Un viaggio nel Jazz


Intervista con Filippo Bianchi, PAN, Performing arts network, Milano, febbraio 2000.


In un recente articolo citavi Robert Louis Stevenson: “la letteratura è l’ombra di una buona conversazione”. Potremmo sostenere per analogia che la partitura è l’ombra di una buona improvvisazione?

Secondo il luogo comune, quando si parla di linguaggio si hanno in mente i testi, ma nel caso del jazz la conversazione parrebbe un’affinità ben più aderente. La metafora linguistica, peraltro, è terreno scivoloso, perché prevede che ci siano equivalenti di parole, e in musica non saprei dove trovarli: non vedo perché una nota sarebbe l’equivalente di un fonema o di una parola; e poi contempla la sintassi, cioè un sistema di regole, di elementi che combinati fra loro danno delle frasi e poi dei testi. Ora questo sarà pur vero nel caso di una musica di esecuzione, fondata su una partitura immutabile. Ma il linguaggio non è per definizione un testo isolato, bensì l’incrocio del dialogo tra uomini che si scambiano parole, altrimenti la lingua non avrebbe ragione d’essere, non capisco perché uno parlerebbe del mondo se non avesse qualcuno a cui parlarne…

Che può ascoltare, se del caso replicare, interagire…

E così il jazz diventa appunto il parametro della conversazione, del linguaggio… Non mi convince la tesi che la musica sia linguaggio perché è un insieme di regole grammaticali che permettono di produrre testi riconoscibili, fruibili e godibili; trovo invece che il jazz possa essere linguaggio proprio perché è conversazione. Aggiungo che il jazz sarebbe anche un prototipo del linguaggio conversativo, perché accade in praesentia, come la conversazione. Certo è anche possibile ascoltare una conversazione registrata, ma la registrazione è ormai già diventata un testo…

Perché tutto è già successo…

Precisamente: la registrazione si ascolta in absentia. In una società mediatica, dove tutto è mediato dal medium che lo trasporta, il jazz diventa il prototipo dell’evento presente. Di più: il mio prototipo del jazz in questo senso è il free jazz; lì la metafora della conversazione non è quasi più una metafora, è al limite.

È una realtà, “the thing”…

Sì, un modello. Prendo due esempi semplici della conversazione: in primo luogo, come comincia? È evidente che l’apertura accade generalmente con delle forme rimate. Per esempio “ciao – ciao”, “come va – come va”, “buongiorno – buongiorno”. L’entrata in conversazione comporta quelle che in inglese si chiamano “the accent pairs”, paia di accenti. Ma è così anche nella chiusura. Come si sa, nel jazz ci sono dei riti, piccole cerimonie di attacco dove creiamo le “paia di accenti”: uno apre e l’altro risponde. Non si entra da soli, ma in qualche misura su una rispondenza, e la prima unità può essere anche non sonora: un gesto, un’occhiata lanciata all’altro. Il punto fondamentale non è produrre due suoni che si seguano e facciano rima: è stabilire due turni. Le conversazioni non sono fatte di suoni e parole, ma di turni. Per esempio, a un certo punto faccio un gesto di stupore e l’altro attacca spiegando, ma è già una risposta. Ora, l’errore linguistico è di pensare che il silenzio sia assenza di linguaggio: il silenzio è un turno. Se tu mi passi il turno dicendo “tu che ne pensi?” io posso anche tacere…

Basta sentire Monk o Davis per capirlo… i loro silenzi sono quanto mai significativi…

Esatto. Quindi la cosa che mi interessa è che gli attacchi, nella conversazione, non sono necessariamente sonori, ma possono seguire un ritmo interiore, o implicito. Idem per la chiusura. E sappiamo tutti che una delle problematiche della free music è come chiudere…

Ed è anche una delle ragioni di maggiore soddisfazione quando la chiusura viene bene: i musicisti si guardano tra loro e fanno “yeah”, è andata…

Allora il punto è come chiudere senza averlo già deciso prima. Questo in realtà non è soltanto un problema del jazz, è la natura profonda della conversazione, cioè del rapporto fra uomini, nel quale può capitare di tutto. Pensa all’esempio banale della conversazione telefonica: “scusami, un amico mi aspetta, ciao ciao”; dico ciao due volte anticipando la risposta dell’altro… se non c’è un qualche ritmo di chiusura, una rima di turni, non si chiude nulla. Si può formulare una sospensione. Ma la sospensione chiede all’altro il completamento, e di nuovo siamo nel turno, cornice fondamentale dell’improvvisazione e della conversazione, che sono creazioni istantanee di testo. Il luogo comune vuole che in questi testi improvvisati prevalga l’infrazione della norma. Io direi piuttosto il contrario: siccome non siamo tutti scrittori, la maggior parte delle persone usa il linguaggio in maniera improvvisata, quindi mi pare che semmai l’improvvisazione sia la regola.

Ed è anche la regola della vita, quindi se il linguaggio è metafora della vita, siamo lì…

È chiaro. La regola ammette che quando ci passiamo il turno, uno dica una cosa, l’altro gli risponda, il primo ci ripensi, ecc. Poi esistono le conversazioni normate, cerimoniali, per cui alla domanda “lei vuole prendere in moglie questa signora, dica sì”, io devo rispondere “sì”, se dico “d’accordo” non vale. Ma i discorsi rituali sono isole di eccezioni. La regola è l’improvvisazione: il jazz… E nelle conversazioni ci sono sovrapposizioni, buchi, false partenze, stonature. Conversazioni stonate ce ne sono una quantità straordinaria, anzi, per definizione, il problema della sistema che io chiamo meta-conversativo, o se vuoi meta-jazz. Il meta-jazz non è un secondo livello normativo, è dentro, è compreso, è uno degli strati che non avremmo mai nel mediato e che però viene integrato come testo: non è una serie di regole che dice come funziona il linguaggio, è uno degli strati del linguaggio. Le improvvisazioni di istruzioni sono importanti come le improvvisazioni di suoni, sono una fase essenziale della ricerca del “momento giusto”… ma questo è la vita. Il jazz è la vita in qualche misura. Nel senso che la lingua è la vita, è una simulazione. Che contempla l’evento felice, il momento in cui miraco conversazione è che deve dispiegare un’enorme attività per essere sostenuta. Gran parte della conversazione è destinata a sostenere la conversazione. E poi la conversazione prevede gestualità. Quel che mi affascina di più quando ascolto jazz, è proprio l’attività gestuale: le direzioni degli occhi, la postura, l’orientamento dello strumento che cerca risposta; tutti questi elementi sono importanti quanto le sonorità o gli schemi armonici, perché è chiaro che quando abbasso o alzo il tono e accenno alla mia fine sto simultaneamente offrendo all’altro il turno. In questo senso l’aspetto semiotico non sono i segni sonori, ma è tutto il losamente “casca” la rima perfetta. Quando accade nella vita quotidiana, quando diciamo tutti e due inaspettatamente la stessa parola, facciamo “flick e flock”, lo festeggiamo come un evento. È quella festa del linguaggio che non si cessa mai di celebrare.

Quando accade nel jazz si dice appunto: “it’s happening”. Sta succedendo…

Quando accade nella conversazione brillante si dice “stasera eravamo tutti intelligenti”… È evidente che non può funzionare sempre.

E forse è il suo bello…

E la poesia lo sapeva, infatti allo scopo aveva preparato una serie di cliché, che rivaluterei. Il cliché non è un male e l’improvvisazione non è la rottura del cliché. Anzi, il cliché (nel jazz si direbbe il pattern) è al servizio dell’improvvisazione, serve ad attivare momenti. Pensa agli anagrammi di Saussure. Secondo lui a volte i nomi propri servono come cliché, per cui tu hai un nome, lo disperdi nei suoi suoni e te ne servi come impalcatura per fare un verso. Eempio noto della nostra letteratura: Leopardi, A Silvia, “il limitare di gioventù salivi”, in cui “salivi” altro non è che l’anagramma di Silvia. Si chiama paranomasi: prendi un nome e con i suoi materiali fonetici costruisci il verso. Succede anche in musica. Ho l’impressione che il cliché sia un groppo sonoro, una sequenza interna, che diventa come un anagramma sonoro, chiamiamola anafonia (non siamo nel gramma, ma nel fono). C’è un’anafonia, come c’è un anagramma. Questa operazione, che è vera in poesia, è vera anche nel jazz, e ciò proverebbe semplicemente che il jazz è l’utilizzazione poetica della conversazionalità del linguaggio. Che poi sia necessario restringere, trovare delle routine che diventino però la fonte di nuove cose, mi pare del tutto naturale.

Sostieni da tempo che il simbolo di base, la parola, non vuol dire molto se non è accompagnato da tutti quegli elementi – intonazione, pronuncia, intenzione, volume – che concorrono a formarne il significato. La banalità dice che il jazz è nato dalla coniugazione dell’armonia europea con il ritmo africano. In realtà, all’origine il ritmo è ancora quello del tamburo militare scozzese, la poliritmia viene dopo, e il primo elemento di grande novità del jazz è giusto la pronuncia. Se Armstrong avesse suonato come una tromba sinfonica, ci potevi mettere sotto tutta la poliritmia del mondo ma non avresti avuto il jazz. Armstrong è Armstrong perché la sua pronuncia è estranea a tutto quello che è successo prima…

Come il dito dritto di Monk…

Già. Allora, la domanda è: forse le regole ci hanno espropriato di possibilità che erano lì e che la norma ci ha indotto a non usare? È il discorso delle blue notes, che pure ti sta a cuore. Le blue notes non sono altro che un’estensione lessicale, una possibilità…

Torniamo all’equivoco per cui da una parte ci sono le regole e dall’altra la trasgressione. È il contrario: le blue notes, il suonare col dito dritto, un certo modo di soffiare dentro qualcosa, sono apparentemente violazione di regole, ma in realtà sono estensioni di possibilità che rivelano come la regola fosse una forma restrittiva. È successo anche nella musica contemporanea: pensa ai silenzi e agli strumenti “preparati” di Cage. Non è che prima viene la prosodia e poi il verso libero: l’interessante è la reinvenzione di nuove regole che dimostrano molte possibilità laddove prima ce n’era una. L’idea del jazz è che la totalità delle sonorità è poetica, e che la restrizione che ne era stata fatta era in realtà una canonizzazione testuale con il modello se vuoi del soliloquio. Io ovviamente vengo da altri percorsi. Negli anni della giovinezza è stato importante l’incontro con la sociologia durkheimiana. In quella scuola, Maurice Halbawachs sosteneva semplicemente che il mondo è fatto di regole e la nostra apparente libertà è l’esecuzione di una regola sottostante. In questa ipotesi, molte possono essere le esecusioni di uno spartito, ma il testo è uno: possiamo vestirci come ci pare ma secondo una regola soggiacente, nessuno di noi porta la gonna… L’idea di Alfred Schutz, ebreo allievo di Husserl, scappato dalla Germania, come Adorno e tanti altri, è ben più seducente. Schutz arriva in America, scopre il jazz e comincia a elaborare una sociologia di tutt’altro segno: la società non è l'”esecusione di uno spartito di regole”, ma è “making music together”… E con questa formula straordinaria titola la sua opera. L’etnometodologia, la sociologia californiana, vengono da quest’idea: il sociale è molto più “far musica insieme”, gioco di turni, di arrangiamenti, che non regola. Secondo Shutz, l’universo di senso del jazz è uno dei modi per capire meglio come funzionano le cose. Una rivelazione per chi, come me, era abituato a pensare il mondo come regole codificate la cui eventuale trasgressione o esecuzione differenziata garantisce fenomeni di libertà, come nella visione dell’artista romantico.

Un altro aspetto del jazz che ti sta a cuore è il pidgin, il bastardo “generato da molteplice seme”, avrebbe detto Artaud… Se parliamo di America multi-etnica, il jazz è stato uno dei rari luoghi di conciliazione, in cui ognuno si riconosce. Forse la sua eccezionale longevità è dovuta anche a questa indole permeabile?

Il grande Hobsbawm, come sappiamo, era devoto a Sidney Bechet, e non aveva dubbi che il jazz fosse – assieme al cinema – l’arte del XX secolo, assai più che, poniamo, il cubismo o il futurismo… Quanto alla questione del pidgin, del creolo, credo che sarebbe interessante studiare il jazz come si è fatto con i linguaggi. Laddove ci si è accorti che quando due lingue si incrociano, restano separate finché non ne generano un’altra che fa da “quadro generale”, che consente alle due di tradursi all’ombra della terza. Quel che succede in questi casi è un fenomeno iniziale di impoverimento, in cui si tolgono le regole di sintassi, si parla con lessici poveri, parole monche, non declinate, non coniugate… Ma questo è soltanto il primo momento di un processo che conduce alla riclassificazione, a una nuova sintassi. E allora abbiamo il creolo, che è lo sviluppo autonomo di un pidgin impoverito. Il jazz ha anticipato ciò che ora avviene nel mondo intero, e cioè la creolizzazione della lingua. Ha avuto momenti pidgin, e forse continuerà ad averli, e momenti creoli. Procede per progressi e regressi, ma questo non arresta la sua evoluzione. Che non è lineare. Sappiamo che prima c’erano i pesci, poi i rettili, poi gli uccelli e così via. Ma non è che quando compaiono i mammiferi i rettili spariscono: restano lì. Un termine del jazz che mi pare fuorviante è mainstream, ho sempre pensato che lo sviluppo di quest’arte fosse semmai rizomatico, reticolare. Se il jazz fosse davvero un’evoluzione lineare, a questo punto sarebbe già finito. Invece ci sono momenti di magnifico equilibrio, ma anche momenti di sterminio, di vuoto, di ripensamento e ricollocazione. E quando attraversa queste fasi sopravvive comunque, ritirandosi nelle catacombe. Che – è bene ricordarlo – erano luoghi in cui si viveva, e c’era di tutto: le cave di pozzolana e di tufo, gli allevamenti di animali, le canalizzazioni dell’acqua, le chiese, i cimiteri… Siccome è vitale, il jazz evolve anche quando è represso, in forma quasi cimiteriale. Ecco perché continua…

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