Semiotica una e bina


Intervista con Sergio Benvenuto, in Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, 2001.
Opera realizzata da Rai-educational in collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici e con il patrocinio dell’Unesco, del Presidente della Repubblica Italiana, del Segretario Generale del Consiglio d’Europa.
Per ulteriori informazioni: www.emsf.rai.it.


La nostra conversazione verte sulla semiotica o semiologia. Alcuni si chiedono se semiotica o semiologia siano la stessa cosa o due cose diverse…

Semiotica e semiologia sono due discipline che studiano il funzionamento dei segni e della loro significazione nella vita culturale e sociale. La differenza fra i due nomi ha una valenza di tipo storico (prima si è parlato di semiologia, in Europa almeno, poi di semiotica), ma anche applicativa e di riflessione di metodo. Dal punto di vista applicativo le discipline semiotiche tentano di studiare il funzionamento della significazione dal punto di vista della conoscenza; la semiologia tenta di studiare i segni. In altri termini la semiologia è più orientata verso uno studio dei linguaggi e delle categorizzazioni segniche: la differenza fra un segno verbale, un segno visivo, un gesto o uno spezzone di film; invece la semiotica si interessa di più ai sistemi, ma anche ai processi del significare.

Possiamo cercare di fare una ricostruzione storica di queste due branche che sono connesse, ma in un certo senso sono anche distinte. Dove, quando e in quale contesto culturale nascono queste due scienze?

La riflessione sulla problematica del segno, e specialmente del segno linguistico, accompagna tutta la cultura e tutta la filosofia occidentale. Tuttavia, dal punto di vista della nascita di una disciplina autonoma (con intenti scientifici di classificazione e di conoscenza metalinguistica), questa si costituisce insieme alla linguistica moderna come disciplina filosofica, ma soprattutto scientifica, nel periodo intorno alla fine della Prima Guerra Mondiale con l’insegnamento di Ferdinand de Saussure. Nello stesso tempo, il successo delle discipline semiotiche, cioè il tentativo, almeno all’inizio, di estendere ed espandere i metodi con cui la linguistica studia il linguaggio ad altri sistemi segnici, permette di tornare con interesse sugli studi filosofici e linguistici che erano precedenti alla scoperta saussuriana. Da questo punto di vista, c’è oggi una disciplina molto feconda di studi della pertinenza delle ricerche semiotiche, di filosofia del linguaggio e di filosofia dei segni, per cosí dire, che risale alla cultura greca secondo una classica tradizione della nostra storia della filosofia.

In questo periodo, cioè verso la seconda metà dell’Ottocento, oltre a Ferdinand de Saussure, emerse Charles Sanders Peirce, fondatore della semiotica negli Stati Uniti. Peirce fu forse il più grande pragmatista americano, fondatore probabilmente di una tradizione che continua fino ad oggi. Una delle attività di questo filosofo (che è anche un grande epistemologo, soprattutto un grande teorico della scienza e della conoscenza) fu quella di organizzare tutti i sistemi di segni in una maniera altamente complessa e differenziata.

Come si differenzia l’approccio peirciano, la classificazione e i funzionamenti dei segni, dall’approccio saussuriano, quindi la semiotica di Peirce dalla semiologia saussuriana?

Peirce è eminentemente interessato ai problemi della conoscenza e quindi centra la propria attenzione su una problematica di tipo classificatorio, ma anche di modalità conoscitive epistemologiche, gnoseologiche: per esempio, centra la nozione di segno sulla nozione di trasferimento e di inferenza. Per Peirce un segno è una cosa che sta al posto di un’altra cosa sotto qualche rispetto o qualche altra proprietà. In altri termini, il segno è sempre relazionale, ma per passare da un segno ad un altro segno, sono necessarie delle operazioni cognitive ed epistemologiche, nel caso particolare, delle inferenze.

La teoria peirciana è una teoria della trasposizione tra segno e segno; in questo senso, il significato è non intrinseco, ma soltanto traspositivo, però attraverso modalità inferenziali classiche. Per Peirce un allargamento delle modalità aristoteliche dell’inferenza (per esempio, la deduzione e l’induzione) porta a definire come specificamente semiotici dei processi, delle operazioni del pensiero, di tipo abduttivo, in cui, senza partire né da leggi generali per arrivare a fenomeni particolari, né da fenomeni particolari per inferire leggi generali, con un fenomeno combinatorio, con una ipotesi ipotetico-deduttiva, si cerca di passare da un segno all’altro, anticipando a volte delle leggi generali ipotetiche e poi verificandole.

Potrebbe fare qualche esempio sull’abduzione in relazione alle due altre inferenze, cioè deduzione ed induzione, in modo da far capire qual è la novità di questa proposta di Peirce?

Mentre la deduzione è una disciplina tautologica (esempio: noi sappiamo che tutti gli uomini sono mortali, poi sappiamo che Socrate è un uomo, quindi la scoperta che Socrate è mortale non ci dà nessuno stupore), l’induzione è necessariamente limitata dal punto di vista della conoscenza. Per esempio, sappiamo che l’insieme di tutti i dati del mondo non potrà mai costituirsi in una legge generale, perché è sempre possibile aggiungere un nuovo dato differenziato che smentirà la nostra ipotesi.

Professore, può fare qualche esempio di induzione classica, la più banale e semplice?

Beh, poiché tutti i corvi che abbiamo incontrato fino ad oggi sono neri, noi abbiamo una legge del tipo: tutti i corvi sono neri. Ma se qualcuno arriva un giorno con un corvo bianco, la legge decade immediatamente. Quindi la pretesa di verità dell’induzione è limitata a una smentita che può darsi su un solo esempio. Qual è il valore dell’abduzione? Questa ipotesi, che ha molto fruttificato nel pensiero per esempio di Umberto Eco e ne ha costruito, insieme alla teoria dei mondi possibili, una delle basi della propria riflessione, rappresenta un modo di giungere alla verità non per via gradualmente induttiva, ma attraverso alcuni dati insufficienti per creare una legge. Si fa, cioè, l’ipotesi di una legge generale e si ridiscende poi per provare i dati. Un esempio che Eco fornisce spesso (ma che potrebbe essere estrapolato dal pensiero di Peirce), è la pratica del romanzo poliziesco, dove da pochi indizi si anticipano le generali, culturalmente e generalmente valevoli o naturalmente valevoli, e da queste poi si arriva alla verità. Diciamo: un marito uccide la moglie perché ha bisogno dei suoi soldi.

Gli interessi e le passioni costituiscono fin da Aristotele un eccellente modo di ragionamento. Ero arrabbiato, dunque… Questo aspetto di cui abbiamo parlato fino adesso, è la problematica di Peirce, cioè la riflessione sui segni in quanto rinvio a base inferenziale. La semiologia parte da un punto di vista assolutamente diverso e la convergenza con la semiotica peirciana costituisce il problema. La semiologia parte da una base linguistica e si definisce, almeno nelle prime applicazioni (quelle, ad esempio, di Roland Barthes) come una translinguistica, cioè come un modo di applicazione di categorie del linguaggio ad altri sistemi di segni, per renderli intelligibili. Si parla di una sintassi dell’immagine per definire i modi di relazione che le immagini intrattengono fra loro. Ancora, si parla evidentemente di metafora, nozione elaborata all’interno di una teoria linguistica allargata, retorica o letteraria, per estrapolarla dalla gestualità.

In altri termini, all’inizio il primo movimento semiologico è di estrapolazione e di estensione delle conoscenze linguistiche. Si tenta, in maniera molto forzosa, di applicare analogicamente a sistemi di espressione diversi dal linguaggio categorie elaborate dal linguaggio. Per esempio: esistono dei cinemi, esattamente come esistono dei fonemi, cioè esistono delle unità visuali del cinema identiche alle unità sonore del linguaggio? Evidentemente si tratta di operazioni speculative ed ipotetiche che vanno sottoposte alla smentita e alla verifica. Per un lungo periodo, questo tipo di ipotesi iniziale di verifica translinguistica ha costituito un documento di applicazione di una certa importanza. Questo significava però che nell’ambito semiologico, in qualche misura ogni segno veniva trattato più o meno come una parola, anzi, per essere più precisi, come un elemento del lessico, perché la semiologia si voleva come una lessicologia di segni e quindi come tale applicava prevalentemente alla lingua nozioni di tipo lessicalista.

Uno sviluppo radicale di questo secondo aspetto della semiotica, cioè la semiologia, è stato costituito dallo studio delle teorie narrative. Questa ipotesi non è soltanto una ipotesi letteraria: si può sostenere che nella relazione linguaggio-realtà, segni-realtà, il problema di base non sia quello della relazione tra un segno, una parola, e il reale, ma che l’atto di riferimento, che coi segni e col linguaggio noi compiamo rispetto alla realtà, è un atto che viene compiuto eminentemente a livello di atto segnico o di atto linguistico, cioè che la referenza passa attraverso azioni linguistiche di riferimento che sono di taglia molto diversa dalle parole.

Può portare qualche esempio di narrazione, di analisi del racconto, che faccia capire cosa significhi questo in pratica?

L’analisi narrativa è cominciata in semiotica quando Greimas, semiologo lituano che viveva in Francia, ha applicato una tecnica di ricostruzione logica interna alla scoperta di Vladimir Propp, un folklorista russo, che, nell’ambito del sistema formalistico, aveva tentato di ricostruire una specie di morfologia idealtipica delle favole; cioè aveva tentato di ridurre gran parte delle favole del folklore russo, un certo genere di favole e racconti di magia, a una serie regolata di disposizioni di elementi successivi. Greimas ha riorganizzato questa tipologia empirica e ha tentato di estrapolare una serie di comportamenti, di azioni e di interazioni di azioni, cioè di intrighi, che sarebbero antropologicamente generali.

Questa operazione è stata di grande importanza perché, da una parte, ha staccato immediatamente la problematica della significazione dall’aspetto lessicale o translessicale e, dall’altra parte, lo ha posto deliberatamente a livello di significato e a livello di una sintassi degli elementi del significato, intendendo in questo caso per sintassi le regole di azione che legano fra loro le componenti narrative. Spostare l’accento dagli elementi segnici, dalle loro articolazioni per codici, cioè per paradigmi costruiti per sostituzione, all’importanza invece della combinatoria degli elementi, ha costituito, secondo me, un progresso considerevole persino per la definizione del riferimento, che preoccupava più i logici non semiotici, nel senso che l’atto di riferimento al mondo è dunque, come dicevo, non un atto per cui da una parola si rinvia alla cosa, da un segno alle cose, ma un atto configurante, come direbbe Ricoeur, per cui un’organizzazione di senso, narrativamente articolata, rinvia a un mondo, che è semiotica.

Effettivamente vedendo le cose dall’esterno, il fatto che l’interesse della semiologia si sposti da una dottrina del segno alla narrazione potrebbe far pensare che in realtà la semiologia si occupa sempre meno della questione del senso, del rapporto significante-significato, e si occupa sempre più in qualche modo di costruire dei paradigmi; in effetti è molto difficile intendere che cosa possa voler dire “un racconto ha un senso”. Quindi in realtà c’e uno spostamento di accento che va, mi sembra di capire, da una concezione di filosofia del segno verso qualche altra cosa, che ha a che fare, forse, con altre dimensioni. Allora, in questo caso entra in gioco quello che dagli anni Sessanta in poi si è chiamato “strutturalismo”.

Secondo lei, lo “strutturalismo”, che è molto legato all’esperienza della semiotica, ha a che fare con questa svolta per cui ci si interessa sempre di più ai racconti, oppure sono due cose indipendenti?

No, affatto. Il problema è che lo “strutturalismo” è un movimento generale affermatosi in diversi tipi di scienze (scienze umane e non), che mette in evidenza più che i termini, la problematica della relazione fra i termini. Se si accetta questa definizione dello “strutturalismo”, la cosa interessante della semiotica è di aver tentato di estendere la problematica delle relazioni non solo alla forma, come il “gestaltismo” aveva fatto, per esempio, ma prevalentemente alle questioni dei contenuti. L’idea di fondo è che il contenuto, non la realtà, ma il contenuto del segno è anch’esso articolato. E questo tipo di articolazione può essere descrivibile sia in termini paradigmatici, cioè per opposizioni e correlazioni, sia in termini sintagmatici, cioè per movimenti e trasformazioni.

Pare che sia appunto fondamentale questa distinzione fra il “sintagmatico” e il “paradigmatico”. Forse sarebbe il caso di spenderci qualche parola in più…

Una volta accertato il modo con cui noi parliamo, è limpido che il nostro modo di esprimerci è di tipo sequenziale. Le parole che io ho appena pronunciato non sono più presenti nel discorso e il mio discorso si configura come una sequenza di segni il cui significato appare a posteriori. Ora, un altro modo di organizzazione del segno è quello evidentemente analitico di una scomposizione della sequenza del discorso e della organizzazione di categorie che, per esempio, permetterebbero dopo una lunga conversazione di classificare tutti insieme tutti gli aggettivi che ho usato, tutti i verbi che ho usato, tutti i nomi che ho usato, tutti gli articoli che ho usato.

In questo caso tutte queste categorie sintattiche sarebbero dei paradigmi che formerebbero, diciamo così, le riserve all’interno delle quali io opero una scelta per disporle sintagmaticamente. Si tratta di un fenomeno molto importante (il paradigma) perché possiamo dire che quello che noi conosciamo, la nostra conoscenza linguistica, archiviata o no nel nostro cervello o in generale in quella rappresentazione che sarebbe più comodo chiamare mente, è di tipo paradigmatico. Noi abbiamo una serie di conoscenze di tipo paradigmatico e la sintassi è in qualche misura un modo di creazione di ritmo, cioè di disposizione, di scansione e di processo, che introduce nuove relazioni di senso sui paradigmi che sono a nostra disposizione e che costituiscono in qualche misura, come diceva Saussure, il “tesoro” della nostra lingua.

Se possiamo tornare ai rapporti con lo “strutturalismo”, com’è che a un certo punto il destino della semiotica sembra legarsi in modo intimo alla fase strutturalista nelle scienze umane? E che apporto la semiotica ha dato ad altre scienze umane nella loro fase strutturalista o nelle loro tendenze strutturaliste?

La semiotica è una disciplina che, studiando i metodi di costruzione, di distruzione e di disposizione del significato, evidentemente ha posto le scienze dell’uomo come suoi elementi privilegiati. Ma anche le scienze naturali, nella misura in cui vengono scritte, vengono descritte; in questo senso l’oggetto della semiotica, che è il linguaggio, permette di accedere non alla realtà in diretta, ma al modo con cui questa realtà viene descritta dalle scienze naturali. In ogni caso, tutti i fenomeni di costruzione di significazione possono essere passibili di un trattamento semiotico. Il fatto che lo “strutturalismo” si sia definito, diciamo intorno agli anni Sessanta, come una disciplina che inaugurava una maggiore attenzione alla problematica di codice, paradigmatica, piuttosto che a quella storicista, di tipo sintagmatico, il fatto che lo “strutturalismo” per un certo periodo abbia messo in evidenza apertamente le dimensioni relazionali fra i segni, ha rappresentato la base di incontro con la semiotica.

La semiotica tuttavia si è subito definita come una disciplina più ambiziosa, ma in un certo senso più limitata: più ambiziosa perché, porsi la questione di significato vuol dire, in altri termini, coinvolgere gran parte della riflessione filosofica sulla costituzione del senso. Perciò parte della semiotica ha preso un andamento francamente filosofico. C’è oggi una filosofia del segno che non utilizza le problematiche tecniche dell’analisi degli strumenti semiotici, esattamente come c’è una filosofia del linguaggio che può essere condotta ignorando nella maniera assoluta le categorie costruite dalla linguistica.

E per quanto riguarda l’altra semiotica? Mi pare infatti di capire che ce ne siano di due tipi, e che lei abbia parlato per ora solo di una branca…

L’altra ipotesi della semiotica è quella di porsi come una metodologia per le scienze dell’uomo, cioè di porsi come un metodo che procura delle organizzazioni concettuali, che sono in parte costruite a partire dai risultati e dalle scoperte nelle scienze dell’uomo – psicoanalisi, antropologia, sociologia, psicologia – ma che dall’altra parte utilizza queste scienze dell’uomo come fonti di concetti, che possono essere organizzati in modelli e poi riapplicati con criteri di scoperta alle scienze umane. Di qui una gerarchia che descriverei facilmente in questo modo: il linguaggio semiotico ha uno strato teorico, uno strato di metodo e uno strato applicativo. Lo strato applicativo è più vicino alle conoscenze dei testi – intendo per testo anche quelli gestuali, visivi, cinematografici, eccetera – un livello superiore, metodologico, che controlla, per così dire, e rende coerenti fra loro i metodi delle applicazioni, e un livello teorico, che in qualche misura riflette sulle categorie fondamentali che sono all’opera nel riconoscimento di questi metodi.

Fornisco un esempio immediato, che è quello di soggetto-oggetto: definire oggi il soggetto-oggetto è assai arduo, a meno che non si accetti una interdefinizione tra i due elementi e a questo punto lo studio dell’interdefinizione di concetti come, per esempio, azione-passione, azione-comunicazione, si costituiscono come delle coppie che fanno parte del livello teorico. Osserveremo senza difficoltà che il livello teorico (riflettere sulla azione o la passione, sulla comunicazione o l’azione, sul soggetto o l’oggetto) è in realtà già un livello filosofico; in altri termini, la teoria è in presa con una definizione filosofica.

Che ruolo ha l’opposizione nella semiotica?

Siccome la semiotica è una disciplina fondata sulle relazioni, evidentemente le grandi categorie logico-relazionali, quali sono quelle estrapolabili dal linguaggio e precisamente dalle preposizioni, “e”, “o”, e cosí via, costituiscono caratteri privilegiati del suo trattamento. La dimensione sintagmatica privilegia la relazione consequenziale (la “e”) mentre la struttura paradigmatica privilegia le opposizioni; naturalmente sulla natura e la complessità di queste opposizioni sono stati costruiti da una parte discorsi filosofici che le fondano o che le revocano, ma dall’altra parte, strutture metodologiche che consentono di organizzarle e di semplificarle. Per esempio, l’investimento oppositivo, per cui il bianco e il nero sono opposti, viene immediatamente sfumato se si pensa che ci sono categorie come il non-bianco e come il non-nero, oppure che ci sono categorie che possono permettere di riunire insieme categorie come “né bianco né nero”o “bianco e nero”.

In altri termini, a livello metodologico la teoria consente di produrre modelli esagonali, che a partire da una opposizione minima sfumano e rendono complesse le opposizioni. Quindi sarebbe un errore dire che la semiotica è una disciplina essenzialmente binaria. I principi delle opposizioni sono binari, ma gli sviluppi e le applicazioni metodologiche giustamente vanno molto oltre. L’affermazione iniziale di Jakobson secondo cui ogni forma di intelligibilità si faceva per opposizione, risale ad una opposizione grammaticale e lessicale fondamentale. Tutto il lessico è organizzato per sinonimia o per antonimia, cioè per elementi con consonanza di significato o con opposizione di significato.

Quando Saussure parla di semiologia, effettivamente si parte dall’idea di un sistema, cioè si dà come presupposto di una linguistica o di una semiologia scientifica, il fatto che questo insieme di relazioni fra i segni costituisca un sistema. Ora il concetto di sistema ha avuto un grandissimo successo nel nostro secolo, anche fuori della linguistica e della semiotica. In molte discipline anche in antropologia, in biologia, in un certo senso si parla del primato del sistema. Che differenza c’è fra questo sistema, come, per esempio, se ne parla in alcune tendenze sistemiche, e quello della semiologia o semiotica?

Direi che la tesi fondamentale della semiotica è che non c’è mai un solo sistema ma ce ne sono parecchi in una società. E che anzi in una società, per definizione, la significazione è caratterizzata da diversi sistemi fra loro in condizione di trasposizione e di traduzione. Questa versione della semiotica è a mio avviso capace di conservare gli aspetti di codice (cioè di organizzazione sistemica del linguaggio) e di rendere, da una parte, conto della complessità di interazione tra codici e, dall’altra parte, altri tipi di codici e l’attività di traduzione fra questi.

Codice e sistema sono per la semiotica la stessa cosa?

No, sistema e codice non sono la stessa cosa. Il sistema può essere puramente paradigmatico, puramente disgiuntivo. Per esempio, tutte le vocali della lingua italiana sono un sistema, eppure non c’è incluso in questo sistema il fatto che in italiano non si può mettere la “n” davanti alla “p”. L’introduzione della regola che non si può mettere “n” davanti alla “p” o che non si possono mettere quattro consonanti di seguito all’inizio di una parola che precede una vocale, sono regole che vengono introdotte, che fanno parte del codice, ma che non sono sistemiche. Cioè, per la definizione del sistema ci sono sufficienti criteri distintivi, per capire cos’è un codice è necessario introdurre le regole di combinazione.

In altri termini, la semiotica studia simultaneamente l’aspetto paradigmatico e l’aspetto sintagmatico, cioè l’aspetto di disgiunzioni categoriali ma anche delle regole di compatibilità ed incompatibilità combinatoria. Questa è quindi una differenza fondamentale. L’altra differenza fondamentale è che la semiotica studia lingue naturali, oppure sistemi di segni naturali, come la gestualità dei sordomuti, voglio dire. È evidente che lo studio di sistemi di segni naturali provoca un’alterazione radicale della conoscenza, perché una lingua non è solo un sistema, né un codice è un sistema di sistemi, anzi un codice di codici.

Però si potrebbe obiettare che la semiotica si occupa anche di racconti o testi letterari, che forse non sono sistemi naturali.

No, i racconti, che si possono compiere oralmente, anziché, per esempio, con un balletto, con i gesti e con la musica, sono comunque costruiti sulla base della lingua naturale e quindi risentono inevitabilmente di una organizzazione categoriale della lingua naturale. Pensate alla poesia, dove effettivamente le regole di traduzione ma anche di violazione poetica, tengono conto necessariamente delle regole di base della prosodia naturale della lingua. D’altra parte è vero che la lingua è un carattere naturale, quindi in crescita; dunque queste operazioni di codice non sono naturali; non c’è un codice naturale della lingua. È attraverso i codici descrittivi, cioè i metalinguaggi, che noi descriviamo i sistemi naturali e cerchiamo di renderli omogenei e intelligibili.

Professor Fabbri, cosa si intende per metalinguaggio?

Per metalinguaggio si intende la costruzione di un linguaggio descrittivo che rende conto dei fenomeni del significato. Per esempio, quando si dice “Mosca ha due sillabe” e “Mosca ha sette milioni di abitanti”, la differenza fondamentale è che quando diciamo “Mosca ha sette milioni di abitanti”, parliamo proprio della città, mentre quando diciamo “Mosca ha due sillabe”, parliamo della città di “Mosca”, cioè quella cosa “Mosca”, di sette milioni di abitanti, che è composta di due sillabe. In altri termini, per parlare noi abbiamo bisogno di categorie. Dire, per esempio, che noi parliamo per parole è già metalinguaggio: le parole sono il modo con cui noi parliamo perché abbiamo deciso di rendere queste parole distinguibili.

Le distinzioni che noi facciamo, per esempio, fra sintassi, grammatica, morfologia, lessico, rappresentano categorie che noi abbiamo costruito, che da millecinquecento anni ci trasciniamo dietro e che hanno quindi assunto un grado di alta naturalezza. Tuttavia la caratteristica fondamentale del linguaggio rispetto al metalinguaggio è che il linguaggio naturale non ha bisogno di interdefinizioni, salvo quelle compiute da elementi costruttivi, tipo i dizionari; il metalinguaggio invece deve essere interdefinito, cioè ogni elemento del metalinguaggio deve occupare, rispetto a un altro, una distinzione significativa che lo renda intelligibile rispetto all’altro. Mi spiego: se noi diciamo “sintassi” e poi diciamo “morfologia”, dobbiamo spiegare che la morfologia è il sistema delle forme e che la sintassi invece è il sistema dei modi con cui queste forme possono essere combinate.

Quindi metalinguaggio rappresenta un livello in cui la lingua stessa si interroga dentro di sé e separa alcune sue parti per poter organizzare e meglio comprendere. Il nostro linguaggio non sarebbe affatto omogeneo se noi non avessimo delle categorie interne a esso stesso che lo possono rendere intelligibile. Possiamo tuttavia fare la stessa operazione attraverso altri sistemi di segni; possiamo dividere il nostro linguaggio in categorie, per esempio, logiche, oppure servendoci di una caratterizzazione matematica o aritmetica; tuttavia in ogni caso ci sarebbe un altro livello di lingua che controlla il primo. Questa è una delle caratteristiche straordinarie della lingua: essere nello stesso tempo la grande fonte delle categorie per pensare se stessa.

Quando Lei dice che lo studio semiotico di alcuni sistemi di testi, per esempio visuali, di immagini della danza, o di altre cose, in un certo senso sono possibili perché tutti partecipano della lingua, cosa vuol dire? Vuol dire che tutti questi sistemi di segni hanno dei punti in comune essenziali con la lingua parlata, e che quindi in realtà sono tutti quanti sullo stesso piano, o che dobbiamo presupporre la lingua parlata come più fondamentale, come originaria rispetto a qualsiasi altro sistema di segni e che quindi la linguistica in questo senso sia più “semiotica” di qualsiasi altra cosa?

No. È evidente che noi possiamo ritenere che nella nostra cultura il linguaggio si sia sviluppato in maniera particolare e che il linguaggio verbale abbia, per cosí dire, delegato una sua propria parte alla sintassi (perché in fondo la sintassi non è altro che avere delegato un certo numero di segni linguistici alla organizzazione dei segni stessi) conseguendo una superiore caratteristica di intelligibilità. Tuttavia questo non è esatto, prima di tutto perché esistono altri sistemi di comunicazione altrettanto importanti dal punto di vista del significato: pensiamo, per esempio, che parte del significato non è solo cognitivo, concettuale, ma anche affettivo, si può sempre dire, per esempio, che un’altissima quantità di significato passa attraverso l’odore con la sua specifica organizzazione, mentre non passa attraverso il linguaggio; in casi molto specifici, voglio dire, il contrario è sempre possibile.

D’altra parte l’esperienza di studio dei linguaggi dei sordomuti ci ha dato una curiosa esperienza, cioè abbiamo imparato che alcune categorie fondamentali grammaticali, che noi credevamo caratteristiche delle lingue, come il tempo, per esempio, o la modalità, l’aspetto, il punto di vista, si ritrovano anche nei linguaggi dei sordomuti. Naturalmente potrebbe prendere piede l’ipotesi che il linguaggio dei sordomuti abbia queste caratteristiche proprio perché ha dovuto adattarsi all’assenza del linguaggio verbale; tuttavia questo può condurci alla conclusione molto più importante che alcune categorie che noi abbiamo messo a punto riflettendo sul linguaggio sono in realtà molto più profonde, cioè che le stesse categorie come tempo, spazio, aspetto, soggettività, sono categorie generali di tutti i sistemi di segni, che si sono rese soltanto più specifiche e diverse, a loro modo, nel segno linguistico. Quanto poi agli altri sistemi di segni è evidente, per esempio, che si tratta di studiare quali sono i loro fondamentali meccanismi di significazione.

Faccio un esempio che mi è sembrato sempre persuasivo; esiste, nella struttura della narratività verbale una base minima: la qualificazione iniziale. L’eroe si qualifica per compiere l’operazione – un’azione fondamentale che è il vero fare – l’eroe realizza l’operazione, e molto spesso un terzo momentodi glorificazione, in cui l’eroe e la sua operatività viene o riconosciuta o misconosciuta. Questa operazione, che è soggiacente a milioni di racconti, è una vera regola grammaticale molto elementare (anche se altri tipi di configurazione sono possibili); la si ritrova, che so io, nel profumo del vino, nell’assaggio del vino: quando si percepisce il profumo, si sente che c’è una preliminare apertura, c’è una testa del profumo, che rende competente il naso, lo apre per cosí dire, poi arriva il corpo, si dice, cioè l’odore vero e proprio; sullo sfondo dell’odore appare a volte una coda, che si qualifica rispetto all’odore precedente.

Si può dire che anche il profumo quindi sia un segno…

Voglio dire che il profumo è un segno dotato di significato, ma che la taglia dei modi con cui esso si esprime non è di tipo lessicale. Si ha un gustare iniziale, cioè un momento preliminare qualificante, che apre per così dire le papille, poi c’è, come succede nel retrogusto del vino, il momento in cui sullo sfondo del sapore iniziale appare un altro sapore che qualifica e che chiude la sequenza. Possiamo domandarci se quando facciamo queste operazioni con il vino, con il profumo, noi non siamo soltanto in grado di estrapolare la narratività linguistica, ma di applicare ad un senso la sintassi dell’altro. È quel che si chiama sinestesia.

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