fanno leggere l’azione dell’Isis, con la sua capacità semiotica di attrazione e comunicazione efficace, come quella di un gruppo di fanatici diseredati che non hanno altra via che la lotta armata. Mentre non è affatto così». Paolo Fabbri è, insieme a Umberto Eco, il Lancillotto della semiotica, cosa di cui tutti parlano senza saper bene cosa sia.
«Una cosa bizzarra. Se alla stessa persona dici che ti occupi di neurologia molecolare costui ti guarda con interesse, annuendo; se gli dici che lavori nell’ambito della semiotica ti fiocina con uno sguardo interrogativo. Io, dalla mia, ho pronta la risposta: non si preoccupi, la semiotica è un pesce esotico che nuota nella profondissima fossa delle Filippine, molto, molto lontano da qui».
Proprio così: pochi sanno cos’è la semiotica in Italia, eppure sembra che in molti abbiano deciso che è ora di farla finita con questa pseudo-scienza! – che impiega gli stessi metodi con Topolino e Dante, e sviscera con eguale virtù l’arte di far cucina con l’iconografia del Giudizio Universale.
L’occasione è rappresentata dai 100 anni dalla nascita di Roland Barthes (Cherbourg, 12 novembre 1915 – Parigi, 26 marzo 1980), fino a una manciata di anni fa venerato come il guru dei semiotici per antonomasia, per il pop un po’ Platone e un po’ Freddy Mercury. Oggi, invece, a prendere sul serio Alfonso Berardinelli, è una sagoma da pigliare a freccette. Berardinelli spiega, col senno di poi, che «la semiologia, passepartout del critico letterario e del critico sociale, sedusse presto Barthes» e gli fece conoscere figure intellettuali importanti – Lévi-Strauss, Lacan, Althusser. «Ma fu proprio la semiologia a spegnere, limitare o paralizzare le capacità letterarie di Barthes». Di più: che la lingua di Barthes «soffrì di denutrizione, restò prigioniera in una rete di astrazioni», e che, insomma, «oggi in Barthes sorprendono più le chiusure idiosincratiche che le aperture avventurose», e che, ecco, il suo orizzonte intellettuale «finisce per apparire ristretto, quasi provinciale e il suo successo internazionale quasi inspiegabile» («Il Sole 24 Ore», 1° febbraio 2015).
Paolo Fabbri, che di Barthes è stato allievo e giusto oggi 27 marzo alla Biblioteca di Misano Adriatico ne ridiscuterà i Frammenti di un discorso amoroso, non ci sta. Anzi non sa se essere scandalizzato o ridere.
«La ragione dell’attacco a Barthes è molto semplice: dall’800 la cultura occidentale è positivista – ragiona Fabbri – mentre la semiotica pensa per eventi e significazioni. Il realismo che ci attanaglia non ci permette l’accesso a una dimensione simbolica. Così, ad esempio, come può un positivista comprendere il sacramento dell’eucarestia, che opera ex-opere operato? Pensa sia un’illusione, e magari ha ragione, ma non ne capirà il fenomeno culturale».
Barthes, oltretutto, rompe le uova nel paniere dei vetero marxisti.
«Beh, sì. Barthes, che è sempre stato per una società senza classi (s’intenda: era un brechtiano) ci insegna che la storia è racconto. Apriti cielo, Carlo Ginzburg ha scritto che se le cose stanno così, allora si apre la via al negazionismo dell’Olocausto. Eppure, Barthes ha detto una cosa semplicissima: che la storia è discorso storico ed è chi parla. Allora si può parlare dei fatti storici scrivendo un romanzo, compilando un trattato, oppure costruendo un diagramma».
Un concetto chiaro come il sole, ma che faceva terrore.
«I positivisti e gli scientismi presero questa come una dichiarazione definitiva: allora la storia è solo un accumulo di chiacchiere. In Italia, poi, la critica ai fatti duri & puri ha avuto come ripercussione politica la crisi della vulgata marxista. Un effetto che non hanno ancora perdonato a Barthes».
Così, accade che in Francia per il centenario della nascita del semiologo escano miriadi di pubblicazioni e siano in atto mostre importanti. Alla Bibliothèque nazionale de France fino al 26 giugno c’è una rassegna di manoscritti su «Les écritures de Roland Barthes». Mentre in Italia?
«In Francia e altrove si fa anche musica: Bjork ha recentemente accennato al progetto di trarre un’operetta dai Frammenti di un discorso amoroso. In Italia esistono invece quelli che chiamo “i silenziatori”. Personaggi che a un certo punto si alzano, impettiti, con il viso severo, e dicono, “ma no, questa è roba vecchia, torniamo alle cose serie”. Perciò, si torna a far nulla».
Decisamente in controtendenza è l’editore Guaraldi, che da qualche mese ha firmato un accordo con il Centro di Scienze Semiotiche di Urbino diretto appunto da Paolo Fabbri, dando vita a una collana di agili eBook (con distribuzione cartacea on demand, a 6,00 euro cadauno) dedicata proprio ad alcuni testi fondamentali dei «mostri sacri» della semiotica internazionale: da Lotman a Uspensky, da Lyotard a Baudrillard, da De Certeau a Bastide, e poi Greimas, Derrida, Marin, Goffman ecc. Il nome della collana? In Hoc Signo! E tutti i testi ripescati da Paolo Fabbri delle conferenze originali tenute dai rispettivi autori a Urbino negli anni d’oro, sono ora pubblicati in una raffinata veste editoriale nella loro lingua originale contando sulla distribuzione planetaria di Amazon, Barnes & Noble, Kobo. A proposito di «provincialismo», non sarà per questa «difficoltà linguistica» che da noi qualcuno sostiene che la semiotica è passata di moda?

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