La cucina, opera d’arte totale


Gianfranco Marrone, Doppiozero. Progetto editoriale non-profit, pubblicato online il 16 aprile 2013.
http://www.doppiozero.com/rubriche/15/201304/la-cucina-opera-d’arte-totale


All’Osteria francescana, dice Massimo Bottura, guardiamo al mondo da sotto il tavolo. Affermazione quanto meno singolare che, per questo, merita rispetto e considerazione. Bottura, sappiamo, è al momento uno dei migliori cuochi italiani, e il suo ristorante modenese un luogo di pellegrinaggio per gastrofilosofi di qualsiasi taglia, tutti pronti a rendere omaggio alle tre stelle del momento. Bottura cita Ai Weiwei e Joseph Beuys, mostrando video raffinatissimi in cui il processo di creazione dei suoi piatti viene messo in scena come un vero e proprio andamento artistico che non rinuncia, comunque, a un’attenzione costante per quanto accade nel mondo. Racconta di come, dopo il recente terremoto di Mirandola, abbia preparato una cupa sbrisolona col lambrusco, sorta di grido di dolore e di riscatto per la terra offesa.
La relazione fra Cibo, Filosofia e Arte è stata discussa in un ricco convegno così intitolato che si è tenuto il 4 e 5 aprile scorsi a Pollenzo, minuscola frazione di Bra (Cn) dove ha sede dal 2004 l’Università delle Scienze gastronomiche, strategicamente legata al movimento di Slow Food. Convegno nel corso del quale, appunto, Bottura ha potuto e voluto incontrare studiosi, gastronomi, giornalisti, cuochi e artisti vari, tutti là a discettare, con pazienza e metodo, sul senso e gli obiettivi della cucina contemporanea.

Al di là delle crescenti mitologie mediatiche di quella che una volta si chiamava gourmandise e dei loro ambivalenti esiti nell’universo dei consumi, al di là del ruolo da piccoli guru talvolta impersonato da taluni chef, e al di là delle rivendicazioni neoetniche spesso nascoste dietro certi localismi alimentari di provincia, è indubbio che oggi la cucina sia fenomeno di gran rilievo. E che per questo vada accostata, quanto meno per misurarne somiglianze e differenze, con il mondo della riflessione filosofica e quello delle pratiche artistiche. Da qui l’idea dell’incontro, e la sua felice realizzazione, a opera di Nicola Perullo, filosofo da anni impegnato in quella che in un suo libro ha chiamato ‘gastronomia laica’, dove l’estetica filosofica tradizionale incrocia il mondo del cibo e del vino, in un interscambio concettuale e pragmatico tanto fruttuoso quanto, ancora, sostanzialmente misconosciuto (si veda il suo recente Il gusto come esperienza, Slow Food editore).
A Pollenzo, con Perullo e Bottura c’erano, fra gli altri, il semiologo Paolo Fabbri, l’estetologo Richard Shusterman, il musicista Roy Paci, il cuoco Davide Scabin, il critico Andrea Petrini e, da non trascurare, un pubblico foltissimo e parecchio interessato che ha raggiunto quel luogo non proprio centrale o metropolitano per cercar di capire, tutti insieme, che ne è di quella che, da qualche tempo, possiamo appellare ‘gastromania’. Al di là delle differenze dei punti di vista, il nemico comune è stato già da subito abbastanza chiaro: la celebre condanna platonica della cucina, intesa come tecnica praticona da accostare, nemmeno all’arte (che il filosofo greco, com’è noto, non amava), ma alla sofistica, sorta di imbroglio tanto abbacinante quanto effimero che, riempiendo gli stomaci, annebbia la mente.
La cucina, non può essere arte, s’è ripetuto così per secoli, perché gli oggetti da essa prodotti si consumano, letteralmente, ingoiandoli. Oggi le argomentazioni in materia sono molto diverse, sia perché l’arte in quanto tale ha da tempo perduto i suoi più triti agganci ontologici, sia perché si comprende con maggiore lucidità il fatto che la cucina non è soltanto una tecnica più o meno accurata per sfornare pietanze con cui alimentarsi o, alla meglio, manicaretti di cui ingozzarsi. Il prodotto gastronomico, da un lato, si trasforma e ci trasforma senza sosta e, dall’altro, non si esaurisce affatto nell’oggetto da mangiare, sia esso ingrediente, boccone, piatto o pasto.

La cucina, ha sottolineato Fabbri ricordando il caso dei futuristi, è un’opera d’arte totale, includendo al suo interno tutto quel lungo processo che dalla lavorazione delle materie prime arriva sino alla loro trasformazione ai fornelli, ma continua poi in sala, dove l’intero ambiente della ristorazione è coinvolto nell’esperienza gastronomica. Le cene futuriste di Marinetti e soci, come si tende spesso a dimenticare, erano vere e proprie performances in cui erano all’opera nello stesso momento teatro, musica, danza, design, arti visive, abbigliamento, profumeria e qualsiasi altra attività potesse contribuire all’elaborazione, non di particolari pietanze, ma di un generale stile di vita di cui la cucina era al tempo stesso elemento e totalità, stimolo di partenza e costruzione d’insieme. Dire che le creazioni culinarie futuriste erano e restano immangiabili, da questo punto di vista, è una banalità analoga a quella di sostenere, poniamo, che la pittura cubista è inguardabile o la letteratura dadaista illeggibile. Quel che conta è, come sempre, che esse contribuissero fattivamente all’ipotesi estetica di una ricostruzione dell’intero universo, esistenziale come sociale, artistico come quotidiano.
Il sogno di Wagner si stempera così tra forni e frigoriferi, fruste e cucchiai, sbattitori e microonde. Lo aveva ben capito, manco a dirlo, la solita Babette, icona vittoriosa della gastronomia contemporanea che dalle pagine della Blixen e dalla pellicola di Oz ci ha insegnato che con un sapido brodo di tartaruga e un Veuve Cliquot d’annata si possono smuovere anche le più solide credenze religiose. Babette, si ricorderà, per preparare il suo celeberrimo pranzo deve innanzitutto andare in cerca degli ingredienti necessari. E li va a cercare nella natia Francia. Ma cosa importa nel paesino delle sue ospiti beghine? Carriole di ricercate bottiglie e spaventose testuggini, è noto. E poi? Diciamo che ricostruisce nella casa delle sue tristi ospiti un intero ristorante: e fa arrivare tovagliato, argenteria, bicchieri, caraffe, candelieri, pentole, padelle, perfino un ragazzino rossiccio che l’aiuta in cucina e sa servire al tavolo.

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