Conversazione con Paolo Fabbri. La simbologia massonica nel ciclo CREMASTER


Da: Nicola Dusi e Cosetta G. Saba (a cura di), Matthew Barney. Polimorfismo, multimedialità, neobarocco, Silvana Editoriale, Milano, 2012, pp. 181-195.


Cosetta G. Saba: Nella letteratura dedicata alla serie complessa di opere CREMASTER Cycle – nonostante le definizioni di “opera polimorfa” (Barilli 2009), di “organismo polimorfo” (Spector 2002-2004), di “Gesamtkunstwerk” (Spector 2002-2004; Taylor 2007), di “Mixed Media” (Pugliese 2007) – è la dimensione “audiovisuale” a costituire l’oggetto quasi assoluto di riflessione e analisi. Spesso, attraverso una significativa esitazione terminologica, la dimensione audiovisuale è ricondotta al ‘film’, al ‘video’ e alla ‘videoarte ‘. Eppure, il CREMASTER Cycle (come definitivamente evidenziato dall’esposizione del 2003 al Solomon R. Guggenheim Museum di New York) consiste in una ‘pluralità’ estensiva di forme espressive diversee variabili (variabilità presentazionale in qualche modo site specific): dall’istallazione generale del Cycle (estensione multi-canale, vetrine eccetera) a puntuali installazioni scultoree di vario tipo che comprendono ‘oggetti’, ‘disegni’, ‘fotografie ‘ eccetera. La riduzione di ‘complessità’ della serie espressiva CREMASTER Cycle alla sola forma filmica, al testo filmico,non ti sembra eluda la ‘sfida’ semiotica che quella complessità esprime?

Paolo Fabbri: Rispondo da semiologo: la complessità polimorfa delle forme dell’espressione va correlata, cioè implicata nella forma dei contenuti, nei loro dispositivi paradigmatici e sintagmatici, tassonomici e sequenziali. La sostanza espressiva, che è materia formata, è correlata in presupposizione con un contenuto. Qui però non vorrei trattare della dimensione alchemica delle sostanze, che comunque ha un ruolo importante in tutto il ciclo. Risolvere il problema di CREMASTER – e in particolare CREMASTER 3, che conosco meglio – in termini di molteplicità dei media impiegati è tautologico. Certo c’è una molteplicità mediale, come anche quella topologica e architettonica: ad esempio, la conformazione del Guggenheim Museum viene utilizzata da Barney non come percorso continuo, ma come spazio discontinuo per un’arrampicata attraverso i diversi piani: è una salita. In un altro momento del CREMASTER 3, all’interno del grattacielo del Chrysler Building si usa un ascensore: ecco un’altra salita. Il problema allora non è l’architettura, ben visibile, bensì il senso di posizione e il significato di quell’orientamento ascensionale per gradi dell’attore-artista. Ci sono poi dei momenti in cui si utilizzano delle sculture, o figure umane o antropomorfe che posano a sculture: possiamo isolarle deificandole con un fermo immagine, ma ne alteriamo il significato. In una cappella barocca, scultura, pittura e scrittura sono integrate in un “bel composto” (Bernini) e possiamo sempre separarle per media espressivi, ma pagando il prezzo del senso della loro articolazione. Preferisco cogliere le correlazioni: a volte Richard Serra, il deuteragonista del CREMASTER 3, disegna calcolati diagrammi di grattacieli o ne esamina modelli tridimensionali, oppure versa vaselina che si rapprende per emergenza istantanea di forme. Possiamo isolarli e inserirli in altri dispositivi, ma non scordiamoci che questo accade in momenti diversamente topici della narrazione. Le parole, e i motivi narrativi inseriti in diversi contesti sintattici, non conservano lo stesso significato. Liberissimi di fare una lessicologia dei motivi di Barney, a me interessa la sua testualità.

Nicola Dusi: Sulla performance di Serra, Valentina Valentini e io abbiamo idee un po’ diverse. La mia ipotesi è che in quel momento di CREMASTER 3 Barney stia facendo una sua performance atletica, che si intreccia con la performance artistica di Richard Serra, di cui il racconto di Barney si riappropria, trasmutando il piombo della storica performance di Serra in un suo materiale, la vaselina. Certo c’è un re-enactment della performance, come dice la Valentini, ma secondo me c’è sia una forma di remix (perché è una ripetizione in cui cambiano le sostanze e le materie), sia una meta-performance, cioè una riflessione sull’arte e la performance stessa. Per la Valentini le performance di Serra hanno una loro poetica molto precisa e inoltre la performance nell’arte degli anni settanta è qualcosa di molto specifico, che non va confuso con quello che fa Barney, il quale le recupera, certo, ma le supera e trasforma in modo innovativo: tu cosa ne dici?

Paolo Fabbri: Non ha senso pensare che o è una cosa o è l’altra. E attenzione, non solo il materiale usato da Serra non è il piombo bensì la vaselina, anche Serra è travestito da se stesso: è attore del racconto di Barney e recita ruoli diversi. Inoltre non bisognerebbe credere troppo alle affermazioni di “poetica” degli artisti: molto spesso sono dichiarazioni di intenti che sono parte dell’opera e non spiegano l’opera. Credo necessario mantenere al discorso critico un certo livello “meta-“, nel senso di un’articolazione che si situa “oltre” il piano del linguaggio artistico; anche se oggi per “meta” si intende qualcosa come un rimescolamento delle forme espressive: per esempio quando diciamo che un computer è una meta-macchina… Tornando al punto precedente: le forme e le sostanze dell’espressione sono di tipo complesso, “inter-” e multimediale eccetera, e si può sciogliere una narrazione nelle sue componenti iconologiche. O trasformare un grande affresco in una galleria di ritratti… A me interessa piuttosto capire come il potenziale semantico dell’universo discorsivo di Barney viene manifestato; come l’espressione attualizza una virtualità di senso, creando una semiosi. Il polimorfismo delle forme espressive, insomma, non rende conto da solo della loro vocazione semiosica. È una strategia di senso senza la quale non si può parlare di teoria del segno. Marcare la complessità artistica di CREMASTER equivale a riconoscere che il senso si realizza nel processo in corso: ora tutte le arti del movimento comportano temporalità, scansioni, configurazioni molto diverse l’una dall’altra, con aspettualità e temporalità specifiche. Una delle cose su cui riflettere è la diversità mediale delle temporalizzazioni. Il cinema lo faceva col montaggio; il video, che funziona come un registratore, lo può fare riprendendo con l’alternarsi di due camere che continuano a registrare indipendentemente.

Nicola Dusi: Nel ciclo filmico CREMASTER c’è l’uso del sonoro, del silenzio dei personaggi e del ralenti, che è molto legato ai modi della videoarte.

Paolo Fabbri: Certo, per la temporalizzazione il sonoro è rilevante, come ho mostrato nel caso del bordone (drone) di Bill Viola. Noi ci aspettiamo che la scansione delle idee e delle sequenze sia definita simultaneamente sul piano della sonorità e sul piano delle azioni: lasciare alle sole azioni la scansione del tempo, la scarica dal missaggio. Ma non è banale sapere che lo spettatore può mettere delle parole ‘inaudite ‘ in bocca a personaggi silenziosi: il missaggio allora è affidato a lui, all’enunciatario.

Nicola Dusi: Vuoi dire che è lo spettatore che completa quello che devono (o possono) dire i personaggi?

Paolo Fabbri: Sì. Ricordiamoci che Fellini ai suoi attori faceva contare dei numeri. Istruiva le configurazioni fisiognomiche dell’impostazione tonale che intendeva ottenere, ma le parole erano numeri. Poi le parole dei dialoghi venivano “rimesse in bocca” dal missaggio. Noi spesso leggiamo i labiali e nell’interazione tra i personaggi aggiungiamo la parola. In un noto testo, Ejzenštejn, ne La natura non indifferente, analizza un dipinto di Surikov, Bojarynja Morozova1, dove il personaggio femminile, su una slitta apostrofa con pathos fanatico una folla di fedeli. Cosa c’è nel vuoto tra loro? La parola, che non è dipinta o scritta, ma che sta allo spettatore catalizzare, completare. Tra la Morozova e i vecchi russi, proprio nella sezione aurea del quadro, percepiamo l’elemento sonoro, l’invisibile voce “plasticamente irrappresentabile“.

Cosetta G. Saba e Nicola Dusi: Il CREMASTER Cycle non sembra definirsi come una forma ipertrofica di “cinema espanso”, ma come un lavoro sulla ‘forma’ o più precisamente sulle ‘forme ‘. La sua composizione è retta da un principio traduttivo (attivo anche nella serie DRAWING RESTRAINT e altrove). Nella ‘conversazione ‘ con Marina Pugliese pubblicata nel nostro volume, Barney sostiene: “So this is maybe the first piece [FIELD DRESSING (Orifill) 1989-1990-2006] I made where I was conscious of this kind of translation and now, you know, it is very inclusive in a program like the CREMASTER Cycle, where the story comes first and there are constellations of objects and these objects are simply taken from the film set and put into exhibition spaces and translated. So they are rebuilt in different materials and often they share properties from two characters of stories or two situations in a story that become one. It has always been a translation for me and this is probably the beginning, not simply taking these things and pieces and placing into exhibition space, but really translate them. And the translation here is more simple then it has become with more recent pieces”.

Paolo Fabbri: Un’accezione particolare, connotativa di traduzione, la quale non si fa mai parola per parola, ma testo per testo. Oggi nelle interviste agli artisti di solito accade che, siccome le opere d’arte contemporanee sono programmaticamente inesplicabili, si chiede di spiegare cosa “vogliono dire” dicendo quel che dicono. La qualità e l’interpretabilità delle risposte in ogni intervista dipende dalle domande: io avrei chiesto precisazioni sul senso di “traduzione”. Insomma, questo testo è un ‘co-testo’, non un ‘meta-testo’. Va spiegato assieme all’opera di Barney e non viceversa.

Cosetta G. Saba e Nicola Dusi: Per provare a spiegare il co-testo, ci pare emergano alcune questioni di metodo. In primis quella che concerne la ‘traduzione ‘ tra sistemi di segni diversi e tra tipi diversi di discorsività che sembra procedere da una ‘base comune ‘: forse dalla ‘narratività’? E, inoltre, come analizzare le trasformazioni indotte dal processo traduttivo (presupposizione reciproca tra forma dell’espressione e forma del contenuto) entro l’insieme dell”opera’ installata (che contiene serie espressive differenti, film, C-print, sculture…)?

Paolo Fabbri: Vorrei fare una distinzione, sempre dal mio punto di vista, per dare un contributo al vostro volume. Il mio punto di partenza è l’organizzazione dei contenuti – inventio e dispositio avrebbe detto la retorica – quindi cerco in Barney, data la complessità delle figure e dei personaggi, la loro stravaganza apparente, di riconoscere un certo numero di codici reperibili a cui non intendo affatto ridurre la complessità dell’opera di Barney. Questi codici, culturalmente riconoscibili, stabiliscono delle isotopie, cioè dei livelli di contenuto coerente, che non ne escludono altri: le immagini di CREMASTER sono shifters di codici diversi2. Io mi sono soffermato sul peso che assume, in CREMASTER 3 specialmente, il codice massonico che articola la semiosi esoterica, cioè la simbolica e la narrazione iniziatica della Massoneria. Quando dico ‘simbologia’ intendo che la cultura massonica ha un lessico finito di motivi, articolato secondo una grammatica narrativa specifica. Motivi largamente diffusi nonostante la pretesa segretezza della società muratoriali, anche se non generalmente riconoscibili, mentre la grammatica invece è meno conosciuta. Eppure, come è stato il caso degli stemmi e dei blasoni, il lessico verbale e iconico massonico ha lungamente irrigato la cultura occidentale, per lo meno dal Seicento: un codice alternativo ai rituali canonici della religione e all’organizzazione ecclesiastica in particolare all’organizzazione gesuitica. E alle personificazioni classiche e cristiane: chi riconosce nell’iconologia della pittura classica i codici del cristianesimo, o del paganesimo, comprenderebbe, per contrasto, la mitologia biblico-egizia del simbolismo massonico. Ho visto persino una mostra di bandiere del vudù – un sistema semiotico ibridante e meticcio – dove erano presenti i simboli dei liberi muratori. La simbologia e la retorica massonica sono strutturalmente metaforiche e criptiche e come tali vengono riprese e rielaborate da Barney. In CREMASTER 3 si trovano dovunque personaggi portatori di insegne massoniche, sui grembiuli, nelle fogge degli abiti, dei copricapi, e altri segni e distintivi: strumenti, cazzuole, compassi eccetera. Si trovano lungo tutto il percorso iniziatico in cui consiste CREMASTER, nel quale il lessico di motivi non spiega il racconto. Infatti, accumulare motivi, simboli o parole non produce frasi, discorsi o narrazioni. Reperire un lessico insolito, ma appartenente a un dizionario riconoscibile, è necessario ma insufficiente: forse per questo molti degli spettatori e anche dei critici se ne disinteressano. Si fermano al meraviglioso e al grottesco delle immagini, mentre a noi interessa e forse spetta riannodare le fila del racconto.

Cosetta G. Saba e Nicola Dusi: Stai affrontando i temi che volevamo toccare: quello che riguarda l’aspetto araldico di CREMASTER e il funzionamento della simbologia massonica del ciclo. Ci chiedevamo, infatti, se è solo un pretesto narrativo o diventa parte di una strategia profonda dell’opera.

Paolo Fabbri: In primo luogo Matthew Barney non è il solo a servirsi della semiotica “latomistica” della massoneria. Anche il Bafometto di Pierre Klossowski – dedicato a Foucault – è l’esplicita parodia delle prove massoniche d’ammissione alle logge, mescolata con racconti gnostici e novelle orientali. Se non riconosciamo il “nero” codice, non ci accorgiamo del ruolo centrale che ha l’iniziazione, che è un processo regolato di trasformazione. Un rito di passaggio dell’adepto dalla vita precedente alla sua metamorfosi in membro della società segreta. Un cambiamento di fase in cui l’iniziato deve apprende a morire, per poter rinascere. Oltre alla simbologia canonica dei motivi, c’è anche una “struttura narrativa canonica”3: il riferimento è al biblico maestro Hiram Abiff, o l’architetto costruttore del Tempio, e alla sua morte sacrificale: e il ‘maestro’, non a caso, è impersonato proprio da Richard Serra. È lui, Hiram Abiff, l’architetto che gioca con l’architettura del Chrysler Building, luogo dell’ascesa dei personaggi. Dotato del suo copricapo, lo vediamo intento a disegnare diagrammi, esaminare modelli del Tempio, maneggiare catene e lastre metalliche che hanno la forma dei due pilastri del tempio salomonico: Jachin e Boaz, e così via fino alla messa a morte cerimoniale. Quando il personaggio principale, l’agonista, simbolicamente attrezzato, sale lungo le corde dell’ascensore del grattacielo possiamo omologare la scena a quella in cui Barney si arrampica tra i piani del Guggenheim Museum. Si tratta di una metaforica ascensione per gradi, nel rispetto delle prescrizioni rituali massoniche. In un altro momento Barney, circondato da accoliti massoni (con i loro cappelli, grembiuli eccetera) viene collocato su una sedia da dentista, o forse da ginecologo, ed evirato o mutilato per accedere alla trasformazione. Allegoricamente trasposta, la scena è minuziosa fino ai dettagli: l’iniziato sottoposto alla prova ha i previsti segni di riconoscimento: una spalla coperta e una scoperta dalla parte del cuore, come vuole il rituale degli apprendisti massoni, messi a morte collettivamente per poter rinascere a un grado diverso. Ci sono quindi dei momenti intermedi, di liminalità (Turner)4 nell’ascesa graduale verso una trasformazione. Nel non-luogo e nel contempo della liminalità abitano i mostri, che non sono errori di sintassi, ma figure complesse e mediatrici. I mostri barneyani, con le donne-felini o gli uomini-dei fauni estratti dal percorso trasformativi dell’iniziazione, sono altrimenti incongrui e incomprensibili. Ecco, nei termini di una logica semiotica tali mostri asessuati, o bisessuati, portatori di protesi, abitanti, si dice, di un mondo ‘post- o pre-human‘ sono l’esito di combinazioni liminali, nelle fasi di passaggio da un grado all’altro, là dove un essere è categorialmente complesso – l’uno e l’altro o neutro – né l’uno né l’altro. Un potenziale semantico che si può attualizzare o realizzare per mezzo di media diversi. Il mondo di Barney è una Wunderkammer, un gabinetto delle meraviglie, una mostra in cui i mostri sono un’ibridazione semantica, resa attraverso un’ibridazione dei media. È quello che chiamiamo semi-simbolismo, una semiosi “motivata”: il mostruoso barneyano non è segnicamente arbitrario: l’ibridazione del significante manifesta l’ibridazione dei contenuti. Quanto all’omicidio rituale del vecchio maestro, esso viene compiuto dall’adepto più perfetto, colui che ha salito tutti i gradi previsti dal dispositivo di differenziazione comunicativa che è caratteristica delle società segrete (Simmel)5. Barney, l’adepto in luogo di Serra, il “gran maestro”. Mi chiedevate se Barney è un ‘meta-Serra’: lo è certamente, in quanto usa Serra, ‘il costruttore’ (che come Hiram conosce tutti i segreti del mestiere), per mettersi al suo posto. All’arte edificatoria di Serra si sostituisce quella del nuovo adepto, che lo priva del potere (il copricapo) e lo sacrifica. Un sacrificio che è anche trionfo e trasfigurazione: per entrambi. Il testo di Barney è una metafora a taglio narrativo, cioè una parabola, che si serve del codice massonico per dire altro: interrogare e svolgere un discorso sull’isotopia delle arti. La traduzione da codice a codice vuol dire che questa iniziazione del personaggio finisce con l’affermazione criptica di una nuova estetica. Una conclusione ovvia? Tutti i testi artistici sono transitivi (rappresentano qualcosa) e interattivi (intercorrono tra qualcuno), ma soprattutto riflessivi, cioè rinviano “autotelicamente” (Jakobson)6 alla propria forma. Nel caso di CREMASTER la transitività funziona come criterio di scoperta. Ad esempio, l’insostenibile scena di tortura sulla sedia del dentista rinvia al rituale di passaggio in cui i membri della società segreta, gli adepti, facevano stendere a terra l’iniziato, poi lo facevano passare sotto le spade sguainate. La sfida vittoriosa alla morte era un operatore di trasformazione, cioè portava all’acquisizione di nuova conoscenza, ossia la condivisione di un segreto. In questo caso è un’iniziazione all’arte, all’arte di Matthew Barney.

Nicola Dusi: C’è anche un’araldica, o un suo bricolage, nei diversi loghi dei CREMASTER.

Paolo Fabbri: Barney pratica un bricolage segnico di antichi emblemi, che erano ‘nomi propri’ dotati di precisi caratteri simbolici e cromatici. Credo che questa ricombinazione araldica sia esattamente la stessa che lui fa quando utilizza i codici e la grammatica narrativa della massoneria. Sta quindi facendo un ‘debranding‘, dei blasoni classici, con cui si sta costruendo il proprio blasone. Era tipicamente questa l’emblematica dei ‘bastardi’. In fondo l’iniziazione è un’espulsione alla rovescia. Il bastardo iscriveva sul proprio scudo delle ‘brisure ‘, cioè dei tratti diagrammatici o delle inversioni cromatiche, per costruirsi un nuovo blasone, per farsi un nome. Barney veste il proprio personaggio di colori irlandesi, ma con kilt scozzese accoppiato a cimieri inventati: fa bricolage di elementi eterogenei – bandiere, colori, loghi – con risultati di simbolismo fantastico. Così l’artista si fa un nome, o se volete il proprio marchio, brand o logo. E fa una nuova mitologia: c’è in CREMASTER 3 una figura femminile seduta che tiene le briglie dei capretti: i colori pervasivi sono quelli delle bandiera d’Irlanda. È una figura bendata, come la giustizia? Peraltro l’inizio e la fine della sequenza massonica sono infisse entro mitemi celtici trattati sul registro del bardo grottesco, che con Sherwood Anderson è almost beautiful.

Nicola Dusi: Quindi tu dici che è una ricombinazione identitaria…

Paolo Fabbri: Certo, un’autoaffermazione, per dire “sono io!”, ma sono anche altro. L’identico e l’alieno genera mostri, come quelli degli stemmi, abitati da personaggi che, a causa della combinatoria matrimoniale, per alleanze di famiglia sono metà aquile e l’altra metà serpente. L’iniziato, novizio per la sua instabile posizione liminale e fuori norma, per il cumulo o la neutralizzazione delle categorie accettate di senso è pericoloso – intoccabile, impuro – e a suo modo santo.

Nicola Dusi: Uno dei problemi pragmatici per uno spettatore del ciclo CREMASTER è quello di trovarsi di fronte a situazioni e racconti quasi ‘esoterici’, misteriosi, ermetici: le istruzioni per interpretarli sono assenti, o meglio sono altrove. Per capire i cinque film bisogna approcciare teorie biologiche e mediche, interessarsi alla letteratura e ai fatti di cronaca degli anni settanta americani, apprezzare la simbologia massonica, conoscere quella legata alla mitologia celtica eccetera. A partire da questa ‘enciclopedia’ complessa sembra pertinente parlare di un uso (e un abuso) del “modo simbolico” (Eco 1984)7, come intreccio spesso gratuito di una nebulosa di contenuti; altri parlano invece di una logica deleuziana del “rizoma” (cfr. qui Mengoni). Che ne pensi? Di fronte a questa complessità cosa deve fare lo spettatore, secondo te? Non è uno spettatore sempre spiazzato, lasciato a se stesso?

Paolo Fabbri: Questo problema è ormai adulto. Se dovessimo spiegar tutto e in anticipo allo spettatore, faremmo come nell’arte del “realismo socialista”: ci fonderemmo su quello che la gente riconosce e diremmo che tutti gli altri fanno “arte degenerata”. Oggi c’è l’altra possibilità, in apparenza paradossale: meno il pubblico riconosce, tanto più enti e musei finanziano i progetti artistici più ermetici e allusivi. È l’antilogia dell’arte contemporanea, da cui discendono i molti successi, ma anche scandali, censure, pubblicità, incomprensioni e fallimenti soprattutto dell’arte pubblica (nelle gallerie è diverso, perché vi si ritrovano già gli iniziati e gli adepti). Si prenda il caso delle Biennale di Venezia, che abbiamo esplorato in due numeri successivi della rivista che dirigo, “Quaderni d’arte contemporanea”8. Per quanto il frame, la cornice situata, indirizzi il pubblico verso l’attesa del sorprendente e del “trasgressivo”, il riconoscimento del valore artistico conduce a proiettare il risaputo. Ma se ogni artista dovesse tener conto del déjà vu, noi avremmo una produzione di tanti luoghi comuni, cioè di tele o di schermi bianchi. Come dice benissimo Deleuze9, nelle tele bianche ci sono già tutti i luoghi comuni visivi, perché tutti i clichés sono pronti a precipitarsi: bisogna quindi in primo luogo svuotare quel bianco dai clichés. Poi, per affermare un’individualità artistica nuova, per farsi un nome, crearsi un blasone con il bricolage dei vecchi simbolismi, è possibile utilizzare codici simbolici preesistenti e pregnanti i cui elementi sono ricombinati in maniera inattesa. Allora un esempio di ormai mezzo secolo fa: Claes Oldenburg scava un buco al Madison Square Garden di New York, lo riempie e afferma di aver compiuto una performance (Goodman)10. Un’azione evidentemente comprensibile solo all’interno della logica del sistema artistico per il quale questo objet trouvé – il buco – possiede un suo senso. Da Duchamp queste attività “immateriali” sono state l’oggetto di una riflessione estetica e di una pratica collezionista ardua a comprendere. Matthew Barney, per contro, nonostante l’esibita mirabilia dei suoi ibridi semiotici, ci offre dei “mostri” resi sistematici dalla loro collocazione nella struttura narrativa soggiacente. Il pubblico intende il senso di queste trasformazioni narrative profonde e accetta quindi il significato criptico delle manifestazioni superficiali del visibile. Questo accade anche quando ci parliamo: la costruzione linguistica non è mai interamente intenzionale ed esplicita perché le regole del parlare diventano visibili solo quando noi le mettiamo a fuoco. Questo però non ci impedisce di intenderci. Non dobbiamo chiedere al pubblico di capire tutto quello che CREMASTER esprime, ma interrogarci su quel che capisce, e resta nello stesso tempo stupito, incuriosito e talvolta incantato. Per la Massoneria dio era “raggiante enigma“!

Cosetta G. Saba: Come si colloca, a tuo avviso, l’operazione di Barney nel contesto dell’arte contemporanea?

Paolo Fabbri: Condivido la tesi di Goodman11 o di Genette12, per cui la domanda incessante ‘cos’è arte?‘ è destinata a restare senza risposta. La sostituirei con quella ‘quando‘ e ‘come’ è arte. Dunque: in circostanze specifiche l’opera è arte e ci sono momenti in cui non lo è: non lo è quando un pubblico è disattento, disinformato eccetera, la guarda senza condividere il contratto di visione artistica. Resta il problema del ‘come’, della sua articolazione, invenzione e disposizione. È di questo che abbiamo discusso fin qui. Ripeto: la domanda ‘cos’è‘, per i semiologi, non merita repliche essenzialiste: noi cerchiamo risposte sul ‘come‘ e sul ‘quando‘. E non si tratta di pigro relativismo, ma di costruttivismo attivo. Particolarmente necessario davanti a un’opera il cui eclettismo e sincretismo mimano quelli del codice massonico.

Nicola Dusi: Questo è ormai quasi rivoluzionario, certo controcorrente. Siamo di fronte a tutta un’ontologia di ritorno, o a una deriva di spiegazioni pseudo-biografiche.

Paolo Fabbri: Ontologia di ritorno e psicologismo di ritorno derivano della mancata capacità analitica del ‘come‘ e del ‘quando‘ è arte. Allora si rilancia sul soggetto e le sue intenzioni consce o inconsce, psicanalitiche o neuroestetiche; oppure sui referenti politico-sociali. Donde il successo delle scorciatoie come spiegazioni: pensate a proposito di Matthew Barney cosa si può dire di generico sull’America: quella di Bush o quella di Obama! Oppure lo si iscrive in una serie che è quella artistica, per esempio nella Body Art: Barney ha studiato medicina ed è un atleta: il somatico prevale dunque sul semantico. Si viene a creare un effetto tunnel: davanti alla complessità ermeneutica e all’assenza di metodi osservativi ci precipitiamo alle cause generiche e in ultima istanza alla singolarità. Resta poi da sapere perché Serra è colpito alla testa e muore alla fine del CREMASTER 3 o perché getti vaselina liquida negli interstizi di un pavimento. E come si articolano i ruoli e l’attrezzeria massonica con la Body Art. L’isotopia muratoriale non basta, naturalmente. Un autore così ibrido e abnorme presenta grandi difficoltà di disimplicazione e rifigurazione (Ricoeur)13. Reperire le sue fonti, come abbiamo fatto con la nera retorica della massoneria, rischia di dissolvere la coerenza acentrica del suo testo. Che fare allora? Ecco la panacea: una buona intervista. È una scorciatoia che si prende quando i sentieri sembrano interrotti. Tanto più interviste, tanto meno analisi; quanta più comunicazione, quanta meno (in)formazione. Chiediamo l’intenzione dell’artista perché non ne sappiamo cogliere l’intentio operis (Eco)14 che non riusciamo a ridurre a una psico-sociologia dei contenuti, né alla complessità dei media espressivi (per gli americani modalities). Chiediamo allora una ‘poetica’, anche se sappiamo che le poetiche variano proprio in funzione dei mutamenti del collettivo, del cambiamento personale e delle variazioni del sistema delle arti (economico, critico, eccetera). Oppure ci accontentiamo dell’aneddoto, razionalizzato in funzione della domanda, della situazione – protagonisti e cronotopo –, o di un certo ruolo e modo che l’artista o il curatore intendono svolgere nel campo simbolico (Bourdieu)15. Insomma, non bisogna rifiutare le interviste e neppure ad esempio le intuizioni di tipo ‘traduttivo’, ma bisogna aggiungere il testo dell’intervista al quello delle opere. Più di quanto dica Barney stesso, CREMASTER 3 nel suo esito definitivo ha influenzato il modo in cui l’artista si trova poi a spiegarlo. L’intervista è strategica quanto l’opera. Se vogliamo spiegare, per meglio comprendere, mettiamole quindi insieme: non costruiamo contesti verbali, allarghiamo co-testi semiotici. Tenendo sempre a mente che la co-testualizzazione dispiega l’intervista, ma non è ‘meta-testo’. Ci sono istanze ‘meta’ in cui l’opera è spiegata dalle interviste, ma è l’opera a spiegarle.

Nicola Dusi: C’è quindi una delega dell’interpretazione al produttore…

Paolo Fabbri: Chiamiamola così: interpretazione delegata.

Nicola Dusi: Per riprendere quello che dicevi sui luoghi comuni: Francis Bacon, secondo Deleuze, li defigura, invece Barney cosa fa? Omar Calabrese parla in questo libro di neobarocco: c’è in Barney una iper-figurazione, un rifigurare. Il cliché invece che strappato viene come ispessito.

Paolo Fabbri: Barney trasfigura. I clichés con cui opera non sono i luoghi comuni, sono dei simboli condivisi, come le espressioni idiomatiche della lingua. Barney riconfigura dei blasoni come un poeta farebbe con le frasi fatte. Pensiamo alla bandiera americana: stars and stripes, perché? Possiamo non sapere perché ha quei colori e quelle strisce e accettarne l’arbitrario simbolico, però è un simbolo comune a partire dal quale tanti artisti hanno operato.

Nicola Dusi: Hai lavorato sulla catarsi e sulla semiotica delle passioni nell’arte. Il pubblico giovane di oggi ha una grande fascinazione per il lavoro di Barney. Secondo te c’è seduzione oppure provocazione?

Paolo Fabbri: Ho detto altre volte che è la taumaturgia, il fascino della meraviglia. I giovani sembrano sedotti e ossessionati dall’orrore al cinema, nelle foto, nelle graphic novels. Credo invece che cerchino il meraviglioso fino all’orribile e al disgustoso: la donna che è in parte ghepardo, ma ha anche le gambe e tacchi di cristallo… Il meraviglioso non è il fantastico, perché mantiene una verosimiglianza: coabitiamo un mondo reale e non solo possibile. Ha ragione Omar Calabrese: se il fine del barocco era “del poeta il fin la maraviglia“, Matthew Barney è poeta neobarocco. Ma non si tratti di effetti erratici. Il pubblico giovane sente, anche sotterraneamente, il modello iniziatico di cui abbiamo parlato. Il passaggio dei gradi nella nostra cultura è comunque ancora esistente, per quanto rallentato e modificato dalla precarietà dei ruoli.

Nicola Dusi: C’è anche un aspetto legato al gusto dell’orrido…

Paolo Fabbri: Sì, l’operazione dentaria i cui prodotti fuoriescono dall’orifizio di un corpo tubolare fa parte del meraviglioso (che contiene anche l’orrido). Non del fantastico, che è piuttosto una dilatazione del possibile. Mentre la meraviglia è, in qualche modo, la passione che ci coglie davanti alla realizzazione anche disgustosa dell’impossibile. Una critica del disgusto? Il tauma è alla radice della speculazione (i greci dicevano: della filosofia). Si può aggiungere: dell’arte.

Cosetta G. Saba: Sia la frequentazione delle mostre che la lettura dei cataloghi (e paratesti vari) orientano a pensare che, sul piano metodologico, nel sistema estetico di Barney in qualche modo si saldino semiotica generativa e teoria delle catastrofi (Petitot-Cocorda)16. Cosa ne pensi?

Paolo Fabbri: La teoria delle catastrofi è una teoria delle trasformazioni del discontinuo e si adatta bene alla trasformazioni di fase del racconto iniziatico. È sempre, necessariamente, saliente, come ho provato a dimostrare nell’unico libro che raccoglie tutti i contributi esplicitamente attribuiti da René Thom alla semiotica17, ma non è pregnante quanto basta alla dimensione figurativa della nostra analisi.

Nicola Dusi: C’è in CREMASTER anche un procedimento di rifacimento o di rivisitazione dei grandi generi del cinema hollywoodiano degli anni trenta e cinquanta (musical, western, gangster movie eccetera).

Paolo Fabbri: Certo, CREMASTER è trans-genre. Un remix di formazioni discorsive, uno shifter di codici e dei requisiti d’identità testuali. Con un’attrazione indubitabile per il periodo trionfante del cinema classico americano: le grandi automobili, i grattacieli, gli ippodromi, gli abiti e le acconciature. Barney fa cinema col cinema. Il codice dei formati standard hollywoodiani è soltanto una parte del cinema e spetta quindi al video e alle installazioni contemporanee mostrarne la natura sperimentale, tralasciata se non abbandonata. Il ciclo CREMASTER ha un formato stupefacente: sono più film fatti di molti episodi dalla durata inverosimile. Barney usa di tutte le convenzioni, dai complessi musicali al balletto fino gli incidenti automobilistici, ma il suo è cinema sperimentale, che prende dalle forme più codificate, l’araldica del cinema tradizionale, per citarle, ironizzarle, trasmutarle imprevedibilmente. E non dimentichiamo che la loggia massonica era un luogo di parola e immagini, ma anche di musica e danza.

Nicola Dusi: Alcuni dicono anche: in fondo è l”America’ di oggi, con tutto il suo crogiolo di razze e di religioni…

Paolo Fabbri: Ma era anche l”America’ dell’altro ieri. È sociologismo vetero e tautologico (ma ci sono sociologi che hanno abbandonato il concetto organico e totalizzante di società!). Tuttavia, se l’arte fa parte della società bisogna sapere come il tutto modella la parte. Allora meglio avanzare l’ipotesi che non sia la società a modellare l’arte, ma l’arte che interpreta la società. Come la scienza, risponde alle esigenze collettive, ma le disimplica e le rifigura. Proponendo nuove forme, le arti strutturano la comunità, la fanno divenire e diventare diversa dai vecchi ordinamenti. La società americana fa i film di Matthew Barney, ma fa anche i film di Hollywood, fa anche Avatar (2009) che è un film western classico, con i buoni e i cattivi, quelli che portano la ferrovia all’interno del West e gli indiani delle riserve che combattono a difesa della loro terra, il positivismo delle macchine contro il naturalismo degli alberi (‘cultura’ contro ‘natura’). Non dico che per altre cose non sia interessante, ma dal punto di vista narrativo Avatar non dice niente di nuovo ed è un esempio di mondo fantastico, non è il meraviglioso di CREMASTER.

Cosetta G. Saba e Nicola Dusi: Chiudiamo riprendendo qualcosa che accennavi all’inizio della nostra conversazione: CREMASTER è una nuova mitologia. Perché secondo te c’è questo bisogno nell’arte contemporanea, perché funziona (a parte l’enorme sforzo produttivo che c’è dietro, chiaramente)?

Paolo Fabbri: La cultura contemporanea non cessa di produrre segni e blasoni: basti pensare alla generazione semiotica dei nazionalismi e a quella commerciale dei marchi di fabbrica. Eppure continuiamo ad autodefinirci secondo una “latente asimbolia” (Roland Barthes). Una rimozione della dimensione simbolica e una conseguente focalizzazione naturalistica sull’esteriorità fisica o l’interiorità cerebrale. Barney, per contro, deve il proprio successo alla dimensione vistosamente simbolica e ritualistica la cui esigenza popola l’immaginario contemporaneo. Un esempio attuale? Lo zombie. È la figura molteplice di un automa di carne, avido cannibale privo di cervello (lo si può uccidere solo sparando là dove non ha niente!) che ci attrae con una strana interrogazione: “Cosa sarebbe un uomo sprovvisto interamente di cervello, ridotto ai suoi istinti?”. Non è una domanda referenziale, ma un esperimento di pensiero per le scienze cognitive. Credo che anche Barney sperimenti nell’ultra-umano e sappia che l’anti-ritualismo contemporaneo è solo una variazione del regime dei segni.

Nicola Dusi: Fa cioè una sperimentazione di mondi, cosa che fa parte del fascino delle sue opere?

Paolo Fabbri: Sì, una sperimentazione costruttiva di mondi. Rimuovere la dimensione simbolica ci sottrae il fascino criptico dell’opera di Barney. Non basta quello che lui dice della sua arte, i precedenti biografici o i problemi psicologici, o la situazione sociale, culturale, estetica, davanti a un personaggio vestito in maniera stravagante che trasporta oggetti incomprensibili, si arrampica sugli ascensori di un grattacielo o sulle terrazze (o si stende su lettini di gommapiuma messi sui corrimano) del Guggenheim Museum. Senza pretese totalizzanti, la semiotica ci permette di articolare l’intelligibilità di alcuni piani di questa singolarissima costruzione testuale e discorsiva.

Nicola Dusi: C’è, a tuo avviso, della figuralità in questa articolazione, in questo remix dei materiali e delle forme?

Paolo Fabbri: Sì, la comprenderei nella prassi del bricolage, di cui dicevamo. Questo prelevare e mescidare “i frantumi simbolici del mondo”, di cui scriveva Calvino nelle Lezioni americane. L’atteggiamento della semiotica è prima di tutto definizionale: gli elementi vengono sciolti in grappoli di categorie, con le loro relazioni gerarchiche per poi disporli, gerarchizzarli, metterli in serie, sequenze, per processarli. È importante però tener conto delle scelte che presiedono a questo bricolage. Le avanguardie lo facevano tirando i Ching, come Cage o Fellini, o giocando di combinatoria, come gli oulipisti con i loro calcoli aritmeticomatematici. Barney lavora come un illuminato per emblemi e allegorie. Un modo communincantatorio, direbbe il poeta J. Roubaud.


Note

  1. L’analisi del quadro di V.I. Surikov dal titolo Bojarynja Morozova si trova in S.M. Ejzenštejn, La natura non indifferente, Marsilio, Venezia 1992, IV, I, pp. 24-27 (ed. orig. 1964). torna al rimando a questa nota
  2. Per il concetto di shifter (connettore tra livelli linguistici o semiotici diversi) si veda in R. Jakobson, Essais de linguistique générale, Minuit, Paris 1963. torna al rimando a questa nota
  3. Si veda A.J. Greimas, Du sens II. Essais sémiotiques, Seuil, Paris 1983 (trad. it. 1985). torna al rimando a questa nota
  4. V. Turner, Dal rito al teatro, Il Mulino, Milano 1986. torna al rimando a questa nota
  5. G. Simmel, Il segreto e la società segreta (1906), ora in Sociologia, Einaudi, Torino 1998. torna al rimando a questa nota
  6. Jakobson, Essais de linguistique générale cit. torna al rimando a questa nota
  7. U. Eco, Semiotica e filosofia del linguaggio, Einaudi, Torino 1984. torna al rimando a questa nota
  8. “Quaderni d’arte contemporanea”, Et al. editore, Milano. torna al rimando a questa nota
  9. G. Deleuze, Logique de la sensation, La Différence, Paris 1981 (trad. it. 1995). torna al rimando a questa nota
  10. N. Goodman, Languages of Art: An Approach to a Theory of Symbols, Bobbs-Merrill, Indianapolis 1968 (trad. it. 1976). torna al rimando a questa nota
  11. N. Goodman, Ways of Worldmaking, Hackett, Indianapolis-Cambridge 1978, (trad. it. 1988). torna al rimando a questa nota
  12. G. Genette, L’Oeuvre de l’art. Immanence et transcendance, Seuil, Paris 1994, vol. I. (trad. it. 1999). torna al rimando a questa nota
  13. P. Ricoeur, Du text à l’action. Essais d’herméneutique II, Seuil, Paris 1986 (trad. it. 1989). torna al rimando a questa nota
  14. U. Eco, I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano 1990. torna al rimando a questa nota
  15. P. Bourdieu, Le sens pratique, Editions de Minuit, Paris 1980 (trad. it. 2003). torna al rimando a questa nota
  16. Jean Petitot-Cocorda, Morfogenesi del senso. Per uno schematismo della struttura, Bompiani, Milano 1990 (1985). torna al rimando a questa nota
  17. R. Thom, Morfologia del semiotico, a cura di P. Fabbri, Meltemi, Roma 2006. torna al rimando a questa nota
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